La vera posta in gioco nella guerra in Afghanistan è la cooptazione nella modernità
di Francesco Lamendola – 17/07/2009
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
Gli esperti di geopolitica, di economia e di cose militari possono fornirci svariate ragioni per le quali l'Occidente dovrebbe condurre sino in fondo la guerra in Afghanistan contro i Talebani, oppure per le quali dovrebbe ritirarsi – più o meno in buon ordine -, onde evitare il ripetersi dell'umiliazione subita dagli Americani in Vietnam nel 1975: opzione, quest'ultima, che gli strateghi del Pentagono nell'era Obama hanno già pomposamente battezzato «Exit Strategy»: un eufemismo camuffato da neologismo che, quanto a risibile incongruenza, potrebbe dare dei punti alla «non belligeranza» di mussoliniana memoria.
Tuttavia, geopolitica, economia e scienza militare non possono cogliere, per loro stessa natura, che aspetti parziali e limitati della questione; e, in particolare, non hanno titolo per rispondere alla doverosa domanda di fondo – che, ovviamente, non è solo di ordine politico e sociologico, ma anche e soprattutto etico -: che cosa sono andate a fare, nelle vallate e sulle montagne dell'Afghanistan, le forze armate della coalizione occidentale, pur ammaestrate dal clamoroso fallimento dell'esercito sovietico fra il 1979 e il 1989?
A questa domanda non possono rispondere i geopolitici, né gli economisti e neppure gli esperti di cose militari (questi, meno di chiunque altro); ma una prima, fondamentale indicazione ci viene dal fatto, forse non abbastanza considerato sino a questo momento, che quella che si sta combattendo in Afghanistan dall'ottobre del 2001 è, in assoluto, la più asimmetrica fra quante se ne siano mai viste: quella fra il Paese più ricco del mondo e il Paese più povero del mondo.
Secondo i dati più recenti, gli Stati Uniti d'America hanno una mortalità infantile dell'8% e una speranza di vita di 75 anni per gli uomini e di 80 anni per le donne; l'Afghanistan, da parte sua, ha una mortalità infantile del 257% e una speranza di vita di 42 anni per gli uomini e di 43 anni per le donne.
Gli Stati Uniti hanno un Prodotto Interno Lordo di 12.485.725 milioni di dollari, il che vuol dire una media di 42.101 dollari a persona; l'Afghanistan ha un Prodotto Interno Lordo di 7.139 milioni di dollari, pari a 199 dollari a testa.
Gli Stati Uniti hanno un tasso di analfabetismo dello 0,5%e dispongono di 5,5 medici e 3,3 posti letto ogni 1.000 abitanti; l'Afghanistan registra un tasso di analfabetismo del 79,1%e dispone di 0,2 medici e 1,6 posti letto ogni 1.000 abitanti.
Negli Stati Uniti si contano 676 telefonini cellulari e 762 personal computer ogni 1.000 abitanti; in Afghanistan i cellulari sono 48 su 1.000 abitanti, e i computer sono talmente rari (e costosi) che se ne contano pochissimi, al punto che manca un censimento in proposito.
È necessario continuare?
Sono cifre che parlano da sole e che rendono meglio l'idea, nella loro nuda e impersonale oggettività, di quale sia realmente la posta in gioco nell'odierno conflitto afghano, al di là di tutte le belle parole d'ordine occidentali come liberazione, stabilizzazione, democratizzazione, progresso, benessere e così via: si tratta, né più né meno, dell'ingresso a tappe forzate del Paese asiatico nel Paradiso della modernizzazione, se necessario (e lo è) a suon di bombe: più o meno «intelligenti», ma sempre con un costo altissimo per la popolazione civile.
Insomma, si tratta di qualche cosa di analogo alla collettivizzazione forzata delle campagne nell'Unione Sovietica voluta da Stalin, ove le vittime dell'operazione – dirette o indirette – furono nell'ordine di svariati milioni; con la significativa differenza che in quel caso fu la classe dirigente locale a decidere di effettuare il salto brutale nelle braccia della modernità, onde spezzare la potenziale resistenza interna dei «kulaki» e procedere all'industrializzazione in tempi brevissimi; mentre qui la decisione viene dalla superpotenza americana, determinata a eliminare i fattori di potenziale destabilizzazione rispetto alla sua «pax» imperiale.
