I mondi dietro le parole*
di LUCIA BIASCO (FSI Foggia)
“Per poter essere forte,
diventa un artista della parola;
perché la forza dell’uomo è nella lingua,
e la parola è più potente di ogni arma”.
Ptahhopte, 2000 a.c.
(maestro spirituale egizio, poi divinizzato)
L’importanza della parola è una delle grandi scoperte dei Sofisti.
Prima di loro, i pensatori più antichi neppure si interrogavano sul linguaggio, perché molto semplicisticamente consideravano collegati, tanto da essere indistinti, i 3 strumenti della conoscenza: la cosa reale, il pensiero che la conosce e la parola che la esprime. Ne derivava l’uguaglianza tra pensiero e verità, e quindi un’assoluta, ingenua fiducia nell’infallibilità del pensiero.
I Sofisti ebbero invece il merito di scardinare l’assioma che si basava su questo cieco ottimismo, o forse sarebbe meglio dire presunzione, e furono i primi a parlare delle tante facce della verità, della pluralità delle opinioni, e del potere persuasivo delle parole.
Questo può e deve spaventare, perché vi è un limite dove le certezze diventano convinzioni, e “le convinzioni sono nemiche della verità, più pericolose delle menzogne” (F. W. Nietzsche).
Dopotutto lo stesso Socrate, il simbolo dell’umana ricerca dell’unica verità, sapeva bene che la maieutica è l’unico mezzo, ovvero il travaglio e le doglie del parto. E il parto, non è mai detto che sia singolo…
Secoli e secoli dopo, la scienza darà ragione ai bistrattati sofisti, troppo spesso ingiustamente accusati di essere tutta forma e poca sostanza – ammettendo in tal guisa, i detrattori, che in effetti una distinzione tra pensiero e cosa reale, c’è, e per conseguenza, tra pensiero e verità -.
Il metodo scientifico implica che qualunque indagine conoscitiva, per essere realizzata, necessita di una teoria che ci guidi nella scelta e nell’interpretazione dei dati. e una qualunque teoria non è altro che una possibile spiegazione di un fenomeno.
Facciamo un esempio: se io volessi studiare il comportamento aggressivo dei bambini dai 5 ai 10 anni, innanzitutto dovrei definire quale comportamento è aggressivo e quale non lo è, altrimenti non saprei neppure cosa osservare; in secondo luogo se volessi fornire una spiegazione del comportamento che ho definito aggressivo, dovrei quantomeno avere un’idea dei possibili fattori che influenzano e determinano proprio quel tipo di comportamento che ho deciso di osservare. Una teoria risponde a queste domande.
Naturalmente possono esserci diverse teorie che spiegano un fenomeno (nella fattispecie ci sono diverse teorie psicologiche che spiegano l’aggressività), e ognuna di queste può essere del tutto divergente dall’altra.
Per cui ogni volta che un ricercatore decide cosa osservare, dove e come osservarlo, lo fa sulla base di una teoria. ovvero sulla base di un’opinione.
La psicologia ha avuto infine il merito di rilevare un’ulteriore variabile che interviene nel processo conoscitivo: l’emozione. Grazie ai sempre più affinati metodi d’indagine fisiologica e psicofisiologica, e alle sperimentazioni nell’ambito dell’apprendimento e della percezione, la psicologia ha saputo dimostrare come spesso sia proprio la sfera emotiva, lavariabile indipendente (=causa) rispetto alle altre due, il pensiero e il linguaggio, configurabili quindi come variabili dipendenti (=effetto).
Ne deriva che bisogni, paure e desideri personali possono influenzare la spiegazione di un fenomeno, spiegazione vulnerabile a mutamenti non solo tra diversi soggetti, ma anche in diversi momenti/contesti nello stesso soggetto.
E dunque, proprio come insegnavano i Sofisti, il reale ha mille facce, mille parole, mille spiegazioni, ognuna potenzialmente vincente se si sanno impugnare le armi della persuasione.
Ed è qui che la parola gioca un ruolo fondamentale: è intuitivo che parole cariche di significato emotivo possano influenzare il pensiero, e quindi la visione del reale, in una direzione piuttosto che in un’altra. La parola diventa la cosa che descrive: il potere evocativo della parola sta tutta lì, nell’identità perfetta tra se stessa e l’emozione.
Un esempio? pensate a quale mondo di gioia si apra per un innamorato all’udire la frase “ti amo”.
