La scuola in retromarcia
di IL PONTE (Giovanna Lo Presti)
È appena iniziato un nuovo anno scolastico, il secondo dell’era della “buona scuola” di Matteo Renzi e del ministro-fantasma dell’istruzione, Stefania Giannini. Meritocrazia ed efficienza continuano a essere le parole d’ordine del potere politico; e intanto il caos regna sovrano. Dai trasferimenti dei docenti alle immissioni in ruolo è tutto un susseguirsi di errori, di graduatorie da invalidare, di ricorsi. Il fatto che la Corte costituzionale più di un anno fa abbia ritenuto illegittimo il blocco del rinnovo contrattuale dei pubblici dipendenti non ha avuto ancora alcuna conseguenza. L’evidenza degli effetti negativi della “riforma” Fornero sulla scuola non ha prodotto, analogamente, alcun risultato. La scuola, ed è questa la cosa più seria, in buona parte è ridotta a luogo di contenimento delle giovani generazioni.
Per la prima volta, i dirigenti scolastici hanno elargito un bonus ai docenti meritevoli: non si sa con quali esiti, ma possiamo con ragione ritenere che saranno ritenuti “meritevoli” gli insegnanti più pronti ad accettare la linea ministeriale. E i dirigenti, valutati a loro volta, non avranno voglia di contrapporsi ma si daranno da fare perché i loro sottoposti non contrastino i “processi di riforma” (sostanzialmente autoritari e involutivi), in una spirale che garantirà il trionfo di un modello vuoto e burocratico. Intanto la scuola, quella vera, sta andando sempre più alla deriva. Purtroppo, la gran parte del corpo docente è affetto dalla sindrome della servitù volontaria e rinuncia a cuor leggero all’esercizio della critica, accontentandosi di mugugnare nelle sale insegnanti.
Alle nostre spalle, comunque, non c’è alcun paradiso perduto: la scuola della Repubblica italiana, cresciuta in fretta, ha avuto sempre problemi seri. Ma oggi ha perso del tutto quel ruolo sociale emancipatorio che pure, per alcuni decenni, ha avuto. La scuola è in retromarcia. Il trionfalismo ottimista della “buona scuola” è falso e bugiardo, mentre la verità, sempre congiunta con la giustizia sociale, non può che mettere in luce aspetti preoccupanti. Introduco perciò la mia riflessione con un pensiero pessimista, di un uomo che ha conosciuto la scuola e il mondo. E spero che le parole cupe che seguono troveranno rispondenza emotiva negli insegnanti migliori, quelli, cioè, che si ostinano ad aver coscienza di sé e delle difficoltà in cui è impantanato il loro lavoro.
Legato al remo della scuola; battere, battere, battere come in un sogno in cui è l’incubo di una disperata immobilità, della impossibile fuga. Non amo la scuola; e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro […] entro nell’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie (Leonardo Sciascia).
Quando ho iniziato a insegnare mi è parso subito che qualcosa a scuola non funzionasse. Erano i primi anni ottanta, avevo pochi anni in più degli studenti del triennio dell’istituto tecnico che mi erano toccati in sorte e sentivo ancora vivo il ricordo del mio periodo liceale. Il decennio che mi separava da quei ragazzi aveva spento speranze, acceso i miti del consumismo, cominciato a ottundere le coscienze. La pitonessa Thatcher profetizzava che «la società non esiste»: il che significa che esiste soltanto l’individuo, pronto a battersi per la propria affermazione, spinto da uno spirito di cieco egoismo, in perenne competizione con miriadi di altri individui dominati dagli stessi principi. Dall’altra parte dell’Oceano, faceva eco alla «Lady di ferro» Ronald Reagan la cui grezza politica neoliberista nulla aveva da invidiare alla linea seguita dalla premier inglese. Adesso Reagan e Thatcher se ne sono andati da anni, l’uno spento dall’Alzheimer, l’altra preda della demenza senile – quasi un inveramento, nella malattia della loro vecchia, di quella cecità dell’intelligenza che aveva guidato la loro azione politica. Ma allora, nei primi anni ottanta, in Italia trionfava la «Milano da bere» e del piano inclinato che doveva portare in poco tempo anche da noi a una società sempre più diseguale non si intuiva nemmeno la pendenza.
