La grande trasformazione
“La civiltà del diciannovesimo secolo è crollata.
Questo libro si occupa delle origini politiche ed economiche di questo avvenimento, oltre che della grande trasformazione che l’ha seguito.
La civiltà del diciannovesimo secolo poggiava su quattro istituzioni.
La prima era il sistema dell’equilibrio del potere che per un secolo impedì che tra le grandi potenze scoppiassero guerre lunghe e devastatrici.
La seconda era la base aurea internazionale, che simboleggiava un’organizzazione unica dell’economia mondiale.
La terza era il mercato autoregolato che produceva un sviluppo economico senza precedenti.
La quarta era lo stato liberale.
Tra queste istituzioni la base aurea si dimostrò decisiva; la sua caduta fu la causa prossima della catastrofe e al tempo in cui essa cadde la maggior parte delle altre istituzioni erano state sacrificate nel vano sforzo di salvarla.
La fonte e la matrice del sistema era tuttavia il mercato autoregolato: fu questa innovazione a dare origine ad una civiltà specifica.
La base aurea era semplicemente il tentativo di estendere il sistema del mercato interno al campo internazionale; il sistema dell’equilibrio del potere era una sovrastruttura eretta sulla base aurea e in parte operante su di essa; lo stato liberale era esso stesso una creazione del mercato autoregolato. La chiave del sistema istituzionale del diciannovesimo secolo si trovava nelle leggi che governavano l’economia di mercato.
La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grande utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza naturale e sociale della società; essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo ambiente in un deserto.
Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi. Fu questo dilemma a spingere lo sviluppo del sistema di mercato in un solco preciso ed infine a far crollare l’organizzazione sociale che si basava su di esso.”
All’illustrazione di questa tesi è dedicato il più importante saggio di Karl Polanyi.
L’autore prima ricostruisce l’avvento del sistema di mercato nell’Inghilterra dell’800, la sua evoluzione reale, la sua trascrizione ideologica nei paradigmi dell’economia classica e, infine, le sue conseguenze devastanti per il tessuto umano e sociale; illustra poi le difese poste in atto dalla società nel tentativo di arginare tali conseguenze; descrive infine il processo di trasformazione o meglio di degenerazione che interviene per effetto della spinta del sistema di mercato e del cedimento delle difese sociali.
In esso, Polanyi critica il fondamento antropologico del liberismo, quello per cui la pulsione fondamentale dell’attività economica è, sulla scorta di A. Smith, la “propensione dell’uomo al baratto, al commercio e allo scambio di una cosa con l’altra”.
Su questo fondamento si è edificato l’utilitarismo mentre il perseguimento dell’interesse individuale si è configurato come un dovere, legittimo e in fin dei conti utile per l’intera società.
Polanyi viceversa scrive: “Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel diciannovesimo secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai
svolto una parte importante nell’economia e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza comune a partire dalla tarda età della pietra, il suo ruolo era soltanto incidentale nei confronti della vita economica”.
In tali società “l’economia dell’uomo, di regola, è immersa nei suoi rapporti sociali. L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali.
In breve, “il sistema economico è in realtà una semplice funzione dell’organizzazione sociale”. Questo conferma che “gli atti individuali di baratto o di scambio non conducono di regola all’istituzione di mercati in società nelle quali prevalgono altri principi di comportamento economico”.
Con l’invenzione del mercato autoregolato, invece, “non è più l’economia ad essere inserita nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali ad essere inseriti nel sistema economico. L’importanza vitale del fattore economico per l’esistenza della società preclude qualunque altro risultato poiché la società deve essere formata in modo da permettere a questo sistema di funzionare secondo le proprie leggi”.
Gli economisti classici ritengono che l’economia di mercato sia uno sviluppo “naturale” della pulsione allo scambio, determinata dalla progressiva complessificazione del mondo.
Secondo Polanyi, invece, l’economia di mercato si fonda su di una serie di presupposti ideologici che egli descrive nei seguenti termini: “Un’economia di mercato è un sistema economico controllato, regolato e diretto soltanto dai mercati; l’ordine nella produzione e nella distribuzione delle merci è affidato a questo meccanismo autoregolantesi. Un’economia di questo tipo deriva dall’aspettativa che gli esseri umani si comportino in modo tale da raggiungere un massimo di guadagno monetario.
L’autoregolazione implica che tutta la produzione è in vendita sul mercato e che tutti i redditi derivano da questa vendita. Di conseguenza vi sono mercati per tutti gli elementi dell’industria, non soltanto per le merci (e i servizi) ma anche per il lavoro, la terra e la moneta”.