E quanto la parola sia addirittura più potente dell’azione, lo dimostra il fatto che molti innamorati continuino a credere a quei “ti amo” nonostante le azioni del partner dimostrino spesso il contrario.
Dunque, sapere usare le parole giuste per far leva sulle emozioni giuste, spingerà il destinatario del messaggio ad accettare la visione del reale voluta dall’emittente.
Si tratta di meccanismi che la politica conosce bene.
Un successo tangibile della capacità persuasiva dell’emittente è la mancanza di dubbio nel destinatario, e la sua pressoché completa inattitudine alle domande.
Se guardiamo lo scenario politico attuale, possiamo facilmente riscontrare una notevole arte persuasiva nei tre maggiori slogan propagandistici che imperano nei media.
1) Ce lo chiede l’Europa.
2) Dobbiamo rispettare il patto di stabilità.
3) Occorre essere competitivi.
È facile rilevare come queste tre affermazioni vengano “ricevute” dalla (ancora) maggior parte della popolazione senza nessuna obiezione, senza nessuna sfiducia. Il destinatario apprende la visione del mondo veicolata per il tramite di queste affermazioni, e semplicemente la ritiene vera.
Sebbene infatti, sarebbe lecito attendersi per ogni affermazione quantomeno una domanda: “perché ce lo chiede?”, “cosa si vuole stabilizzare con questo patto?”, “per arrivare dove? e soprattutto, in questo dove, ci arriverebbero davvero tutti, anche i lavoratori, e non solo chi li sfrutta?”, nessuno di questi elementari dubbi viene maturato dai più.
Perché?
Proviamo allora ad analizzare le tre frasi.
1) Nella prima frase possiamo subito osservare che non viene chiamata in causa la Commissione Europea, o la BCE, o la Troika, i veri organi di governo fatti di uomini con interessi politici ed economici specifici, viene chiamata in causa un’astratta, impalpabile, spirituale, quasi mistica “Europa”. Per fare un parallelo esemplificativo, si può osservare il diverso impatto che farebbe: “ce lo chiede il premier” piuttosto che “ce lo chiede l’Italia”.
Non a caso il nome completo di quest’essenza impalpabile, è Unione Europea.
Il che necessariamente induce nell’interlocutore un senso di fiducia, di speranza, di calore, di solidarietà. Siamo animali sociali, filogeneticamente programmati per non stare da soli, per cui è il nostro stesso DNA che registra e convalida l’utilità per la propria sopravvivenza di un’unione, meglio ancora se europea e non soltanto italiana, perché, va da sé, la prima viene avvertita come più grande e più potente della seconda. Quali azioni e quali scopi si perseguano poi in quest’unione, se davvero sia un’unione di reciproche solidarietà, non è cosa che viene ponderata, così come fa l’innamorato che si fa incantare dalle parole, rimanendo cieco a tutto il resto.
E dunque l’essenza spirituale Europa, assisa nel firmamento della sua grandezza e magnificenza, seguendo la logica delle parole, non può non agire per il bene dei mortali europei. per cui il nuovo Dio Europa potrebbe anche chiedere al nuovo Abramo di sacrificare suo figlio, e Abramo eseguirebbe perché a chiederlo è Dio.
Sappiamo che nella bibbia un antico Dio fermò la mano dell’antico Abramo un attimo prima che sgozzasse il suo stesso figlio Isacco.
Il dio Europa invece, continua a chiedere sacrifici umani, e non accenna a fermare nessuna delle mani che in nome suo sgozzano dignità e vita. Il dio Europa, per gli amici Juncker, predica e anzi intima a tutti austerità e tasse, ma è anche “l’ideologo e il demiurgo di un sistema di elusione delle rendite che ha consentito al Granducato del Lussemburgo di trasformarsi nel più raffinato e impenetrabile paradiso fiscale d’Europa. E ha garantito a oltre 340 fra aziende e multinazionali di arricchirsi a dismisura sottraendo alle casse dei paesi europei e agli Stati Uniti oltre 2.000 miliardi di euro di tasse”.
2) Nella seconda frase abbiamo a che fare con la parola stabilità: il termine è sicuramente ambasciatore di valori e bisogni che ciascuno di noi, costantemente, ricerca in ogni ambito dell’esistenza. Quando si parla di stabilità, la nostra mente evoca immediatamente la stabilità dei propri affetti, della propria famiglia, della propria salute, delle conquiste negli studi, nel lavoro, in un crescendo emotivo che sogna benevolenze e opulenze sempre più prospere.
