Note sui doveri degli italiani: leggendo un libro di Maurizio Viroli.
Di Fabio Gallese
L'Italia dei doveri di Maurizio Viroli, Collana Piccoli saggi Rizzoli, 2008.
E' difficile recensire questo sintetico libro (solo 157 pagine) senza cedere alla tentazione di riproporne interi stralci, o frammenti, addirittura intere pagine.
La tentazione di risolvere in questo modo il problema di sintetizzarne il contenuto è grande.
A mia discolpa posso portare solo la chiarezza e la linearità dell'esposizione da parte dell'Autore, che mostra sin dalle prime pagine, senza remore e senza peli sulla lingua, il tenore dell'opera e pone in continuo all'attenzione del lettore il problema cardine del libro: l'assoluta mancanza di una crescita culturale degli italiani verso la maturità come cittadini.
L'Italia dei doveri, si legge nel libro, è erroneamente posta in contrasto con l'Italia dei diritti, faticosamente raggiunti ed in rapida dissoluzione; in nessun modo viene fatto comprendere al cittadino una realtà banale, ma fondamentale: non vi è diritto senza un dovere corrispondente " .. perché credo sia chiaro come il sole che una società democratica formata da cittadini persuasi di avere soltanto diritti degenera nel dominio dei prepotenti sui deboli, dei furbi sugli onesti, dei dissennati sui saggi" (pag.10) .
Sempre dalla stessa pagina, il programma dell'opera espresso nella sua massima sintesi: senza doveri non vi è libertà.
L'opinione diffusa è che la vita sia solo godimento di diritti, e tale opinione è stata così abilmente propalata tra tutte le classi ed i ceti che qualsiasi richiamo al dovere fa classificare colui che opera questo richiamo come moralista, epiteto che diviene una colpa agli occhi dei nostri concittadini, colpa peggiore dell'essere ladro, mafioso, corrotto o bugiardo.
La nostra epoca è stata chiamata ed a buona ragione l'età dei diritti, poiché dal 1791 al 1948 un numero sempre maggiore di uomini e donne ha potuto vivere sotto la protezione di diritti civili, politici, sociali. Tutti questi progressi sono stati difficili, pagati a caro prezzo da tanti che abbiamo dimenticato; ma per essere tali questi diritti hanno bisogno del senso del dovere ossia del rispetto delle regole e dei principi di natura morale che sottendono e sostengono questi diritti.
Il senso del dovere, purtroppo, come ampiamente illustrato nell'opera, non può nascere e crescere per imposizione coatta, ma vive solo per profonda convinzione di coscienza.
Senza questa convinzione, in ogni campo della vita civile sarà impossibile progredire, perché nella sfiducia reciproca non vi è collaborazione, e senza collaborazione non vi è progresso.
Che la libertà sia profondamente connaturata ai doveri autoimposti è magnificamente esposto a pagina 26 dell'opera, da cui per brevità cito un solo periodo: "operare per i principi che noi ci siamo dati è la più alta forma di libertà, quella di chi è padrone di se stesso e non obbedisce ad altri che a sé stesso".
Doveri ed obblighi giuridici possono non essere coincidenti e nel momento in cui divengono confliggenti deve compiersi una scelta di coscienza, altrimenti si rischia di divenire complici di regimi mostruosi e delle loro nefandezze.
L'autore chiarisce con il bellissimo esempio di Carlo Rosselli, da un lato, e degli "inconsapevoli" complici degli orrori nazisti della seconda guerra mondiale, dall'altro: da un lato, la disobbedienza per adesione ad una diversa visione del mondo scaturente dalle proprie convinzioni, che portano ad affrontare l'esilio, il carcere, la morte per rispettare, con dignità, le proprie scelte morali; dall'altro, la supina obbedienza agli obblighi legali: la tesi dell'adempimento di un obbligo giuridico appariva ed appare una argomentazione priva di forza, una mera finzione, una foglia di fico troppo piccola per coprire l'enormità del fatto commesso "obbedendo agli ordini".