Sulla base di questi assunti, perché il sistema funzioni, “non si deve permettere niente che ostacoli la formazione di mercati né si deve permettere che i redditi si formino altrimenti che attraverso le vendite, né deve esservi alcuna interferenza con l’aggiustamento dei prezzi alle mutate condizioni del mercato, siano i prezzi quelli delle merci, del lavoro, della terra o del denaro.
Il punto cruciale è questo: lavoro, terra e moneta sono elementi essenziali dell’industria; anch’essi debbono essere organizzati in mercati poiché formano una parte assolutamente vitale del sistema economico; tuttavia essi non sono ovviamente delle merci, e il postulato per cui tutto ciò che è comprato e venduto deve essere stato prodotto per la vendita è per questi manifestamente falso. Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse.
La terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall’uomo.
La moneta infine è soltanto un simbolo del potere d’acquisto che di regola non è affatto prodotto ma si sviluppa attraverso il meccanismo della banca o della finanza di Stato. Nessuno di questi elementi è prodotto per la vendita. La descrizione, quindi, del lavoro, della terra e della moneta come merci è interamente fittizia.
È nondimeno con il contributo di questa finzione che sono organizzati i mercati del lavoro, della terra e della moneta.
Permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione la società. La presunta merce “forza-lavoro” non può infatti essere fatta circolare, usata indiscriminatamente e neanche lasciata priva d’impiego, senza influire anche sull’individuo umano che risulta essere il portatore di questa merce particolare. Nel disporre della forza-lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe tra l’altro dell’entità fisica, psicologica e morale “uomo” che si collega a quest’etichetta.
La natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente e il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la capacità di produrre cibo e materie prime distrutta”.
Una volta messo in moto dai processi sociali, vale a dire dalla spietata avidità dei capitalisti, avallato dalle forze politiche che rappresentavano i loro interessi e teorizzato dagli utilitaristi e dagli economisti classici, il meccanismo diabolico produce di fatto, nel corso dell’800, i suoi effetti: la crescita prodigiosa della ricchezza è pagata al prezzo di un enorme aumento della miseria e della degradazione umana.
Questo paradosso reale, al quale secondo Polanyi si associa anche l’intuizione da parte del corpo sociale e di alcuni pensatori socialisti della potenziale pericolosità del nuovo sistema economico, attivano una serie di resistenze a difesa dell’uomo e della natura. Ciononostante il liberismo, tronfio della ricchezza prodotta e distribuita iniquamente non perde vigore. Esso si trasforma, per “l’ostinata e veemente insistenza degli economisti liberali nei loro errori”, in un vero e proprio “credo”, attestato per un verso su di una rivendicazione apologetica della fondatezza scientifica delle leggi economiche che governano il mercato e, per un altro, su di un’orgogliosa difesa dalle critiche secondo la quale “l’incompleta applicazione dei suoi principi era la ragione di tutte le difficoltà che ad esso venivano attribuite”.
Polanyi coglie con estrema lucidità il carattere insidioso di tale difesa, orientata ad inibire ogni controllo sul libero mercato. Gli apologeti di quest’ultimo “stanno ripetendo con variazioni a non finire che il liberalesimo avrebbe dimostrato i suoi meriti e che responsabili dei nostri mali non sono il sistema concorrenziale e il mercato autoregolato ma, al contrario, l’interferenza con quel sistema e gli interventi su quel mercato.”
È in conseguenza di questa difesa che il liberismo paradossalmente si spiritualizza, nel senso che, contro l’evidenza delle cose, esso diventa il paladino del progresso contro le oscure forze conservatrici che ad esso si oppongono: lo Stato burocratico e la classe lavoratrice miope e accecata dai sindacati “di fronte ai benefici ultimi di un’illimitata libertà economica verso tutti gli interessi umani, compresi i suoi”.
In realtà, è l’aspetto intrinsecamente selvaggio del liberismo, che pretende di assoggettare l’uomo e la natura alle leggi del mercato, a costringere la società a difendersi dal pericolo di una disgregazione.
Ma come si può sostenere un’accusa del genere di fronte alla constatazione che l’economia di mercato, nonostante il suo tragico decollo, che ha causato immani sofferenze, ha pur sempre prodotto un notevole sviluppo?