Ma a scuola, però, qualcosa non andava, ancorché gli studenti studiassero abbastanza. I più, però, studiavano solo e soltanto per il diploma, per un futuro lavoro – ed erano quasi infastiditi dal fatto che ci fossero, nell’orario di lezione, materie come Italiano e Storia, delle quali non riuscivano a intuire la necessità e l’utilità. In quegli anni, il mio compito più importante era quello di spiegare quanto l’essenziale, per noi esseri umani, sia difficile da definire e come ciò che ci dà più gioia sia spesso legato ad aspetti inessenziali, se giudicati con il metro utilitaristico. Non mi è mancato un certo successo, in quest’opera di proselitismo: ma sentivo che qualcosa non andava.
Da allora la visione utilitaristica del processo di apprendimento è divenuta la norma. L’immaginario degli studenti è ormai colonizzato dall’uso abnorme delle “nuove tecnologie”, quelle stesse che mille documenti ministeriali invocano come la miracolistica soluzione di ogni problema didattico. Il diploma non è più spendibile, non introduce a un lavoro e la disoccupazione giovanile è un fantasma con cui i ragazzi sanno che dovranno scontrarsi. Intanto i nostri governanti – ultimo in ordine di tempo Renzi il Giovane – non trovano nulla di meglio che addebitare l’allarmante disoccupazione alla insufficiente preparazione scolastica e sembrano essere i soli a ignorare che in Italia il numero di lavori a medio-alta qualifica è nettamente basso e di molto inferiore alla disponibilità di posti di lavoro a bassa qualifica. Sembra che chi governa sia colpito da una sorta di idiozia selettiva, perché soltanto un grave deficit nella comprensione dell’esistente può mettere tra parentesi il declino dell’Italia e invocare come rimedio alla de-industrializzazione galoppante una preparazione degli studenti più adeguata alle richieste del mondo del lavoro. A meno che non si intenda con questo postulare l’adattamento dei giovani alla precarietà, all’asservimento alle esigenze del datore di lavoro, a iniziare dai banchi di scuola.
Insomma, se trent’anni fa si doveva far comprendere agli studenti che studiare per il diploma non doveva servire soltanto per procurarsi un lavoro, adesso bisogna fare gli equilibristi e sostenere che, anche se il diploma non procurerà un lavoro, bisogna lo stesso studiare e studiare bene. Non è facile sostenere che noi siamo in quanto conosciamo, in un mondo in cui i modelli dominanti e vincenti sono quelli delle starlette e dei calciatori.
L’istituto tecnico in cui insegnavo era diverso dal mio liceo non solo per la scarsa propensione degli studenti al sapere in quanto tale; diversa era anche la provenienza sociale dei ragazzi. Ho frequentato, negli anni settanta, un liceo classico illustre a Torino: nella mia classe c’erano figli di proletari e figli dell’alta borghesia e il ceto medio era rappresentato in tutti i suoi strati. Sebbene noi del liceo avessimo quindi anche il privilegio di non percepire la matrice di classe della scelta scolastica, di certo questa esisteva, in parte, anche negli anni settanta e la si notava soprattutto nelle scuole professionalizzanti. Negli anni ottanta, ai miei occhi di insegnante, appariva ormai lampante quanto la scelta della scuola fosse stata, in gran percentuale, una scelta della famiglia e non dello studente.
La matrice classista della nostra scuola superiore si è consolidata decennio dopo decennio. Numerosi studi e indagini statistiche su questo argomento convergono in un punto: la scelta scolastica è legata a doppio filo alla famiglia di origine. Per esempio – ed è un dato eloquente – il figlio di un dirigente o di un libero professionista ha chances di arrivare alla laurea cinque volte superiori al figlio di un operaio (36,5% contro 7,3%)1.
