L’epistemologia falsificazionista come oscurantismo
di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
A Mauro Orlandi
Dopo la grande fioritura tra inizio Settecento e inizio Ottocento, la filosofia, anche dove essa professa di legarsi alla scienza e prende il nome di epistemologia, si è inabissata in un oscurantismo che trova inopportuna la verità e si sforza di eluderla senza neanche più comprendere cosa essa indichi. Eppure «verità» ha un significato preciso e universalmente noto, quello di accordo tra concetto e realtà. Che essa sia un accordo tra il diritto del soggetto e quello dell’oggetto determina a priori le forme in cui la si rifiuta: da una parte il torto contro il soggetto, che consiste nel sacrificarne la libertà, dall’altra il torto contro l’oggetto, che consiste nel sacrificarne l’essere. Questa doppia forma di aspirazione al falso illumina i possibili conflitti tra le scuole filosofiche degli ultimi due secoli. Il rifiuto del diritto dell’oggetto è trasparente in ogni atteggiamento idealistico che lo riduce a fenomeno soggettivo; qui la filosofia si condanna a una regressione narcisista per cui il soggetto è il senso, l’oggetto è l’insensato, il meccanico, il semplicemente modificabile dall’arbitrio. Questa strada, in fondo già predeterminata nella distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa, è abbracciata nel 1800 non solo da vari idealismi, ma anche da Schopenhauer e Kierkegaard e seguita dai loro discepoli: Nietzsche da una parte, l’esistenzialismo dall’altra, compresa la sua versione ontologica che squalifica l’oggetto empirico come ‘ontico’ di contro al vero oggetto. La seconda strada per l’inferno, quella che disconosce il diritto del soggetto, si manifesta nel disprezzo del linguaggio e della teoria, dunque nel crederli mezzi artificiosi ed essenzialmente inadatti per raggiungere l’oggetto: nel positivismo, in particolare nella sua versione novecentesca, l’oggetto è come la cosa in sé kantiana; il soggetto getta reti nel suo mare, le teorie; esse però non possono abbracciarlo, ma solo sottrargli qualche pesce.
Mentre il cosiddetto idealismo tedesco perseguì con accanimento una filosofia della natura in cui le teorie scientifiche particolari, dalla matematica al diritto, fossero valorizzate come momenti della verità complessiva, il positivismo ottocentesco disconobbe l’intimo rapporto tra filosofia e scienze. Nella sua legge dei tre stadi Comte ha stabilì una differenza tra metafisica orientata alle essenze e scienza orientata alle leggi sulla base dell’ignoranza dell’identità tra universale e legge. È sempre stato ovvio che l’universale non significhi soltanto il quantificatore ‘ogni’ o ‘tutti’: per Aristotele l’universale è innanzitutto ciò che si predica di più oggetti, non di tutti, dunque un termine definibile. Poiché ogni definizione è una legge, universale è innanzitutto un oggetto determinato da una legalità; i quantificatori universali, ‘ogni’ ‘tutti’, sono invece determinazioni ulteriori della prima universalità[1]. Ogni nome comune, prima ancora della sua eventuale forma universale o particolare, è dunque universale: triangolo, a prescindere che se ne consideri uno, qualche o tutti, è un oggetto universale: definito cioè secondo qualità e quantità da una legge. E l’universalità della legge, estesa su più singoli, che precede dunque la forma universale del tutti, è l’essenza a cui mira la scienza. La separazione tra essenza e legge, posta da Comte e seguita dai positivisti, si riduce dunque a un fraintendimento indotto dalla volontà di rompere i ponti con la tradizione[2]. Le conseguenze della separazione sono importanti. Mentre l’essenza, essendo il nucleo razionale dell’oggetto, comunica necessariamente un senso al soggetto, e questa comunicazione è la verità, la legge positivista, che rifiuta di essere essenza, che dunque non vuole avere nessun senso, deve essere raffigurazione della cosa nella sua estraneità insensata; la legge, la cui formulazione è la vittoria sull’estraneità della cosa e l’evidenza della verità come armonia tra il soggetto e l’oggetto, nell’ottica del positivismo è degradata a raffigurazione insensata dell’empiria percettiva insensata, del fatto, utile ormai solo alla trasformazione della natura ai bisogni contingenti dell’uomo.