Per rispondere a questo quesito, che rappresenta la più insidiosa argomentazione degli economisti liberali a difesa dell’economia di mercato, Polanyi adotta una logica da antropologo: “La causa della degradazione non è, come spesso si è voluto asserire, lo sfruttamento economico ma la disgregazione dell’ambiente culturale della vittima. Il processo economico può naturalmente rappresentare il veicolo di questa distruzione e quasi sempre l’inferiorità economica porterà il più debole a cedere, ma la causa immediata della sua distruzione non è per questo economica; essa si trova nella ferita mortale alle istituzioni nelle quali la sua esistenza è materializzata. Il risultato è la perdita del rispetto di sé e dei valori, sia che l’unità sia un popolo o una classe, sia che il processo abbia origine da un cosiddetto conflitto culturale o dal cambiamento nella posizione di una classe all’interno dei confini di una società”.
Il carattere selvaggio del liberismo non sta dunque tanto e solo nel grado di sfruttamento dell’uomo e della natura che esso promuove, ma soprattutto nella sua vocazione a promuovere una nuova cultura che scinda definitivamente i legami che l’uomo ha sempre sentito di avere con la società e con la natura, il tessuto umano e naturale della vita sociale, per produrre infine l’individuo che persegue univocamente il fine di affermare i suoi interessi: “separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi di mercato significa annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico”.
Il mutamento culturale prodotto dal liberismo è, perciò, tutt’altro che irreversibile.
La linea di resistenza contro la quale questo verrà ad urtare ed infine ad infrangersi sta nella stessa natura umana, laddove, nonostante tutto, nulla riesce ad estirpare il sogno di un’esperienza individuale, ma individuata nel contesto di una comunità, e in un rapporto dialettico, ma non distruttivo, con l’ambiente di cui l’uomo fa parte.
Resta da considerare la strada da percorrere e il prezzo da pagare.
A questa minaccia, culturale prima ancora che economica, la società ha infatti storicamente opposto due soluzioni: il socialismo e il fascismo.
Il primo, che Polanyi considera solo nella sua versione umanitaristica, socialdemocratica, è “la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica.
Dal punto di vista della comunità nel suo insieme il socialismo è semplicemente la continuazione di quello sforzo di rendere la società un rapporto specificamente umano tra persone, rapporto che nell’Europa occidentale era sempre stato associato alle tradizioni cristiane. Dal punto di vista economico, esso è al contrario un allontanamento radicale dal passato immediato, nella misura in cui esso rompe con il fare dei guadagni monetari privati l’incentivo generale alle attività produttive e non riconosce il diritto degli individui privati di disporre dei principali strumenti di produzione. Ecco perché, in ultima analisi, la riforma dell’economia capitalistica da parte dei partiti socialisti è difficile anche quando essi siano decisi a non interferire nel sistema di proprietà”.
Il fascismo, viceversa, secondo Polanyi, è il frutto della crisi dell’economia di mercato (un esempio evidente è la crisi del 1929). Esso interviene a sopperire alla difficoltà delle classi conservatrici di arginare i partiti socialisti. La sua specificità consiste nel fatto che, per salvare l’economia di mercato, esso sacrifica la democrazia: “La soluzione fascista dell’impasse raggiunta dal capitalismo liberale può essere descritta come una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel campo dell’industria che in quello della politica. Il sistema economico che era in via di disfacimento veniva così rivitalizzato mentre i popoli stessi venivano sottoposti ad una rieducazione destinata a snaturare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come unità responsabile del corpo politico. Questa rieducazione, che comprendeva le norme di una religione politica che negava l’idea della fratellanza dell’uomo nelle sue varie forme, fu raggiunta attraverso un atto di conversione di massa applicato ai recalcitranti con mezzi scientifici di tortura”.
Non è difficile capire perché il pensiero di Polanyi, caduto nel dimenticatoio per il pessimo tempismo stia andando incontro negli ultimi anni ad una rivalutazione.
È il nuovo processo di globalizzazione in atto, che avviene all’insegna di ciò che è già stato a giustificare tale riscoperta.
Polanyi descrive alla perfezione la mutazione culturale prima ancora che economica che il liberismo induce. Una mutazione che, secondo i liberisti, affrancherebbe finalmente l’individuo dalle pastoie dei rapporti sociali e di quelli con l’ambiente a vantaggio della libertà di auto-realizzarsi che, in realtà, si rivelerebbe solo la libertà di auto-distruggersi.
Fonte: www.nilalienum.it
Una risposta
[…] Il carattere selvaggio del liberismo non sta dunque tanto e solo nel grado di sfruttamento dell’uomo e della natura che esso promuove, ma soprattutto nella sua vocazione a promuovere una nuova cultura che scinda definitivamente i legami che l’uomo ha sempre sentito di avere con la società e con la natura, il tessuto umano e naturale della vita sociale, per produrre infine l’individuo che persegue univocamente il fine di affermare i suoi interessi: “separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi di mercato significa annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico”. https://www.appelloalpopolo.it/?p=15137 […]