La scuola, allora, era piena di giovani insegnanti – eppure mi pareva che alcuni di loro fossero già proni di fronte all’esistente, che altri avessero già ceduto alle sirene del “didatticismo” (per il quale non importa tanto cosa si insegna né come, ma importa piuttosto l’applicazione di un protocollo, di una procedura), che altri (altre) ancora fossero più preoccupati del secondo lavoro che non della scuola. Qualche aspetto positivo pur c’era: intanto l’età media dei docenti era molto più bassa di adesso e i colleghi più anziani, non essendo ancora decrepiti, avevano desiderio di collaborare con i giovani. Tale scambio di idee non poteva che essere benefico – a insegnare si impara insegnando in condizioni accettabili, e con una certa stabilità. Oggi la piaga del precariato (che significa, per chi lo ha subito, lavorare male e in stato di perenne incertezza) ci ha fatto perdere la formazione “sul campo” di due generazioni di insegnanti – ed è un danno a cui non si potrà portar rimedio.
Partecipai, era il 1987, alle proteste che portarono, un anno dopo, alla firma dell’unico contratto della scuola che abbia dato notevoli aumenti stipendiali ai docenti; ero convinta che in una società di mercato un lavoro pagato poco è, tout court, un lavoro che vale poco. In ogni caso anche gli insegnanti, come peraltro tutti i lavoratori, hanno diritto a uno stipendio dignitoso. Tra il 1986 e il 1988 nasce e si consolida un movimento di lavoratori della scuola “autoconvocati”, in aperta polemica con l’atteggiamento compromissorio del sindacalismo confederale; su quel terreno si formeranno i Comitati di base della scuola (Cobas), dai quali presto si staccherà la Gilda, in nome di uno specifico riconoscimento della funzione docente; poi verrà un ulteriore sgretolamento e ci saranno altre sigle del sindacalismo di base, in costante e aperta opposizione al consociativismo di Cgil, Cisl e Uil. Dopo l’exploit del contratto del 1988, i ritardi nel rinnovo dei contratti e risorse sempre più limitate causeranno una progressiva erosione salariale, di cui oggi vediamo gli esiti ultimi. Nonostante la sentenza della Corte costituzionale, che nel giugno 2015 dichiarò illegittimo il pluriennale blocco contrattuale, a tutt’oggi i dipendenti statali possono contare, per l’eventuale rinnovo del contratto, su risorse che ammontano a pochi euro mensili di aumento.
Quando ho cominciato a insegnare, ricordo che alcuni colleghi, convinti sostenitori della laicità della scuola, mugugnavano parecchio a causa di rivoli di denaro pubblico che, tra le “pieghe del bilancio” transitavano verso le scuole private e, in particolare, verso le scuole confessionali. Dopo pochi anni ci fu la legge di parità2, che così recitava nella parte iniziale: «Il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 33, comma 2 della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali. La Repubblica individua come obiettivo prioritario l’espansione dell’offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di istruzione dall’infanzia lungo tutto l’arco della vita». A completare il quadro, rendendo molto, molto sfumato il dettato costituzionale, è intervenuta la riforma del Titolo V della Costituzione che riconosce Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni come istituzioni costitutive della Repubblica, al pari dello Stato, e non più come una semplice articolazione interna di quest’ultimo; parallelamente, riconosce l’autonomia delle istituzioni scolastiche.