L’evoluzione delle scienze è andata però nella direzione opposta a quella del placido ampliamento empirico previsto nel positivismo: non solo la matematica dell’Ottocento si popolò di teorie lontane dall’empiria percettiva, la fisica del tardo Ottocento ruppe con la metafisica elementare sottesa alla fisica newtoniana, si allontanò dall’empirismo comune e tornò ad accostarsi virtualmente alla filosofia. La filosofia non fu però in grado di rigenerarsi in questa convergenza: il venir meno del paradigma di Newton (beninteso non della sua fisica) non fu la ricostruzione di una filosofia della natura adeguata alle evoluzioni della scienza, ma la genesi di una polemica antiscientifica nobilitata dalla sigla di neoidealismo. Per esempio Bergson considera il tempo della scienza un artificiale irrigidimento del tempo vero, della durée; Klages considera lo spirito scientifico come antagonista dell’immagine psichica. Nulla può però mostrare la distanza, anzi il contrasto radicale, tra neoidealismo e filosofia hegeliana a cui esso diceva di ispirarsi, quanto il contrasto tra il termine ‘pseudoconcetto’, con cui Croce ha indicato i termini delle scienze empiriche, e questo passo dell’«Enciclopedia delle scienze filosofiche»: «In riferimento alla prima universalità astratta del pensiero, ha un senso esatto e profondo osservare che lo sviluppo della filosofia è dovuto all’esperienza. Da un lato le scienze empiriche non si arrestano alla percezione di singolarità fenomeniche, ma tramite il lavoro del pensiero avvicinano la materia alla filosofia trovando le determinazioni universali, generi e leggi; così preparano quel contenuto del particolare in modo che possa essere assunto nella filosofia. D’altro lato esse contengono anche l’impulso per il pensiero a procedere verso queste determinazioni concrete. Nell’assumere questo contenuto il pensiero sopprime l’immediatezza ancora presente e l’essere-dato, e insieme si sviluppa da se stesso. In questo modo, mentre è debitrice del suo sviluppo alle scienze empiriche, la filosofia conferisce al loro contenuto, al posto della certificazione del constatare e del fatto empirico, la forma essenzialissima della libertà (dell’apriori) del pensiero e la conferma della necessità, così che il fatto esponga e riproduca l’attività originaria e completamente indipendente del pensiero»[3]. Il neoidealismo, anziché contrastare il positivismo criticando i suoi equivoci, gli ha concesso l’insensatezza della scienza e ha sperato di riguadagnare una visione teorica del senso cercandola al di qua o al di là della scienza, in qualche oggetto originario che sarebbe precluso allo scienziato e accessibile solo al filosofo – ad assicurarlo una intuizione primigenia, come nel caso di Bergson, di Husserl o di Heidegger, oppure l’empiria storica, come nel caso di Croce e di tanto marxismo. La filosofia si inabissa così nella regressione narcisistica o nell’adesione alla brutale fattualità.
Contro l’onnipotenza del soggetto neoidealista insorge il neopositivismo. Il suo terreno di coltura è la disfatta che la Mitteleuropa subisce nella prima guerra mondiale, dunque un pressante bisogno di rottura con il passato, un desiderio di iniziare tutto da capo. Da questo terreno così arido non può che nascere una riproposizione dell’oggettivismo, dunque della vecchia intolleranza nei confronti della teoria. Nel contesto del neopositivismo originario la teoria scientifica consiste in un immenso giro di parole, in una proliferazione tautologica, il cui senso è basato tutto sull’ancoraggio a proposizioni protocollari, ossia immediatamente percettive. È questa immediatezza percettiva e il rispetto del principio di identità nelle inferenze logiche ciò a cui il primo neopositivismo riduce la scienza e il discorso razionale in genere. La sua irrilevanza per i problemi più intimi del soggetto, per quello che Hegel chiamava libertà, è espressa con brutalità da Wittgenstein, insieme all’imposizione del silenzio su quei problemi.