E questi sogni sono legittimati dall’esame di realtà grazie ad un’altra parola di forte impatto emotivo: il patto. Con questa parola vengono subito in mente mani che si stringono, soddisfazioni reciproche, pace e bene. amen.
Quindi in questa seconda affermazione, la propaganda si gioca un po’ tutti gli assi nella manica: se da un lato abbiamo la stabilità, una gran bella parola, con un curriculum di significati eccellenti e con una fedina valoriale assolutamente pulita, dall’altro abbiamo il patto, una parola persino più bella, perché dà a quella che la segue il marchio della solennità, del giuramento che non può essere spezzato, e quindi della serenità. stabile serenità, appunto. che si può chiedere di più? un lucano? no, più Europa.
Poco importa se questo patto preveda in Italia, l’ennesimo taglio alla sanità, addirittura ai fondi per la disabilità, o se in Inghilterra le t-shirt femministe contro l’uso del corpo femminile siano fatte da operaie sfruttate e sottopagate alle Mauritius, con 62 penny (meno di 1 euro) all’ora, lavorando per molte ore al giorno e dormendo in 16 in una stanza, e se poi quelle stesse magliette vengono vendute a Londra a 45 sterline l’una (circa 55 euro).
3) Nella terza affermazione siamo davanti a una parola che ha un suo fascino, tutto terreno e mondano, ma anche, che lo si voglia o no, una sua imprescindibilità dalla nostra quotidianità: la competitività.
Se la stabilità e il patto fanno leva sulle istanze più nobili dell’animo umano, la competizione fa leva sugli aspetti che stanno nel fondo dell’animo, quelle istanze che ci inducono a credere “io merito più di lui” o “io ho bisogno più di lui”, e che sia in povertà che in ricchezza, sia in salute che in malattia (perché queste sono, con religiosa sintesi, tutte le condizioni possibili di vita), non aspettano altro che l’occasione per farsi avanti.
Siamo sempre in perenne competizione col mondo. la vita è essa stessa lotta, lo sappiamo bene, e dobbiamo costantemente metterci alla prova contro qualcun altro: si comincia da piccoli col genitore del proprio sesso, con amici e nemici per far breccia nel cuore desiderato, col compagno di banco per un voto in più o per copiare dai suoi fogli durante i compiti in classe, col proprio collega per la promozione. La competizione fa così parte di noi, è così “naturale”, che quindi non nutriamo nessun sospetto, nessun allarme se a un certo punto ci viene chiesto di essere competitivi.
È il “fino a che punto” e soprattutto “a quale costo”, anche a costo di lavorare per 3 euro all’ora come in Grecia, che viene taciuto, grazie all’anestetico della presunta normalità.
Stiamo dunque combattendo contro squali della finanza e della dialettica.
Non per niente questi squali vorrebbero disporre dell’eliminazione degli studi umanistici dai programmi scolastici: questo il desiderio candidamente espresso da Davide Serra, amico e finanziatore di Renzi.
Chi vuole comandare deve mantenere il monopolio delle parole, perché sa che le parole sanno essere più convincenti delle azioni: hanno un incanto, una purezza che l’azione non ha.
Quello che noi possiamo fare è risvegliare le giuste emozioni tenute sopite da parole che illudono e ingannano.
Come si fa a resistere al canto delle sirene dell’illusione?
Con l’autostima. Solo chi svilisce se stesso ha bisogno di un padrone. E quanto più svilirà se stesso, la propria famiglia, i propri avi e il lavoro e il sangue glorioso dei propri avi, tanto più cercherà altrove, in terra straniera i propri padroni.
Quello che dobbiamo fare è rieducare alle radici di ognuno, alla dignità di ognuno, che è cosa direttamente antagonista all’individualismo arrivista o arrendevolista.
Dalla dignità della propria storia, nasce l’orgoglio di esserci, di avere dubbi, di fare domande, di “cercare l’uomo” dietro il servo.
L’orgoglio di militare, di suscitare dubbi, di far capire, di far militare.
Per arrivare dove?
Ai mondi dietro nuove parole e nuove azioni.
Ai tanti mondi dei tanti popoli, finalmente uniti nell’unica unione possibile: il rispetto di ogni sovranità nazionale, di ogni dignità nazionale. Perché queste sono le tante facce della verità: ogni Nazione è una faccia della verità.
Senza le nazioni sovrane, quest’unione è senza volto, senz’anima.
Questa è l’unica verità che vogliamo.
Unisciti a noi. Insieme, ce la faremo.
* Articolo pubblicato su Appello al Popolo il 9 novembre 2014
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