Nostalgia del presente
di Vitaliano Trevisan
fonte Il manifesto (29 agosto 2010)
Non ho ricordi di un periodo che non fosse di crisi. Come scrive Carlo Michelstaedter nel «Dialogo della salute», riferendosi alla macchina sociale che costantemente cigola in tutte le sue commessure, ma non per questo si sfascia, è possibile, anzi probabile, ma per quanto mi riguarda: è certo, che si tratti davvero del modo suo di essere, cioè del modo di essere di quel sistema globale di cui, volenti o nolenti, dobbiamo accettare di far parte. Sistema globale che è comunque e inevitabilmente composto di sottosistemi particolari legati, e nel nostro caso, cioè Veneto, cioè parte integrante del cosiddetto nord-est, strettamente legati, a un determinato territorio. Sembra una banalità. Lo è. Ma, allo stato attuale dell’arte, il grado di inquinamento semantico è tale che, almeno per chi scrive, niente può essere considerato ovvio, né tanto meno logico, né, tanto più meno ancora, naturale. Tanto più meno ancora: non so se l’espressione sia corretta, ma mi sembra in qualche modo attinente.
Comunque, circa venticinque anni da lavoratore dipendente, nel corso dei quali l’autore di questo scritto ha cambiato frequentemente lavoro e ditta, pur non lasciando mai, se non occasionalmente, la periferia diffusa del nord-est nella quale si è ritrovato a nascere, ebbene se questa mia prima vita da lavoratore dipendente mi ha insegnato qualcosa, è che un’impresa, piccola o grande che sia, per definirsi sana, almeno da queste parti, deve essere oberata di lavoro, cioè essere in crisi per il troppo lavoro; cosa che mi metteva costantemente in crisi, visto che non sono mai stato disposto a fare più di cinque, massimo dieci ore di straordinario alla settimana, laddove i miei colleghi, e spesso anche i miei datori di lavoro, arrivavano tranquillamente al doppio e perfino al triplo. Niente da stupirsi che abbia cambiato così tante ditte: anche dove mi trovavo bene, come si dice, prima o poi il dilemma si ripresentava, anzi: l’offerta di un innalzamento di livello, che mi veniva presentato come un premio, comportava sempre un aumento del volume di lavoro decisamente fuori proporzione, almeno ai miei occhi, rispetto all’aumento dello stipendio, ma compensato, agli occhi della controparte, dalla possibilità – ed era questo il vero premio, di fare tutti gli straordinari che avessi ritenuto opportuno, naturalmente pagati in nero. Del resto, come mi disse un amico imprenditore, il sistema economico veneto si basa sull’evasione fiscale e sullo sfruttamento; e il piccolo imprenditore veneto sfrutta prima di tutto sé stesso. Personalmente, premesso che lo sfruttamento di sé stessi non è condizione sufficiente a legittimare lo sfruttamento altrui, ho la netta impressione che sia il sistema economico nel suo complesso a fondarsi su questo; e per quanto riguarda il cosiddetto nord-est, sempre sulla base dell’esperienza personale, mi spingo a dire che, da queste parti, l’operaio, o, più in generale, il lavoratore dipendente, accetta e assume, rispetto a sé stesso, il medesimo atteggiamento, rendendosi, addirittura con entusiasmo, sfruttabile, sfruttandosi di fatto, esattamente come il padrone da cui dipende, in prima persona – naturalmente, quanto appena enunciato non vale per i dipendenti pubblici; a meno che questi, come spesso e volentieri accade, appena smessi i panni di pubblici dipendenti, ma spesso senza alcun bisogno di smetterli, non svolgano attività in proprio. Ah questo entusiasmo per il lavoro che, a differenza della maggior parte dei miei conterranei, mi ha sempre fatto difetto, creandomi tali e tanti problemi, da costringermi a una mobilità in netto anticipo sui tempi.
In definitiva, e a parte i problemi personali, per troppo lavoro, o per troppo poco, o semplicemente per mancanza di crescita – stagnazione, la crisi, in termini generali, è sempre stata permanente. E costante è sempre stato anche il lamento. Raramente mi è capitato di dire due parole di fila a un imprenditore senza che gli affiorasse alle labbra un lamento sul cattivo raccolto. Lo ammetto: la frase che precede ha qualcosa che non va. Ma se si considerano le origini contadine della testa piccolo-imprenditoriale media, non sembra più così scorretta.