La conseguenza è che sempre più denaro pubblico affluisce verso le scuole private; quest’anno (l’ennesimo di tagli all’istruzione statale, nonostante le fanfaronate di Renzi) il finanziamento sfiora i 500 milioni di euro. Ma, quel che è peggio, l’inesistente ministro per l’Istruzione ha spiegato in un suo intervento alla Fondazione Treelle (2014): «Se domani mattina tutte insieme le scuole paritarie spegnessero le luci, cosa che non deve succedere, avremo un grande problema: dovremmo mettere sul piatto 6 miliardi di euro». Persino la Fondazione Agnelli, di fronte a una simile sparata, si è affrettata a correggere il tiro; ecco cosa risponde Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli: «Se anche “per assurdo” tutte le scuole paritarie chiudessero e lo Stato dovesse riassorbirne gli allievi il costo aggiuntivo che lo Stato dovrebbe affrontare sarebbe molto modesto. Infatti, nel complesso della scuola primaria e secondaria italiana il rapporto fra insegnanti e studenti resta uno dei più bassi a livello internazionale (lo conferma anche il recentissimo rapporto Talis 2013, secondo il quale il docente tipo italiano insegna in una classe di 22 allievi, contro i 24 della media Ocse). Per accomodare i circa 400.000 studenti di scuola primaria e secondaria in più provenienti dalle paritarie non sarebbe necessario un significativo incremento di aule e insegnanti; basterebbe aumentare di poco più di un’unità la composizione media di ciascuna classe, con qualche variazione territoriale».
Quella di dare in appalto ai privati la propria scuola non è una novità per lo Stato italiano. All’inizio degli anni sessanta Guido Calogero interveniva rispetto a una proposta della Democrazia cristiana, che voleva assegnare, agli alunni frequentanti scuole paritarie di istruzione dell’obbligo e di formazione professionale, contributi annuali “pro capite” di entità pari all’80% del costo di esercizio per ciascun alunno delle corrispondenti scuole statali: «Ora, in Italia si sta proponendo che lo Stato, riconosciuta la sua inettitudine a fornire a tutti i cittadini quello stesso grado d’istruzione che la Costituzione stabilisce come obbligatorio per ciascuno di essi, ceda la necessaria integrazione di tale servizio scolastico in appalto ad ogni privato il quale (offerte alcune ancora ignote garanzie) sia disposto a farsi pagare il venti per cento di meno rispetto alla spesa che per tale servizio dovrebbe sostenere l’erario»3. Con stile d’altri tempi, dopo aver deprecato il fatto che si potesse pensare di finanziare, in nome della “parità”, una scuola di parte, Calogero conclude: «Ma noi deprechiamo che anche solo un giovane italiano possa essere diseducato nel chiuso di una scuola ad una sola voce, col contributo finanziario di tutti quanti i cittadini»4.
Niente di nuovo, quindi, sotto il sole; ma ai tempi di Calogero, all’inizio degli anni sessanta, si annunciava una stagione di riforme progressiste, prima fra tutte quella che istituì la scuola media unica, mentre a noi tocca difenderci dai miasmi tecnocratici e meritocratici della “buona scuola”. Per la prima volta, con La buona scuola, il nostro Stato ha il coraggio barbaro di dichiarare che non ci sono abbastanza soldi per garantire una scuola statale per tutti coloro che ne hanno diritto: «Le risorse pubbliche non saranno maisufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola. Stiamo parlando della più grande e preziosa rete pubblica del Paese, ma anche di un cantiere sempre aperto, che richiede costante cura e aggiornamento. La scuola è una frontiera mobile: se pensiamo alle sfide della competizione globale, al dinamismo di una società sempre più multiculturale, alla rapidità del cambiamento tecnologico, capiamo subito le esigenze di una continua sperimentazione educativa. Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere»5.
Queste che ho appena presentato sono le prime tessere che metterei in campo se dovessi spiegare in che cosa consista il moto retrogrado della scuola italiana. Ogni tessera è importante per comprendere e comporre il disegno complessivo. La conclusione è scontata: la scuola ha innescato la retromarcia perché la nostra società, nel suo complesso, ha perso la spinta progressiva verso una maggiore solidarietà e un maggior benessere per tutte le persone che la compongono. Di per sé, l’istruzione è un potente fattore di eguaglianza sociale: il dominio si esercita a partire dall’ignoranza e l’ignoranza non è la mancanza di conoscenza settoriale ma la mancanza di idee forti che siano in grado di porre le basi di un sapere specifico e di spingere il singolo a comprendere i meccanismi che regolano la totalità in cui vive. Senza questa necessaria impalcatura mentale, ogni persona annaspa nell’isolamento e trova in quella che molti secoli fa è stata definita «servitù volontaria» un rifugio apparentemente sicuro.
