L’invasione culturale americana
di SERGE LATOUCHE
Da un aeroporto all’altro, da un hotel Hilton all’altro, potete già percorrere il inondo da Est a Ovest e da Sud a Nord senza sentirvi mai stranieri da nessuna parte, senza fare una sola volta l’esperienza di un vero spaesamento. Vi sono dappertutto le stesse architetture di vetro e di acciaio, le stesse autostrade, gli stessi ingorghi. Le stesse plastiche, gli stessi televisori, gli stessi stadi. E le stesse bottiglie di Coca-Cola. Fino ai souvenir esotici, che vengono attualmente fabbricati per tutto il mondo nelle stesse fabbriche.
Il risultato di questo processo finisce per concretizzarsi in un “ipersviluppo” economico per la potenza seduttrice e in un sottosviluppo più o meno rilevante per la popolazione sedotta. L’impatto economico è tanto più negativo quanto più è accentuata la differenza tra i livelli di sviluppo di partenza. I Paesi africani hanno poche probabilità di trovare in un simile gioco delle vie d’uscita che compensino le loro perdite. Il divario tra il loro consumo reale, quello sognato e la loro capacità produttiva aumenta senza sosta. Questo processo di uniformazione si è messo in moto da molto tempo. Pascal lo denunciava già nel diciassettesimo secolo in termini validi ancora oggi: «Noi abbiamo uniformato la diversità, proprio per esserci voluti conformare all’uniformità».
Il processo prende talvolta l’andamento di una legge biologica, così come accade per la scomparsa delle lingue parlate o delle specie vegetali e animali. Si direbbe un’estensione della selezione naturale delle specie e della lotta per la vita, conformemente alla teoria dell’evoluzione di Charles Darwin. Oggi resterebbero circa seimila delle ventimila lingue parlate dagli uomini nel periodo neolitico, e si ritiene che la metà sarà scomparsa fra un secolo. Soltanto in America, una lingua muore ogni anno.
Il “catawba” della Carolina del Sud è appena scomparso con la morte del suo ultimo locutore, «Nuvola rossa tempestosa». Il suo cane è l’unico essere vivente in grado di comprendere ancora questa lingua… Un centinaio di idiomi sono parlati solo da pochi anziani. L'”aore” sopravvive solo nella parlata di un unico abitante di Vanuatu; il “sireneski” non è parlato che da due vecchie donne dell’estrema Siberia orientale; l'”émolo” è conosciuto solo da sei etiopi. Meno di duecentomila locutori si distribuiscono le centottanta lingue indie dell’Amazzonia. Al contrario, cinque lingue – il cinese, l’inglese, il russo, lo spagnolo e l’indostano – sono parlate da più della metà dell’umanità, mentre meno di cento lingue si spartiscono più del 95% del pianeta.
La biodiversità si riduce in modo del tutto simile portando alla quotidiana scomparsa di specie vegetali o animali. Ci alimentiamo con un numero sempre più ristretto di piante e di animali, e solo con varietà molto produttive, mentre le popolazioni tradizionali conoscevano migliaia di specie. Se ancora i nostri nonni coltivavano duemila varietà di mele, oggi noi mangiamo quasi solo delle golden…
Questa uniformazione è in atto in Europa dall’inizio dell’epoca moderna, cioè dal Rinascimento. Volendo costruire la società umana sulla base della Ragione, e solo su questa, nel diciottesimo secolo i filosofi illuministi, nel respingere come irrazionali le tradizioni e le consuetudini, e nel combattere le credenze non scientifiche come altrettanti pregiudizi, sono stati i profeti di una città universale e uniforme. Va però detto, a loro discolpa, che sognavano questa città come un centro di fraternità e non come un mondo sconvolto dalle disuguaglianze, dalle ingiustizie e dai conflitti.
Col tempo, le differenze locali e regionali, così come i modi di parlare e le consuetudini, si sono fusi nell’ambito degli insiemi nazionali. E mentre la ragion di Stato è diventata lo strumento della Ragione, i diritti dell’uomo hanno proclamato una cittadinanza mondiale. In Europa, Napoleone è stato un potente propagatore dell’uniformità, introducendo il sistema metrico e il codice civile man mano che avanzava con i suoi eserciti.