Ora però, tornando all’attuale, si ha l’impressione che si tratti davvero di qualcosa di diverso; come se al ronzio colossale, proprio del funzionamento della macchina sociale nel suo complesso, si andassero aggiungendo dei suoni nuovi, provenienti dal profondo, e a essere in crisi fossero le fondamenta stesse della macchina. Suoni di natura così diversa, rispetto all’usuale panorama sonoro, che anche il peggior sordo, per quanto voglia, non può fare a meno di sentire.
Da qui, io credo, il generale e percepibilissimo senso di disagio, di incertezza, di stupore, di rassegnazione, che sembra essersi diffuso anche in questo mai abbastanza cosiddetto nord-est, nel momento in cui una delle sue più profonde, e radicate, e condivise certezze: la cieca fede nel lavoro, si scopre in crisi. Come per miracolo, essa, la fede, sembra non essere più così cieca! Forse, aver voglia di lavorare non è più sufficiente. Forse è il lavoro, in tutti i sensi, a non essere più sufficiente. Comunque non un lavoro che fa della congestione, dello spazio come del tempo, un, o forse il motore di crescita. Forse non si può consumare all’infinito qualcosa di finito, ovvero: dato un territorio, non si può crescere su di esso all’infinito. Forse, crescere ancora seguendo le stesse modalità, potrebbe non essere più conveniente anche sul medio e breve termine. In altre parole: per quanto le varie consuete e cicliche crisi non abbiano mancato di far sentire i loro effetti nel particolare, la tenuta del sistema non era mai stata seriamente in discussione; ora sì. Con tutta la forza di un’ovvia evidenza, il dubbio si fa strada anche in teste che sembravano del tutto impermeabili. Se non il dubbio, che per ogni presunta maggioranza sarebbe pretendere troppo, almeno un qualche disagio.
Lo si vede negli occhi, lo si sente nella voce. Il lamento, in fondo, è lo stesso, ma lo sguardo tradisce l’inquietudine del dubbio; il tono di voce l’incertezza. Un amico mi parla di una strana malinconia che prima non c’era. Io direi piuttosto una strana nostalgia. Strana perché non rivolta al passato, quanto piuttosto a un presente che non si è mai dato; una variante di quella saudade brasiliana che non ha, nella nostra lingua, un equivalente. Sentimento nuovo, complesso, difficile da definire. C’è in esso, evidente, anche una vena di rassegnazione rispetto al presente in vero essere, che si scopre, in termini di territorio, esteriore e interiore, in gran parte irreversibile.
Del resto, accettare la realtà non è mai stato semplice per nessuno. L’essere umano non ama affatto la realtà; e tanto più fastidio gli procura ogni rimando a essa, tanto più lo si consideri in quanto essere umano organizzato, specie se in una società, com’è l’attuale, che si vuole, ed è, globale, e dunque, ineluttabilmente, fluida, liquida, instabile; e perciò stesso, malgrado gli sforzi per farla apparir tale, mai del tutto governabile; comunque mai senza inevitabili, e per molti dolorose, e per altri addirittura letali, conseguenze collaterali. Del resto, il potere è quello che è sempre stato. L’abito democratico, doppiopetto compreso, è solo l’ultimo modello. Si ha addirittura l’impressione che stia andando fuori moda. Le parole, i cosiddetti valori cui i nostri politici spudoratamente e ossessivamente si richiamano, sono comunque sempre le stesse: Dio, famiglia, tradizione, sicurezza, democrazia, libertà! Parole che piacciono al popolo, parole che rassicurano. Libertà! Gli italiani non hanno mai amato la libertà. Si mettono istintivamente dalla parte del potere, e non amano affatto la libertà. L’uguaglianza forse, anche se non al livello dei francesi. E comunque il popolo non ama affatto le cose semplici, dirette, né il vero, né il semplice. Così, che uno sia presidente del consiglio o saltimbanco, deve sempre promettere l’impossibile. Se prometti poco il popolo si defila, ti abbandona, ti volta le spalle, ti appende per i piedi.
Così si esprime un grande uomo politico in esilio, protagonista di una commedia che pochi conoscono. Inutile aggiungere che, chi scrive, sotto-scrive.
Nel frattempo il singolo, che da sempre segue regole generali, senza per questo avvertirle come tali, muta di comportamento a seconda della classe di appartenenza e della sua situazione particolare. Sensazione che il traffico sia leggermente diminuito, confermata dalla netta diminuzione degli incidenti, mortali e non; aumento dei suicidi, specie nell’ambito della categoria dei cosiddetti piccoli imprenditori; leggero calo degli affitti; aumento delle vendite di tabacco per sigarette; ritorno di mestieri quasi estinti, come il ciabattino, l’arrotino, e tutto ciò che riguarda la piccola manutenzione, del vestiario e d’altro; un ritorno degli orti eccetera.