Questa libertà individuale di coscienza è sempre frutto di un travaglio interiore non agevole che si percorre in solitudine, un attraversamento del deserto della propria coscienza che non delega le decisioni morali ad altri, non accetta né scorciatoie né ideali precotti e preconfezionati.
L'opera stimola la riflessione del lettore su questo punto.
Ricondotta la situazione di scarsa moralità e scarsa responsabilità del cittadino italiano medio a questa cronica mancanza di responsabilità e di senso del dovere, interrogandosi sulle sue origini, due sono i casi che ci si possono porre.
Nell'uno, si può ipotizzare che l'italiano sia privo di responsabilità e del conseguente senso del dovere ad essa collegato per la mancanza della capacità di infliggersi una sofferenza morale necessaria a questa crescita interiore; tale capacità esce però allo scoperto quando fattori esterni (guerre, carestie, regimi, catastrofi) costringono l'amorfo cittadino a fare i conti con la propria coscienza, attuando nei fatti quel passaggio obbligato nelle proprie motivazioni profonde, senza vie di fuga, che lo costringono a crescere moralmente.
L'alternativa è ammettere che ogni ordinamento faccia di tutto affinché l'italiano si allontani da ogni fonte di riflessione profonda, quasi si temesse una adesione cosciente alle scelte politiche del periodo, ma che la realtà spesso si sia beffata anche del più astuto dei demiurghi ed abbia posto gli italiani di fronte a scelte non rimandabili, inevitabili, gravide di conseguenze.
Gli esempi potrebbero essere molteplici ma in due periodi storici, il risorgimento e la resistenza, di fatto non fu possibile per ogni italiano non fare una scelta di campo, perché in quei casi l'opzione di non impegnarsi li avrebbe fatti divenire bersaglio di entrambe le parti in conflitto.
Questo non vuol dire che vi fossero solo due parti, semplificazione storicamente impossibile, né che tutti aderirono nelle medesime forme.
In entrambi i periodi storici nei due schieramenti vi erano posizioni diverse fra loro, fratture ampliate in seguito negli schieramenti poi risultati vittoriosi, ma fondamentalmente nessuno poté rimanere neutro.
Dobbiamo riporre le nostre speranze nell'aggravamento della crisi economica?
In effetti questa crisi economica potrebbe avere l'effetto di spingere anche i più riluttanti all'impegno, anche i più "distratti", anche i più pigri a riflettere sulle loro condizioni effettive di vita, e spingerli a prendere posizione come non avrebbero mai fatto prima.
Per l'applicazione ai propri doveri ogni uomo ha bisogno di coltivare le virtù del coraggio, dello sdegno, della carità civile.
E queste virtù costano.
Per provare sdegno si deve avere la forza di voler conoscere le verità, anche quelle scomode o imbarazzanti, che ci tolgono certezze. Solo dopo aver assolto l'onere di informarsi a fondo, onere che costa tempo, fatica e dubbi, che mette in discussione le verità di fede, di ideologia in cui ci siamo formati (ma che non necessariamente devono essere ripudiate) si può provare sdegno, e non rabbia cieca, acefala, indistinta.
Lo sdegno per le pessime condizioni attuali, per l'ingiustizia subita da noi o da altri, vicini o lontani, sull'immoralità sistematica, ha senso solo se viene da una riflessione critica in cui i valori di riferimento non posano essere messi in secondo piano da interessi di partito, da dogmi di fede, da ideologie le più varie che pretendono di coltivare quei doveri, ma che immancabilmente impongono, in caso di conflitto, che il valore morale ceda all'interesse, al dogma, all'ordine di partito.
Può l'amor di patria sovrastare i valori morali espressi dalla costituzione?
Secondo il nostro ragionamento no, ma viviamo nella nazione di Gladio, dei servizi segreti deviati, della strage di Ustica, in cui l'"interesse" della politica nazionale ha sacrificato i diritti sacri dei cittadini.
