Polenta e zucchero
E' un episodio strampalato che ogni tanto mi torna in mente. Siamo
agli inizi degli anni '60, quando frequentavo le scuole elementari. La
scuola era frequentata da gente che abitava in un popoloso quartiere
popolare, edificato durante il fascismo. Proletari, si diceva allora.
E qualche sottoproletario, mi viene da aggiungere.
Lunghe ringhiere di ferro che costeggiavano la serie di porte di
ingresso, corti che in qualche modo ricordavano le aie dei casolari di
campagna e da cui era possibile "ammirare" le ringhiere e le porte.
Non che ce ne fregasse molto, a noi bambini. A noi interessava giocare
a pallone nella corte, magari senza spaccare vetri. O mettere un pezzo
di carburo sopra a della paglia bagnata e coprire con un barattolo
rovesciato, accendere la miccia e….BUM! Bestemmie e minacce di vario
tipo che calano da porte e ringhiere di cui sopra all'indirizzo degli
scapestrati scellerati che avevano fatto tremare i vetri.
Già, scapestrati e scellerati che ogni tanto la facevano così grossa
da rimetterci la vita. Come quel ragazzino che, arrampicatosi sopra i
tetti, scivolò e ci rimise la vita. Era mio cugino, di secondo grado.
Ma sto divagando. Ritorniamo a quella scuola. In prima elementare
c'era una maestra strabica che mi (ci) metteva angoscia; dalla seconda
in poi ci fu un maestro fascista che picchiava con una bacchetta di
bambù le mani di chi aveva disturbato o non aveva fatto i compiti, o
avesse fatto una qualsiasi altra cosa fosse stata a suo insindacabile
giudizio dannosa per il buon svolgimento delle lezioni.
Concetti, lezioni, spiegazioni e tentativi a volte maldestri di
ripetere quello che si era capito che venivano immancabilmente
interrotti dal suono della campanella di metà mattina, quando la
tortura scolastica conosceva una breve tregua: la ricreazione.
Meneo (soprannome che sta a significare Mignolo) quella mattina aveva
una cartella (beh sì, all'epoca non esistevano ancora gli zainetti
omologati dei giorni nostri: Eastpack, Invicta, o Seven)
particolarmente pesante. Lo si vedeva da come arrancava nei corridoi
della scuola e ancor di più dal suono sordo che fece quando venne
"appoggiata" sopra al piano di formica verdina del suo banco.
"Che ci hai messo dentro? Mattoni?" furono i nostri primi commenti,
prima che suonasse la campanella dell'inizio lezione e quindi ancora
in tempo prima che calasse il fascistissimo coprifuoco a suon di
bacchettate. "Ah, vedrete!" fu la sua serafica risposta. In quel
momento la campanella sancì l'inizio della lezione e lo
sguardo severo del fascista non lasciò molti margini di manovra.
Le due ore successive ci fecero (necessariamente, come sempre)
dimenticare tutto.
Fuori quel giorno pioveva, e questo fu un fattore fondamentale. Quando
pioveva il maestro, fascista o strabico che fosse, non ci lasciava
uscire nel cortile della scuola a sgranchirci un po' le gambe. Si
restava in classe, ma ci si poteva alzare mentre il fascista addentava
la mela che aveva precedentemente messo sopra al termosifone. Ci
eravamo sempre chiesti che gusto ci trovasse a mangiare una mela che
non era nè cotta nè cruda.
La melefica bacchetta veniva abbandonata sopra alla
cattedra, e noi in quel quarto d'ora potevamo finalmente chiaccherare.
La cartina dell'Italia era sempre lì, sul muro vicino alla porta e
quel giorno testimoniò qualcosa che non successe mai più.
Meneo lentamente estrasse un involucro di carta dalla cartella
che era appoggiata sul ripiano di ferro del suo banco. Pose con
attenzione l'involucro sopra al banco, ed estrasse un secondo
sacchettino che pose vicino al primo pacchetto.
Ormai aveva tutti gli sguardi puntati. Che razza di merenda si era
portato da casa? Perfino il fascistissimo aveva smesso di masticare la
sua mela semicotta per osservare più attentamente la scena. La cartina
dell'Italia era lì, anche lei curiosa di sapere cosa sarebbe successo
nei secondi successivi.
Meneo aprì l'involucro misterioso e ne estrasse una enorme fetta di
polenta bianca. Il secondo pacchettino conteneva zucchero bianco, che
sparse sopra alla polenta fredda. Nell'aula calò un silenzio surreale
mentre Meneo addentava la polenta zuccherata. Il fascistissimo aveva
la mandibola bloccata a mezz'asta mentre osservava Meneo e la polenta
che lentamente ma inesorabilmente prendeva la strada della sua bocca.
Per un paio di secondi fu il silenzio. Poi il finimondo. Il boato
durò il tempo che il fascistissimo riguadagnasse l'uso della parola e
si riappropriasse della malefica bacchetta di bambù.
Meneo, ovviamente, sembrò fregarsene delle nostre rumorose
canzonature, e si mangiò tutta la polenta. Fatto sta che non ripropose
una seconda volta polenta e zucchero al ludibrio di noi bambini nè
allo sguardo imbarazzato del fascistissimo maestro.
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