Sensazione di un generale rallentamento del tempo, una specie di sospensione che determina, ed è un effetto senz’altro positivo, una sorta di decantazione dell’astratto. Mentre si attende che la somma dei comportamenti individuali incida in quantità statisticamente significativa, rendendo leggibile la crisi nello specifico, l’uomo e la donna di buona volontà fanno i propri conti e agiscono di conseguenza. Forse, fatte salve le situazioni davvero drammatiche, impoverirsi un po’, cioè consumare di meno, in termini generali, non è peccato. E qui c’è molto da discutere. È possibile rilanciare l’economia senza rilanciare un consumo che, come si è reso evidente, finisce per consumare, a tutti i livelli, il consumatore e la terra che lo sostiene? È possibile rendere accettabile un’idea di sviluppo che non sia per forza basata, come sinora è stato, su una crescita incontrollata? È possibile perciò rinunciare a qualche ovvietà?, cioè accettare che non tutti possano permettersi un’auto, una moto, una vacanza, il condizionatore, il prato inglese eccetera? È possibile lavorare meno, e soprattutto: è possibile farlo senza che tutto crolli?, o meglio prima che tutto, inesorabilmente, crolli?, e infine: è contemplabile una prospettiva che non faccia della piena occupazione un valore così fondamentale?
In ogni caso, partendo dal presupposto che, come si dice – ed è un’altra sana ovvietà – di poco si vive e di niente si muore, credo che, prima o poi, com’è sempre stato, e ammesso di averne il tempo, di necessità si finirà per fare virtù. Ma è inutile nasconderselo: l’impoverimento generale è una dinamica in atto; né, dati i presupposti, è possibile prevederne l’arco temporale. In termini di società, soprattutto per quanto riguarda le cosiddette classi meno abbienti, bisognerebbe forse iniziare a chiedersi se e quanto sia possibile che una vita più «povera» possa essere comunque vissuta con dignità, cioè senza perdere il rispetto di se stessi. Compito non facile: anche gli uomini e le donne di dubbia volontà, nel frattempo, fanno i loro conti e agiscono di conseguenza. Non per niente, ed è un altro fatto, a dispetto dell’attuale congiuntura, ci sono ricchi che, sull’impoverimento altrui, si fanno sempre più ricchi, specie tra le cosiddette classi dirigenti. Ma crisi significa anche scelta. Magari, come sarebbe ora, si renderà inevitabile scegliere uomini e donne migliori. Per necessità. Sulla virtù, com’è risaputo da tempo immemorabile, almeno per quanto concerne le cose umane, è bene non fare affidamento.
Senza scomodare troppe analisi sul Nordest, ascoltavo poco tempo addietro dei commenti di un piccolo imprenditore tessile di Prato. Adesso che ha la fabbrichetta tutta sua lavora SOLO dal lunedi' al venerdi'. Il sabato e la domenica liberi da impegni lavorativi sono lussi che una volta nessun imprenditore tessile di quella citta' si permetteva.
Oggi invece ci sono i cinesi che lavorano furiosamente ben oltre i limiti contrattuali, sabati e domeniche incluse. Perche' questa discrepanza tra questi due modi di interpretare l'industrializzazione? Credo abbia a che fare con la secolarizzazione. Ci si pone degli obiettivi, e si mettono in pratica tutte le tecniche necessarie al raggiungimento degli scopi. E mentre tutto questo avviene si annotano (magari a livello subliminale) tuggli gli inconvenienti che via via saltano fuori. E' un processo che richiede tempo, molto tempo alle volte. Ma e' anche un processo inevitabile.
Quello che Trevisan fa correttamente notare e' che ad un certo punto succede qualcosa di terribile: l'aspetto subliminale (quello della "strana maliconia che prima non c'era") comincia a polarizzare l'attenzione. Non siamo piu' gli stessi di prima.
Ci rendiamo conto che nella realizzazione di quegli obiettivi abbiamo creato dei disastri. Il sogno si e' trasformato in incubo. Abbiamo voluto la civilta' delle macchine, ed eccoci imbottigliati nel traffico. Bello, no?
Si impone a questo punto qualcosa che "riprogrammi" il sogno, occorre qualcosa che riappacifichi l'aspetto subliminale a quello razionale. Occorre un altro sogno. Per questo motivo sono in disaccordo con la chiusa del bell'articolo.
Proprio perche' la virtu' del saper mettere d'accordo questi due fondamentali aspetti del vivere umano e' andata persa occorre recuperarla. Con una certa urgenza, peraltro.