Il rozzo rifiuto della filosofia comporta un’immagine della scienza così barbarica da far apparire comprensibile persino il suo rifiuto irrazionalistico: il ridurre la scienza a risultato di una ottusa induzione, anziché consolidarla contro il disprezzo neoidealista o esistenzialista, costituisce un argomento a favore di questo disprezzo. Di qui la genesi del falsificazionismo popperiano: esso vuole restituire dignità teorica alla scienza, restituire un qualche senso alla filosofia, distinguerle dall’ideologia per combattere quest’ultima. Questi nobili obiettivi sono però preclusi a Popper dai suoi pregiudizi positivisti, dalla sua profonda estraneità alla filosofia e dalla sua vicinanza all’ideologia neoliberale.
Il falsificazionismo vuole indicare un criterio che consenta di accettare o respingere una teoria scientifica senza impegnarsi a comprenderla e a criticarla con mezzi puramente logici. In questo accetta l’idea tradizionale della logica, fatta propria anche dal neopositivismo, come di una scienza puramente analitica, in cui possono esserci non contraddizioni necessarie ma soltanto errori di calcolo. Ciò che per Popper rende scientifica una teoria è un legame con l’esperienza, ma non il legame induttivo ancora caldeggiato dal neopositivismo, per il quale i fatti singoli sono dunque in grado di verificare una teoria. Popper respinge la verificabilità induttiva come indice della scientificità di una teoria facendo ricorso al vecchio argomento che una teoria è universale, cioè vale per infiniti casi, dunque non può essere verificata come tale da un numero comunque finito di conferme. A dispetto della sua antichità si tratta però di un argomento insostenibile. Esso infatti priva, senza avvedersene, l’esperienza della sua essenza temporale. ‘L’esperienza è temporale’ significa: ogni suo fenomeno si differenzia, la permanenza gli è estranea. Mentre gli oggetti logici, cioè i significati delle parole, ciò che Platone chiamava ‘idee’, restano uguali a se stessi, gli oggetti empirici sono il continuo tradimento della propria identità. Che dunque dopo il primo cigno bianco ci sia un secondo cigno bianco, in virtù della temporalità dell’esperienza, non è affatto banale e interpretabile come mera coincidenza da sottomettere a un disperato calcolo delle probabilità: in virtù della natura differenziante dell’empiria è invece banale la deriva da se stessi dei cigni e del colore del loro piumaggio; che questa deriva non si verifichi, che ci sia un secondo cigno e che sia di nuovo bianco, implica il conatus del conservare se stessi contro la corrente differenziante del divenire, manifesta una identità nella variazione, dunque una legge, una universalità. E la scienza consiste nel formularla in questa proposizione: ‘Il cigno è bianco’, ossia l’oggetto universale ‘cigno’, identico a sé secondo una legge, implica, secondo una legge da trovare (per esempio le necessità del mimetismo o della concorrenza per l’accoppiamento), la bianchezza come legge. Questa è l’induzione quale l’hanno intesa Aristotele e la tradizione filosofica. Essa non mira affatto alla proposizione: ‘Tutti i cigni sono bianchi’, che non è una legge, ma una constatazione empirica in forma universale. Il rifiuto popperiano dell’induzione scambia l’universalità qualitativa della legge, che si manifesta nel semplice ‘parecchi’, con l’universalità formale del quantificatore ‘ogni’, e la sua paura di sbagliare testimonia la paura della verità. La verità ha infatti un momento induttivo: essa è accordo tra il concetto e la cosa, dunque, nel caso delle teorie scientifiche, tra la teoria e l’esperienza.
