Il decreto Di Maio va (piano) alla prova dell’Aula
Con questo articolo di Gianvittorio Domini del FSI Genova inauguriamo un ciclo di articoli, dedicati al decreto dignità e alla sua conversione. Fino ad ora, anche e soprattutto per il marketing spinto di Salvini e per la pochezza della opposizione, i discorsi sul governo hanno ruotato attorno a slogan, declamazioni e atti simbolici. Finalmente il Governo ha emanato un provvedimento e quindi finalmente vi è qualcosa di serio o vero da discutere, per poter valutare il Governo in carica.
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Con l’approvazione di lunedì da parte del Consiglio dei Ministri del cd. “Decreto dignità” che introduce misure urgenti per lavoratori ed imprese, il Governo è finalmente sceso in campo sul difficile terreno dell’economia e del lavoro.
L’atteso intervento legislativo del Governo, da più parti criticato a partire dalla sua intitolazione per quel forte richiamo alla “dignità” che a molti è parso ridondante e da altri attaccato all’opposto per il suo approccio giudicato troppo timido e settoriale, si presenta come un provvedimento contenitore con alcune norme di portata limitata.
Siamo molto lontani dalla tabula rasa degli interventi in materia di lavoro fatti dai passati governi promessa in campagna elettorale dall’attuale titolare del dicastero dell’Economia e chi si attendeva oggi un intervento deciso del Governo contro la precarizzazione dovrà aspettare.
Il decreto legge uscito dal C.D.M. di lunedì ha come obiettivo soprattutto quello di limitare l’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato favorendo i rapporti a tempo indeterminato. A questo scopo, il decreto dignità prevede che, fatta salva la possibilità di libera stipulazione tra le parti del primo contratto a tempo determinato, di durata comunque non superiore a 12 mesi di lavoro in assenza di specifiche causali, l’eventuale rinnovo dello stesso sarà possibile esclusivamente a fronte di esigenze temporanee e limitate. In presenza di una di queste condizioni già a partire dal primo contratto sarà possibile apporre un termine comunque non superiore a 24 mesi.
Al fine di indirizzare i datori di lavoro verso l’utilizzo di forme contrattuali stabili, inoltre, si prevede l’aumento dello 0,5% del contributo addizionale – attualmente pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, a carico del datore di lavoro, per i rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato – in caso di rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione.
Ed è proprio sul terreno delle causali che, dopo i primi commenti a caldo, si concentra ora l’attenzione: in attesa che il provvedimento passi all’esame dell’Aula (si prevede che l’iter di conversione sia calendarizzato al Senato ma ad oggi il Decreto non risulta ancora essere stato ufficialmente trasmesso al Quirinale) da più parti della stessa maggioranza si sono già levate le prime voci per una revisione del testo. Anche il previsto aggravio contributivo a carico delle imprese che rinnovano i contratti a termine sembra destinato ad essere messo in discussione in sede parlamentare mentre si fa ipotesi molto concreta la reintroduzione dei voucher, chiesta con forza dal titolare delle Politiche agricole, Gianmarco Centinaio.
Meno discussa finora la parte del decreto che riguarda il contrasto alla delocalizzazione. Il provvedimento del Governo prevede che, fatti salvi i vincoli derivanti dalle norme europee in materia di aiuti di Stato e di utilizzo dei fondi strutturali europei, le imprese italiane ed estere operanti nel territorio nazionale che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che comporti l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio decadano dal beneficio medesimo qualora l’attività economica interessata dallo stesso ovvero un’attività analoga o una loro parte venga delocalizzata in altro Stato entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata. In caso di decadenza si applica anche una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma in misura da due a quattro volte l’importo dell’aiuto fruito. In questo caso a destare interrogativi è la misura temporale: il processo solitamente inizia con una ristrutturazione, procede con la vendita di macchinari giudicati obsoleti, prosegue con l’esternalizzazione progressiva della produzione e solo all’ultimo si conclude con la delocalizzazione; cinque anni potrebbero quindi non bastare a fungere da efficace deterrente a questo fenomeno di desertificazione industriale che viceversa, meriterebbe un intervento organico anche di politica fiscale.
Il decreto del Governo introduce infine alcune misure in materia di semplificazione fiscale – con la revisione del cd. redditometro, il rinvio della prossima scadenza per l’invio dei dati delle fatture emesse e ricevute (cosiddetto “spesometro”), nonché l’abolizione dello split payment per le prestazioni di servizi rese alle pubbliche amministrazioni dai professionisti i cui compensi sono assoggettati a ritenute alla fonte a titolo di imposta o a titolo di acconto – e di contrasto alla ludopatia, con il divieto di pubblicità di giochi e scommesse (ma le lobby sono in agguato).
In attesa che il decreto dignità superi la prova dell’Aula possiamo concludere che, dopo tanto baccano, la montagna ha partorito un topolino.
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