Ora, quando si guarda alle priorità che la buona scuola di Matteo il Giovane mette in evidenza non si può non essere assaliti da un moto di sconforto. Rileggiamo le priorità, espresse nella recente Nota del Miur6relativa all’aggiornamento dei docenti:
Sono in fase di predisposizione alcune linee di azione nazionali, mirate a coinvolgere un numero ampio di docenti nei seguenti temi strategici: le competenze digitali e per l’innovazione didattica e metodologica; le competenze linguistiche; l’alternanza scuola-lavoro e l’imprenditorialità.
Un po’ camuffate, rispuntano le «tre I» di Berlusconi: Informatica, Inglese, Impresa che, se sono prioritarie per la formazione degli insegnanti, lo saranno altrettanto per la formazione degli studenti. È uno scandalo che, a fronte della evidente incapacità di gran parte degli studenti di comprendere pienamente un testo scritto nella lingua madre (e ci si chiede che uso facciano i sostenitori dei test nazionali e internazionali dei risultati degli stessi) si propugni con pervicacia l’idea dell’insegnamento di una materia non linguistica in lingua straniera, cioè in inglese (la lingua del dominio mondiale). Pecca ancor più grave è il non riflettere sull’effetto devastante causato dall’uso precoce delle “nuove tecnologie”, che fanno calare nei ragazzi capacità di attenzione e concentrazione, mentre abituano a risposte univoche e veloci. Sovrastimolati da giochini elettronici e dall’uso compulsivo di cellulari e computer i nostri ragazzi sembrano aver perso la capacità di attendere e magari di annoiarsi per qualche secondo senza perdere il filo: ma senza queste capacità è impossibile leggere o seguire una lezione.
Quanto all’“impresa” essa è talmente in contrasto con l’aspetto libero e gratuito di qualsiasi acquisizione di sapere che il pensare di dover sottomettere a una gretta logica utilitaristica il percorso scolastico dovrebbe ripugnare a ogni insegnante.
Alla fine, la scuola torna a essere (come affermava tanto tempo fa Pierre Bourdieu) una macchina per «la riproduzione culturale» e per la «conservazione sociale» e rinuncia alla sua potenzialità di luogo in cui le differenze iniziali si attenuano e, tendenzialmente, si superano. Questo ci dicono oggi tutti i dati statistici relativi all’istruzione. C’è una via d’uscita, c’è un modo per disinnescare la retromarcia? Certo che sì, purché chi lavora a scuola (chi manda avanti, concretamente, la scuola) non si impantani negli idola tribuscorrenti. Il più pericoloso è quello della “meritocrazia”: è dovere di chi insegna denunciare l’ideologia meritocratica come un modo, peraltro grezzo, di legittimare le diseguaglianze, di garantire a les héritiers7, ai figli delle famiglie abbienti una rendita di posizione che occulti il privilegio della nascita e metta avanti il “merito”. E poi bisogna ricordarsi che non basta comprendere, ma bisogna agire. In questo senso ci guida una riflessione di Bauman:
La consapevolezza di ciò che rende le cose così come sono può indurci tanto a gettare la spugna quanto ad agire. La conoscenza del modo in cui funzionano i meccanismi sociali complessi e non immediatamente visibili che forgiano la nostra condizione è notoriamente un’arma a doppio taglio. Il più delle volte se ne fanno due usi ben distinti, che Pierre Bourdieu ha definito, in modo appropriato, “cinico” e “clinico”. Tale conoscenza può essere usata “cinicamente”: poiché il mondo è quello che è, penserò ad una strategia che mi permetta di sfruttare le sue regole a mio vantaggio; che il mondo sia equo o iniquo, piacevole o no, è una questione irrilevante. Quando è usata “clinicamente”, quella stessa conoscenza può aiutare te e me a combattere più efficacemente ciò che entrambi consideriamo sbagliato, nocivo o lesivo del nostro senso morale. Da sola, la conoscenza non ci fa decidere per l’uno o l’altro degli usi. Questa, in ultima analisi, dovrà essere una scelta nostra. Ma senza quella conoscenza non esisterebbe una scelta iniziale. Con quella conoscenza le donne e gli uomini liberi hanno un’opportunità di esercitare la propria libertà8.
