In minoranza si governa meglio
di CARLO CLERICETTI
Dopo la lunga stagione in cui sembrava che la governabilità di un paese potesse essere assicurata solo dal un sistema elettorale maggioritario oggi si torna a parlare di sistema proporzionale. Siccome in politica raramente accade qualcosa per caso, il motivo ovviamente c’è: i partiti che seguono – con minime differenze tra loro – l’ortodossia dominante sono sempre più deboli e, dopo essere diventati minoranza nel paese (considerando il livello sempre più alto di astensioni dal voto), rischiano di diventarlo anche in Parlamento. L’Italicum da questo punto di vista è particolarmente infelice: costruito dal partito di maggioranza relativa su misura sul risultato delle elezioni europee del 2014, si è trasformato in una trappola per chi l’aveva inventato.
Ciò nonostante, non è detto che Renzi voglia davvero cambiarlo. Fino a ieri un eventuale ballottaggio con i 5S era a fortissimo rischio per il Pd. Ora, dopo le figuracce romane, una vittoria dei 5S non è più così probabile. Certo, c’è ancora tempo e Virginia Raggi potrebbe riuscire nella “mission impossible” di raddrizzare l’amministrazione capitolina e dimostrare che i 5S sanno governare. Se andasse così la situazione cambierebbe di nuovo. Ma al momento Renzi, che notoriamente è un giocatore d’azzardo, probabilmente preferisce tenersi l’Italicum, Corte Costituzionale permettendo. Poi si vedrà.
Il fatto è che il sistema elettorale perfetto, che garantisca insieme la governabilità e una corretta rappresentanza politica, non esiste. Sistemi anche molto diversi tra loro ma che avevano assicurato nei vari paesi la possibilità di costituire governi stabili, sembrano oggi tutti in crisi. La Germania ha bisogno della Grande coalizione e – visti i risultati delle recenti elezioni amministrative – non è detto che dopo il prossimo voto basti ancora; la Spagna non riesce a formare una maggioranza ed è alla terza elezione in un anno; in Francia non è da escludere una prossima vittoria del Front National; nel Regno Unito i conservatori ce l’hanno fatta piuttosto fortunosamente. Sono tutti sistemi elettorali diversi: proporzinale con sbarramento o con collegi piccoli, maggioritario di collegio, ballottaggio.
Quale potrebbe essere il sistema “meno peggio” in questa situazione storica? In questi tempi in cui la democrazia è indebolita non bisognerebbe sceglierne uno che la forzi ulteriormente, sacrificandola sull’altare di una “governabilità” che consenta a una minoranza di spadroneggiare. Ciò significa orientarsi verso un proporzionale, certo con uno sbarramento che eviti la presenza di una miriade di partitini la cui sola ideologia è l’opportunismo, ma anche non così alto da lasciare fuori dal parlamento gruppi consistenti di cittadini. Non meno del 3 e non più del 5%, diciamo.
L’obiezione che in questo modo non sarà possibile sapere chi governerà fin dal giorno successivo alla votazione è talmente insulsa da non doverla nemmeno prendere in considerazione. La versione più “nobile” è che in questo modo la formazione di un governo dipenderà non da un’indicazione diretta degli elettori, ma dalle trattative fra i partiti. Ma è solo apparentemente meno insulsa: se quelle trattative – definite spregevolmente “inciuci” – non si fanno dopo, vuol dire che si sono fatte prima, e non si vede perché questa modalità dovrebbe essere considerata di qualità superiore.
C’è però il caso che, con un sistema del genere, dalle urne non esca una maggioranza che abbia i numeri per governare. In molti paesi questo non è un problema, perché sono possibili – e anzi frequenti – i governi di minoranza, come tutti gli esperti sanno (qui il politologo bolognese Paolo Martelli e qui Robero D’Alimonte, il costituzionalista che piace molto al premier). La condizione per poterlo costituire in Italia è però che si cambi la Costituzione, che stabilisce che il governo deve ottenere il voto di fiducia del Parlamento. In altri paesi – per esempio Danimarca, Svezia, Portogallo – non è così. Il meccanismo potrebbe essere questo: il presidente della Repubblica conferisce l’incarico al partito o alla coalizione che ha il maggior numero di seggi e questo è sufficiente per farlo entrare in carica. Per farlo cadere bisogna che la maggioranza del Parlamento gli voti la sfiducia. Lo stallo però non si eviterebbe se non si introducesse un’altra regola, quella della “sfiducia costruttiva”: chi vota contro, cioè, fa cadere il governo solo se ha formato una coalizione in grado di costituire un governo alternativo. In questo modo è praticamente impossibile che si sommino i voti di ali opposte, quelli della sinistra e quelli della Lega, per fare un esempio: impensabile che troverebbero un accordo per governare.
Il governo di minoranza rappresenterebbe così il più elevato numero di parlamentari di orientamento omogeneo. Per i suoi provvedimenti dovrebbe di volta in volta cercare l’appoggio di uno o l’altro schieramento che non fa parte del governo. Anche se può suonare strano, l’esperienza dice che i governi di questo tipo sono anche più stabili di quelli con maggioranze “normali”, e spesso anche più efficienti. In questo modo non si lederebbe in alcun modo la rappresentanza, e si riuscirebbe anche ad assicurare la governabilità.
Non abbiamo parlato di mono o bicameralismo, che non sembra una questione decisiva: può anche bastare una sola Camera, a patto che ci sia un adeguato bilanciamento istituzionale di pesi e contrappesi. Oppure se ne possono mantenere due, ma non certo con l’orribile pasticcio di un Senato com’è disegnato dalla riforma su cui sta per svolgersi il referendum.
In fine, le preferenze. Nel 1991 il 95% dei votanti approvò il referendum promosso da Mario Segni che ridusse le preferenze a una sola. Pur non concordando affatto con gli obiettivi di Segni, che aveva in testa un sistema maggioritario, bisogna dire che la preferenza unica appare un ragionevole compromesso tra l’esigenza di dare una possibilità di scelta all’elettore e il mercato delle vacche che si era creato con le preferenze multiple. Il loro insanabile difetto è che, con una serie si accorgimenti, consentono di fatto di controllare il voto dell’elettore, ossia minano la segretezza del voto, alimentando così clientelismi e voto di scambio. Visto che la corruzione che c’è è senz’altro più che sufficiente, non è il caso di creare sistemi che le permettano di svilupparsi ancora di più.
fonte: http://clericetti.blogautore.repubblica.it/
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