Rifiutato il contatto induttivo con l’esperienza sull’onda della polemica contro il neopositivismo, Popper intende tuttavia restare empirista, vuole quindi che l’esperienza discrimini tra scienza e non scienza. E argomenta così: se non può verificare l’universale, il particolare empirico può almeno falsificarlo; dunque è scientifica la teoria che si espone alla falsificazione facendo previsioni empiriche; se l’esperienza le smentisce, allora la teoria scientifica sarà falsa; se l’esperienza le conferma, non per questo verifica la teoria, semmai la corrobora; dunque la teoria non sarà mai vera, sarà semplicemente verosimile, ossia avremo un motivo per sceglierla e usarla al posto di un’altra teoria meno corroborata.
La conseguenza dell’idea di corroborazione è devastante. Significa: dalla scienza non possiamo aspettarci nessuna verità; come le teorie del passato si sono mostrate non vere, così le attuali teorie che le hanno sostituite si mostreranno a loro volta non vere. Di conseguenza, come contro il fanatismo, anche contro l’esigenza di verità va pronunciato l’appello con cui Voltaire siglava le sue lettere: «Écrasez l’Infâme». L’antica distinzione tra δόξα ed ἐπιστήμη è cancellata; ogni ἐπιστήμη è solo δόξα e l’epistemologia, anziché teoria della scienza, diventa dossologia e teoria dell’impossibilità della scienza vera, impossibilità del discorso oggettivo.
Popper odia Hegel con tanta intensità da abbandonarsi spesso a insulti penosi. La sua conoscenza degli scritti del filosofo è però così vaga che risulterebbe insufficiente perfino in un liceo mediocre: anche quando concede che la dialettica sia una buona descrizione empirica del progresso delle scienze, in realtà ne ha un’immagine non solo semplificata ed assimilata alla sua epistemologia, ma essenzialmente estranea all’autentico metodo hegeliano, che non è solo dialettico, ma dialettico-speculativo. Per Popper questo metodo consisterebbe nel constatare che di solito a una certa teoria unilaterale viene opposta un’altra teoria unilaterale e che esse confluiscono in una terza teoria – la tesi, l’antitesi e la sintesi inventate chi sa quando dai manuali di filosofia e insinuate in Hegel. Il metodo hegeliano consiste invece nel compenetrarsi dei momenti a) intellettuale-dogmatico, b) razionale negativo o dialettico, c) razionale positivo o speculativo[4]. Le differenze sostanziali tra la vulgata popperiana e il metodo filosofico autentico sono due. In primo luogo, ogni teoria scientifica è criticabile con mezzi puramente logici, ossia non occorre affatto attendere il fallimento delle sue previsioni per individuarne i limiti (e viceversa il fallimento di una sua previsione non ne decide affatto il destino), essi sono insiti nelle sue determinazioni positive, per il principio spinoziano che ‘omnis determinatio est negatio’ (certo, per farlo occorre rinunciare alla comodità dell’attendere e impegnarsi a studiare la teoria): la dialettica è la confutazione di ogni verità e neanche le determinazioni più semplici e sicure possono resisterle. Ma, in secondo luogo, la confutazione di una teoria non autorizza affatto a buttarla via come un’immondizia: mostrando che la teoria T è confutata, la dialettica ha nel contempo dimostrato la verità della teoria non-T; dunque T non è svanita nel nulla e sostituita da un’altra teoria immigrata da un’altra regione; è sostituita da non-T, ossia, mentre è negata, nel contempo è anche conservata nella sua negazione, è cioè ridotta a momento della nuova teoria non-T. La speculazione, che ormai, anche in filosofi importanti, muove al massimo un sorriso supponente, che particolarmente tra i marxisti è sinonimo di ‘mistificazione’, è invece la capacità di invertire il principio spinoziano e di comprendere che ‘omnis negatio est determinatio’, che la stessa negazione di una teoria è la nuova teoria, che la ragione non si distoglie da ciò che come dialettica ha confutato per cercare idee altrove, ma indugia nel negato e, come speculazione, vi trova la nuova teoria.