Non si dimentichi che l'attacco americano del 2001 non fu lanciato, almeno inizialmente, contro l'Afghanistan come nazione, ma contro un uomo solo: lo «sceicco del terrore» Osama Bin Laden. Strana guerra davvero: lo Stato più ricco e potente del mondo è sceso in campo contro un singolo individuo, un «vecchio della montagna» che pareva uscito dalle pagine de «Il Milione» di messere Marco Polo. È stato solo il rifiuto del mullah Omar di consegnare il fedifrago (ex alleato numero uno degli Americani proprio nello scacchiere afghano, in funzione antisovietica) a provocare l'estensione indiscriminata del conflitto.
Quella estensione, tuttavia, prima o poi ci sarebbe stata comunque. Troppo povero e arretrato, troppo impermeabile ai valori (e ai capitali) dell'Occidente, l'Afghanistan rappresentava in se stesso una sfida alla dottrina americana dell'esportazione mondiale del mercato e della democrazia; e, al tempo stesso, costituiva – e costituisce – una fonte quasi inesauribile di manovalanza per il terrorismo di matrice islamica, sempre bisognoso si innestare kamikaze e bombe umane sulla solida base finanziaria fornita dai petrodollari sauditi.
Vi è una singolare analogia con la guerra sudamericana della Triplice Alleanza, combattuta dal 1865 al 1870 da Brasile, Argentina e Uruguay contro il Paraguay, che ne uscì letteralmente distrutto. In quel caso, dietro la coalizione c'erano i potenti interessi finanziari e industriali della Gran Bretagna, la quale voleva aprire a forza il Paraguay, orgogliosamente autarchico, alle proprie merci e ai propri capitali (un po' come aveva fatto ai danni della Cina, ma agendo in prima persona, nella famigerata «guerra dell'oppio»); in Afghanistan, bisognava dare un esempio e, al tempo stesso, rimuovere lo zoccolo duro del fondamentalismo islamico, principale ostacolo all'attuazione della «dottrina Bush» sull'esportazione forzata del libero mercato e della democrazia.
Il generale Carlo Jean, esperto di cose militari, intervistato nel corso del programma televisivo «Unomattina Estate» il 15 luglio 2009, nel rispondere a una domanda circa le prospettive di successo dell'operazione alleata, ha osservato: «Non si può trasportare in pochi giorni un Paese dalla pre-modernità alla post-modernità».
Al che tutti quanti, ospiti e conduttori, si sono profusi nel magnificare l'importanza della strategia umanitaria, la costruzione di scuole, ospedali, linee elettriche e condutture d'acqua per rifornire le abitazioni private, come fattore decisivo nella lotta contro i Talebani.
È stato osservato, ad esempio, che, dall'inizio delle operazioni militari, il numero degli studenti è salito da 1 milione a 6 milioni; e se ne è concluso – non senza una certa enfasi trionfalistica – che l'alfabetizzazione sarà la migliore alleata degli Occidentali per la vittoria finale.
In tutti questi ragionamenti, o pseudo-ragionamenti, quel che si perde sistematicamente di vista è che i parametri di giudizio occidentali, a dispetto della tanto sbandierata globalizzazione dell'economia e della cultura, non sono affatto così universali come si vorrebbe credere, e far credere agli altri.
Vi sono almeno un paio di miliardi di esseri umani che li rifiutano in modo radicale, metà dei quali di fede islamica; e, se 1.300.000 di Cinesi sono transitati «felicemente» nell'area del libero mercato (ma non in quella della democrazia e dei cosiddetti diritti umani, con grande scorno dell'Occidente), rimane pur sempre un enorme serbatoio di società ed individui che non sono per nulla ansiosi di farsi integrare nelle «magnifiche sorti e progressive» del capitalismo, ma, anzi, sono disposti a farsi uccidere, pur di difendere i propri valori.
Lo stesso generale Jean, nel corso dell'intervista sopra citata, riconosceva che quella in Afghanistan è una guerra profondamente asimmetrica, anche a motivo del fatto che da una parte, quella afghana e talebana, sono in gioco fattori vitali, primo fra tutti la sopravvivenza; mentre dall'altra, no. Questo significa che la parte afghana e talebana ha messo in conto un elevatissimo numero di perdite e dei tempi di lotta decisamente lunghi; mentre gli Americani e i loro alleati – aggiungiamo noi – non sarebbero disposti né a sopportare un numero di caduti troppo elevato, né a prolungare lo sforzo militare (ed economico-finanzario) oltre un certo limite di tempo; anzi, si notano già – come, del resto, in Iraq – evidenti segni di stanchezza.