L'unico presidio serio contro molte malattie sessualmente trasmissibili rimane il contraccettivo, la ricerca sulle cellule staminali è la frontiera della medicina moderna, il divorzio è palesemente il male minore rispetto ai delitti ed alle violenze in famiglia, ma l'adesione ai dogmi della chiesa cattolica impedisce a molti di esprimersi liberamente su questi ed altri punti di attrito, anzi, periodicamente vengono bandite campagne per limitare i diritti acquisiti in contrasto alle dottrine di fede.
Qui non si vuole parlare di relativismo religioso, ma è chiaro che i canoni ermeneutici con i quali i gruppi religiosi vedono la realtà non solo sono diversi tra loro ed in pieno contrasto, ma anche mutevoli, per cui non sono valori di riferimento che possono coinvolgere tutti i cittadini, o meglio, il popolo che forma una nazione.
Infatti, una delle maggiori motivazioni esplicite di guerre più o meno ufficialmente riconosciute è il contrasto di fedi religiose, o, più precisamente, il contrasto tra dogmi di fede contrastanti.
Di conseguenza questi dogmi di fede non possono essere terreno comune di formazione delle coscienze del popolo, perchè dividono e non uniscono, sin quando i controllori della dottrina ufficiale delle varie confessioni religiose valorizzeranno solo i principi etici tesi alla supremazia ed al conflitto e continueranno a rinnegare i principi solidaristici presenti nelle religioni (tutte le religioni).
Dopo la conoscenza e lo sdegno, ci vuole il coraggio di agire, anche contro i propri "interessi", o meglio quello che altri vorrebbero fossero i nostri interessi, o che affermano siano i nostri interessi.
Agire nel mondo moderno sembra facile, nell'era in cui l'uomo è andato sulla Luna.
Al contrario, una parte del popolo del pianeta potrebbe agire ma viene tenuto in stato di delirio onirico ad occhi aperti.
L'altra parte, la maggioritaria, sopravvive e non vive, deve preoccuparsi di soddisfare i propri bisogni primari, ma quando può, agisce con coraggio: il coraggio della rivolta, il coraggio dell'emigrazione.
Per tutti quelli che potrebbero pensare che l'emigrazione possa essere considerata una risposta debole alla violazione dei diritti faccio notare che tre sub continenti sono stati popolati con l'emigrazione di chi, in posizione succube in regimi assolutistici, ha "votato con i piedi" cercando migliori condizioni di vita fuori dal luogo in cui è nato e cresciuto, con sofferenza, pazienza e fede nei propri valori.
Che, per l'appunto, sono identici in Alaska e Sudan, Patagonia e Tonga, in tutto il mondo.
Gli individui di tutto il mondo, riconoscendo l'altro come proprio simile, sviluppano metodi di convivenza basati sulla solidarietà, base della convivenza civile e della collaborazione, e su questa base sviluppano i medesimi valori a tutte le latitudini o longitudini.
Quando alcuni individui o gruppi, partendo da posizioni egemoniche, negano per il proprio interesse questi valori, nascono i conflitti.
Nel mondo attuale gli interessi sono globali, e così divengono globali i conflitti.
Solo recuperando i valori di civile convivenza, che non necessariamente sono i valori oggi propagandati dalle "democrazie occidentali", dagli spacciatori di democrazia a pagamento, ma sono quelli presenti in tutte le culture quali l'accoglienza dell'altro, la cooperazione, il rispetto della dignità e dell'opera altrui, solo per citare i più macroscopici, si potrà salvare questa umanità dall'autodistruzione.
Il senso del dovere è l'intima coscienza della sussistenza e dell'importanza di praticare e difendere questi valori per se stessi, le proprie famiglie e, riconoscendo gli altri uguali a noi, per tutti.
Non è mai troppo tardi, ma prima si parte prima si potrà arrivare.
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