La scuola è regolata da meccanismi sociali complessi: il primo passo consiste nel riconoscere e analizzare tali meccanismi. Per esempio, noi sappiamo, come abbiamo già detto – e molti dati ce lo confermano – che la scuola italiana è sempre più una scuola classista. Cosa vogliamo fare di tale conoscenza? Bene, se la vogliamo usare “cinicamente” cercheremo di trarre un vantaggio personale: per esempio, preferiremo insegnare in un liceo classico e, se ci capiterà invece un istituto professionale, ci metteremo l’animo in pace e ci diremo che in quelle condizioni va già bene se l’insegnante entra in classe e controlla che gli studenti non si azzuffino. Potremmo, però, decidere di usare la nostra conoscenza “clinicamente”, per «combattere più efficacemente ciò che consideriamo sbagliato, nocivo o lesivo del nostro senso morale».
Oggi la strada è in salita: ma ciò non significa che donne e uomini, cui è affidato l’importante compito di educare e istruire, debbano rinunciare alla loro dignità e alla loro libertà di giudizio. Proprio oggi, nel momento in cui il pensiero debole e omologato si esprime compiutamente nelle scuole e nelle università, è quanto mai necessaria un’opera di disvelamento e di opposizione; essa deve partire da insegnanti consapevoli, in primo luogo, che la loro lotta è volta verso la costruzione di una società migliore di quella in cui una classe dominante rapace e insensibile ci vuol fare vivere.
La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso (Articolo 34 della Costituzione).
1 C. Barone, Le trappole della meritocrazia, Bologna, il Mulino, 2012.
2 Legge 10 marzo 2000, n. 62: «Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione».
3 Guido Calogero, Scuola sotto inchiesta, Torino, Einaudi, 1965, p. 280.
4 Ibidem, p. 284.
5 La buona scuola, p. 124.
6 Nota Miur, 07.01.2016.
7 È questo il bel titolo del saggio di Bourdieu cui si alludeva prima: è del 1964, ma è lì che stiamo tornando.
8 Zygmunt Barman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 10.
fonte: http://www.ilponterivista.com/blog/2016/09/26/la-scuola-retromarcia/
“Pecca ancor più grave è il non riflettere sull’effetto devastante causato dall’uso precoce delle “nuove tecnologie”, che fanno calare nei ragazzi capacità di attenzione e concentrazione, mentre abituano a risposte univoche e veloci. Sovrastimolati da giochini elettronici e dall’uso compulsivo di cellulari e computer i nostri ragazzi sembrano aver perso la capacità di attendere e magari di annoiarsi per qualche secondo senza perdere il filo: ma senza queste capacità è impossibile leggere o seguire una lezione.”
Giusto. In questa materia la distinzione non è di classe. C’è il genitore che persuade e comunque si impone, vieta, non permette, offende e giudica, insomma lotta e accetta il rapporto conflittuale e non sereno. E c’è il genitore indifferente, lo spettatore, i cui figli, trascorrendo 7 ore al cellulare saranno persone di intelligenza modesta e affettivamente instabili. Entrambi i tipi si riscontrano in ogni ceto sociale. La scissione è antropologica.
La scuola di trent’anni fa, quella che ho frequentato, non era certamente il giardino dell’Eden. Ma sono sicuro che i miei insegnanti erano professionalmente più liberi e più felici di quanto non lo sia io oggi.