Ecco un altro parallelo inquietante con il Vietnam: in un conflitto dove una parte lotta per la vita e per la morte, e l'altra lotta per obiettivi politico-strategici di tipo convenzionale, a dispetto della sproporzione tecnologica non vi è dubbio su a chi andrà la vittoria finale. Obama, che – a differenza di Bush junior – non è uno stupido, lo ha capito da un pezzo: è per questo che vorrebbe sganciarsi il più dignitosamente possibile, lasciando il governo di Kabul a sbrigarsela da solo. L'escalation militare americana (e britannica) non ha altro scopo che assestare gli ultimi colpi «utili» ai Talebani, in vista del trasferimento della difesa alle forze afghane pro-occidentali. Anche l'aumento del contingente militare italiano di 500 nuove unità, entro il mese di agosto, rientra in questa strategia che prelude a un graduale sganciamento.
Ma i Talebani, consapevoli delle difficoltà in cui versano i loro avversari, non vogliono né possono perdere questa guerra: per essi è questione di pura e semplice sopravvivenza. Non sono in ballo soltanto questioni come il «burqa» o la coltivazione dell'oppio (che, pure, sono tutt'altro che irrilevanti, e non solo nei loro riflessi interni). È in ballo la possibilità, per le società pre-moderne che non vogliono farsi integrare dall'Occidente alle sue condizioni (e cioè con tutti gli oneri, ma con pochissimi vantaggi), di continuare ad esistere con le proprie strutture economico-sociali, con le proprie culture, con il proprio credo religioso.
Prendiamo in esame l'aspetto economico. Non occorre essere degli esperti di economia per intuire che nessun popolo potrebbe sopravvivere realmente con un P. I. L. di 199 dollari pro-capite: questo è quello che dicono le statistiche, ma la cosa è semplicemente assurda. La verità – e ciò vale non solo per l'Afghanistan, ma per tutto il Terzo e Quarto Mondo – è che quei popoli sarebbero già morti di fame, dal primo all'ultimo individuo, se le loro economie non fossero articolate in maniera da consentire alla gente di sopravvivere a dispetto di tutte le teorie economiche occidentali, sfruttando canali produttivi e commerciali diversi da quelli del libero mercato, così come questo è inteso in Occidente.
Esistono delle modalità di mutuo appoggio, di economia «sommersa», di baratto, di lavoro minorile (che non sempre è odioso e immorale, come non sempre lo era nella nostra società contadina), di riutilizzo dei prodotti di rifiuto, a cominciare da quelli alimentari: tutta una rete di attività, di solidarietà e di integrazione sociale che protegge, entro certi limiti, quelle società dal trauma devastante del passaggio al capitalismo puro.
Tutte queste cose sfuggono ai rozzi parametri di rilevazione stabiliti dagli economisti e dai sociologi occidentali, semplicemente perché nel nostro mondo non esiste, o non esiste più, il loro corrispettivo: e, per la nostra cultura etnocentrica e arrogante, ciò che non esiste entro di essa, non esiste in assoluto.
Questa, dunque, è la posta in gioco in Afghanistan: vedere se l'Occidente saprà imporre l'irruzione della modernità in tempi brevissimi, in un'area particolarmente refrattaria e, anzi, portatrice di una cultura diametralmente antitetica a quella del mercato e della democrazia.
Tutto il resto, a cominciare dalle motivazioni geopolitiche (non si dimentichi che l'Afghanistan confina sia con l'Iran, sia con la Cina, sia con le ex Repubbliche sovietiche del Turkmenistan, dell'Uzbekistan e del Tadzikistan) ha certamente il suo peso, e anche notevole; così come la necessità di avere un nemico di turno che rappresenti il male assoluto (dopo la fine del nazismo e del comunismo): ma non è essenziale.
Essenziale è vedere se gli Americani riusciranno a indurre gli Afghani a bere Coca-Cola, a navigare su Internet, a preferire il cinematografo (per vedere film occidentali) alla frequentazione delle moschee; insomma, a farsi assertori essi stessi della corsa verso la modernità, ossia del libero mercato e della democrazia parlamentare.