Oggi la parola d’ordine è l’uniformità… (stesso codice, stesse unità di misura, stessi regolamenti, e, se vi si può giungere gradualmente, stessa lingua; ecco ciò che costituisce la perfezione di ogni organizzazione sociale). Nel diciannovesimo secolo, il grande sociologo francese Alexis de Tocqueville analizza l’ascesa di ciò che definisce «l’uguaglianza delle condizioni». Egli ritiene questo movimento, legato all’immaginario democratico dei tempi moderni, assolutamente irrefrenabile. Vede nella democrazia degli Stati Uniti d’America il prototipo perfetto delle società del futuro.
Questa uniformazione non è forse un semplice processo di “americanizzazione” del mondo conseguente all’egemonia degli Stati Uniti e alla loro particolare condizione di crogiolo di culture? La standardizzazione dell’immaginario alla quale assistiamo lascia ancora spazio alla diversità, e se sì, a quale? Siamo di fronte, insomma, all’avvento della città universale e fraterna sognata da molti utopisti o a un processo di sradicamento a livello planetario?
Certamente gli Stati Uniti occupano una posizione privilegiata, dovuta non soltanto alla loro potenza economica e politica, ma anche a un complesso di circostanze storiche. In effetti, essi incarnano, più della vecchia Europa, la realizzazione quasi integrale del progetto della modernità. Società giovane, artificiale e senza radici, è stata costruita fondendo gli apporti più diversi. L’organizzazione razionale, funzionale e utilitaristica che ha presieduto alla sua costituzione può diventare universale. L’Europa ha colonizzato il mondo, ed è stato possibile denunciare l'”eurocentrismo”. L’America ha poi ripreso la duplice eredità della vecchia Europa: quella dell’impero britannico e quella dell’universalismo dei Lumi. Gli Stati Uniti sono ormai l’unica superpotenza mondiale e la loro egemonia politica, militare, culturale, finanziaria e persino economica è incontestabile. Le principali società transnazionali sono nordamericane e mantengono salda la presa sulle nuove tecnologie e sui servizi più sofisticati.
Dagli Stati Uniti, e in misura minore dagli altri Paesi sviluppati, partono dei flussi culturali a senso unico che inondano il pianeta: immagini, parole, valori morali, norme giuridiche, codici politici, criteri di professionalità si riversano dalle unità creatrici verso il resto del mondo attraverso i media (giornali, radio, televisioni, film, libri, dischi, videocassette e, ora, reti informatiche).
La parte più importante della produzione mondiale di “segni” si concentra al Nord (così come il 70% della produzione mondiale di giornali e il 73% della produzione di libri), o si fabbrica in stabilimenti che esso controlla, secondo le sue regole e le sue procedure. Oltre al possesso della quasi totalità delle industrie culturali, il Nord beneficia di un monopolio pressoché totale dei patrimoni accumulati dai vecchi Stati nazionali, grazie anche al saccheggio delle ricchezze mondiali, attraverso i musei, le biblioteche, le banche dati.
Esistono più di cento agenzie d’informazione sparse sulla terra; tuttavia cinque agenzie transnazionali controllano da sole il 96% dei flussi mondiali d’informazione. Tutte le radio, tutti i canali televisivi, tutti i giornali del pianeta sono abbonati a queste agenzie. Il 65% delle informazioni mondiali parte dagli Stati Uniti. Dal 30 al 70% delle trasmissioni televisive sono importate dal centro. Tuttavia, rispetto ai Paesi sviluppati, il Terzo mondo consuma 5 volte meno cinema, 8 volte meno radio, 15 volte meno televisione, 16 volte meno carta stampata.
Questi flussi d’informazione non possono non «informare» i desideri e i bisogni, i modi di comportarsi, le mentalità, i sistemi educativi, i modi di vita dei recettori. La «messa in conserva» della cultura grazie all’avvento del CD-Rom interattivo rappresenta un mercato gigantesco che i colossi del multimediale si contendono. Il sorgere delle autostrade informatiche e delle reti rafforza ulteriormente la supremazia dei media transnazionali soprattutto a predominanza americana. Si può dunque parlare di una vera e propria invasione culturale ad opera degli Stati Uniti con qualche apporto complementare di questo o quel Paese del Nord.
[La fine del sogno occidentale, trad. it. Elèuthera, Milano 2002]
Bell’articolo, bravo Massimiliano, ogni tanto fà piacere sentire argomentazioni su aspetti socio-culturali e non solo giuridici o economici, seppur quest’ultimi altrettanto importanti.