L’entrata in campo del momento speculativo cambia tutto nella considerazione del progresso della ragione. Esso non consiste affatto in un progresso della verosimiglianza indeterminata di teorie comunque non vere, ossia in un progresso da una congettura a un’altra congettura, consiste invece nella particolarizzazione della verità elementare, cioè dell’idea assoluta, che altro non è che lo stesso metodo dialettico-speculativo[5]. Se il falsificazionismo passa da una falsità a una nuova falsità, il metodo filosofico, che è al tempo stesso l’anima della realtà, nel falsificare ogni verità la conserva in quella successiva, in modo che nulla di ciò che la ragione ha determinato va perduto, ma resta come base semplice degli sviluppi successivi. E così è anche empiricamente. Solo un accecamento ideologico o l’ignoranza della tradizione potrebbe opinare che le geometrie non euclidee rendano la geometria euclidea un’immondizia, che nell’astronomia copernicana non sia conservata l’astronomia tolemaica, che Einstein abbia sostituito Newton senza nel contempo conservarlo. No. Le nuove teorie confutano l’estensione universale di quelle precedenti, e proprio per questo ne conservano la verità come proprio elemento particolare. Questo conservarsi del negato nella sua negazione è l’anima logica della verità.
La riduzione della scienza a una sequenza di congetture provvisorie è un’ideologia nel senso marxiano del termine: una concezione logicamente insufficiente che si afferma in soccorso di interessi particolari. Il falsificazionismo sa scorgere il momento dialettico della ragione negativa, ma non sa scorgere il momento speculativo della ragione positiva. La dialettica senza speculazione è però scetticismo. Lo scetticismo ha conosciuto la sua nobiltà soltanto nell’epoca antica, quando seppe essere universale, non limitandosi a confutare la teoria ma applicando la propria corrosività anche alla certezza sensibile. Con le sue smanie di persecuzione contro la teoria, con la sua fiducia nella certezza sensibile degli asserti base, il falsificazionismo rientra a pieno titolo nello scetticismo moderno. Per quanto si spacci come lotta al tradizionalismo autoritario (ma nessun riferimento alla tradizione è per sé autoritario), la sua benevolenza verso la fattualità prende una precisa piega conservatrice, fino a farne il sostrato ideologico del liberalismo di von Hayek, che, proprio a partire dal presupposto popperiano della minimalità e dell’incertezza della scienza in nostro possesso, condanna ogni intervento dello Stato che non sia in difesa dell’ordine economico fattuale. Che si debbano criticare le teorie sulla base dei fatti ha dunque la sgradevole conseguenza che la critica può fermarsi all’interno della scienza e lasciare intatto il mondo extra scientifico, il mondo della vita. Il mondo della vita, l’insieme dei fatti particolari a cui la scienza deve sottostare come criterio ultimo, è però il mondo anglosassone con la sua ritualità democratica, il suo mercato onnipotente e il suo imperialismo spietato, nel quale già a partire da Bacone la scienza, anziché il fine dell’uomo, è lo strumento di valorizzazione del capitale. Di questo triste mondo il falsificazionismo è l’ideologia.
[1] Cfr. Aristotele, De interpretatione, cap. 7, 17 a-b.
[2] Una volontà che diventa irresistibile quando lo Stato di cui si fa parte subisce una sconfitta in un confronto bellico: oscurare il passato significa dimenticare la catastrofe. Il positivismo intollerante della metafisica e della tradizione è legato al crollo dell’impero napoleonico e al crollo dell’impero austriaco.
[3] Nota al § 12 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche. Traduzione nostra.
[4] Cfr. il § 79 dell’Enciclopedia e i tre seguenti.
[5] Ciò che nel brano sopra citato Hegel chiama «forma essenzialissima della libertà».
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