Se ci riusciranno, vorrà dire che la globalizzazione è realmente un evento irreversibile e a senso unico, rispetto al quale ogni altra modalità di vita sociale, economica, politica e culturale, dovrà adeguarsi al più presto, pena la distruzione violenta.
A quel punto, i signori dell'economia mondiale potranno rassicurarsi: superato l'ultimo test, si vedrà che Francis Fukuyama aveva ragione, dopotutto, e che la Storia è davvero giunta al capolinea.
Con la vittoria del biglietto verde e della tecnologia occidentale.
Non sono un esperto, ma la teoria proposta mi sembra piuttosto buttata lì. Ora che all’interno degli Stati Uniti si sia creato ad arte un casus belli, come l’11 settembre, con il princiaple obiettivo di fare dell’Aghanistan un mercato per esportarvi coca-cola, hamburger e cellulari …. e quindi affermare un modello culturale e sociale?! Mi pare veramente una tesi campata un po’ in aria. Certamente esiste una contrapposizione culturale e sociale in termini di modelli tra mondo musulmano e Occidente, ma mi pare riduttivo riproporre la teoria dello scontro di civiltà (o di inciviltà), limitandolo all’Afghanistan, anche se bisogna riconoscere che anche al di fuori dei confini, per qualcuno i talebani sono un modello, e quindi un obiettivo da distruggere in chiave occidentale. Penso che la decisione di invadere l’Afghanistan, che è stata presa diverso tempo prima l’11/09/01, contenga più di un obiettivo: 1) Basta guardare una carta delle basi militari Usa e Nato disseminate intorno alla Russia per rendersi conto che è in atto un tentativo di accerchiamento. E’ logico, non si poteva partire armi e bagagli per l’Afghanistan senza avere una grande scusa (vendicare l’affronto dell’11/09); 2) disporre di un grande poligono di tiro per sperimentare qualsiasi tipo d’arma senza tanta riprovazione da parte della comunità internazionale; 3) testare la compattezza della NATO (altrimenti cosa ci stanno a fare tutti quei paesi con qualche sparuto drappello di soldati). Se gli USA volessero potrebbero da un punto di vista militare fare da soli; 4) le vie del gas e del petrolio (vogliamo far finta che questa questione non esista); 5) gestire il mercato degli oppiacei (la droga è sempre una buona merce di scambio per gestire azioni coperte, non che un arma interna formidabile per addormentare le coscienze). Con i taliban al potere probabilmente (non conosco bene i dati, ma ho sentito + volte questa affermazione) la produzione di papavero da oppio era assai più contenuta di quella odierna.
Sicuramente poi ci sono tutta una serie di obiettivi più generali nell’intervento tra cui probabilmente ci rientra anche quello menzionato nell’articolo.
Basta smontare il casus belli, cosa già ampiamente fatto dentro e fuori gli Stati Uniti, per capire che Iraq e Afghanistan sono solo alcuni degli obiettivi di coloro che stanno dietro la macchinazione dell’11/09. Sicuramente c’era l’interesse a rafforzare il ruolo egemonico degli USA a livello militare e quindi ci voleva l’occasione per mostrare i muscoli e riaprire la corsa agli armamenti e quindi ricompattare intorno agli USA tutta una serie di alleati piuttosto recalcitranti o ad attrarne di nuovi nella sfera (es. paesi dell’europa dell’Est). Vi ricordate dopo l’11/09: “O con noi o contro di noi”. Persa l’egemonia economica, bisogna in qualche modo rafforzare l’altra gamba. Dove non arrivano i prodotti, arrivano i cannoni. Altro grande obiettivo era quello di favorire politiche di controllo sempre più stringenti sui cittadini dentro e fuori gli Usa. E giù leggi sempre più restrittive, grandi spese per la sicurezza e maggiore accondiscendenza da parte dell’opinione pubblica verso la violenza di Stato (Guantanamo è solo la punta dell’iceberg). Certamente l’alleanza che sta dietro tutto questo è molto ampia e si basa sui meccanismi del cointeresse e della minaccia, altrimenti non si capisce come mai la quasi totalità dei mass media occidentali a destra come a sinistra, continuino a far finta che la versione ufficiale sul perchè siamo in Afghanistan sia la sola ammissibile (combattere il terrorismo e portare la democrazia), e che l’11/09 sia opera di terribili terroristi arabi.