Michel Feltin-Palas – tradotto da Marilena Inguì per Tlaxcala fonte Lexpress – letto su Altre corrispondenze
Bisogna preoccuparsi per il predominio della lingua inglese? Le lingue nazionali scompariranno? Senza sciovinismi né arcaismi, il linguista Claude Hagège fa il punto della situazione.
La Settimana della lingua francese, appena terminata, non è stata sufficiente a confortare Claude
Da amante delle lingue, Claude Hagège difende la diversità e si oppone fermamente alla supremazia dell’inglese. Foto Yann Rabarier/L'Express
Claude Hagège in 5 date 1955 Ingresso all’ Ecole normale supérieure 1966 Prima inchiesta linguistica sul campo, in Camerun Dal 1988 Professore al Collège de France 2009 Dictionnaire amoureux des langues (Plon)[1] 2012 Contre la pensée unique (Odile Jacob)[2] |
Hagège Poiché l’osservazione del grande linguista è inappellabile: mai, nella storia dell’umanità, una lingua è stata “paragonabile, per diffusione nel mondo, di quanto lo sia oggi l’inglese”. Egli sa bene quel che si dirà: che la difesa della lingua francese è una battaglia sorpassata, francocentrica, antiquata. Una mania da vecchi scontrosi refrattari alla modernità. Ma non se ne cura. Poiché, ai suoi occhi, il predominio della lingua inglese, non soltanto costituisce una minaccia per il patrimonio dell’umanità, ma è carico di un rischio ben più grave: lo sfociare di questa “lingua unica” su un “pensiero unico”, ossessionato dal denaro e dal consumismo. Ci rassicura il fatto che se Hagège è preoccupato non è certo disfattista. Lo prova quest’intervista dove ciascuno ha quel che si merita…
Come si arriva alla decisione di consacrare la propria vita alle lingue?
Non lo so. Sono nato e cresciuto a Tunisi, una città poliglotta. Ma non credo che questa sia l’unica spiegazione sufficiente: i miei fratelli non hanno affatto seguito questa strada.
Quali lingue ha imparato da bambino?
A casa parlavamo in francese, ma i miei genitori mi hanno fatto frequentare in parte i miei studi in lingua araba – e ciò dimostra la loro apertura di spirito, dato che l’arabo era allora considerato come la lingua dei colonizzati. Ho appreso anche l’ebraico, sia biblico che israeliano. E infine ho imparato l’italiano, che utilizzavano alcuni tra i miei insegnanti di musica.
Quante lingue parla?
Se devo contare gli idiomi di cui conosco le regole, posso menzionarne alcune centinaia, come la maggior parte dei miei colleghi. Se si tratta di enumerare quelle nelle quali mi so esprimere correntemente, la risposta sarà una decina.
Molti francesi pensano che la loro lingua sia tra le più difficili e che, per questo motivo, sia “superiore” alle altre. E’ davvero così?
Assolutamente no. In primo luogo, non esistono lingue “superiori”. Il francese non è stato imposto, a svantaggio del bretone o del guascone, grazie alle sue supposte qualità linguistiche, ma poiché era la lingua del re e poi quella della repubblica. E’ sempre così, del resto: una lingua non si sviluppa mai grazie alla ricchezza del suo vocabolario o alla complessità della sua grammatica, ma perché lo stato che la utilizza è potente militarmente – così è stato, ad esempio, per il colonialismo – o economicamente, così è per la “globalizzazione”. In secondo luogo, il francese è una lingua meno difficile che il russo, l’arabo, il georgiano, la lingua fula o, soprattutto, l’inglese.
L’inglese? Ma tutto il mondo, o quasi, lo utilizza!
Molti parlano un inglese “da aeroporto”, che è molto diverso! L’inglese degli autoctoni resta una lingua ardua. Specialmente la sua ortografia è particolarmente difficile: pensate che ciò che si scrive “ou” si pronuncia, per esempio, in cinque modi diversi in through, rough, bough, four et tour!
Inoltre, si tratta di una lingua imprecisa, e ciò rende tanto meno accettabile la pretesa all’universalità.
Imprecisa?
Esattamente. Prendiamo la sicurezza aerea. Il 29 dicembre 1972, un aereo si è schiantato in Florida. La torre di controllo aveva ordinato: “Turn left, right now”, ovvero “Girate a sinistra, immediatamente”. Ma il pilota aveva interpretato “right now” come “a destra ora”, e ciò ha provocato la catastrofe. Anche in diplomazia, la versione inglese della famosa risoluzione 242 dell'ONU del 1967, raccomanda il "withdrawal of Israel armed forces from territories occupied in the recent conflict". I paesi arabi avevano ritenuto che Israele dovesse ritirarsi “dai” territori occupati – sottinteso: da tutti. Mentre Israele aveva considerato sufficiente ritirarsi “da” territori occupati, cioè da parte di essi soltanto.
Questo è un buon motivo per muovere una guerra così violenta contro la lingua inglese?
Io non faccio la guerra contro l’inglese. Io faccio la guerra contro coloro che pretendono di fare dell’inglese una lingua universale, poiché questo predominio rischia di causare la scomparsa delle altre lingue. Io combatterei così energicamente il giapponese, il cinese o anche il francese se avessero la stessa ambizione. Accade oggi che è l’inglese che minaccia le altre lingue, poiché mai, nella storia, una lingua è stata usata in tale proporzione sui cinque continenti.
Cosa c’è di spiacevole? L’incontro fra culture non è sempre un arricchimento?
L’incontro fra culture, sì. Il problema è che la maggior parte delle persone che affermano “bisogna imparare delle lingue straniere” non ne imparano che una sola: l’inglese. E ciò costituisce una minaccia per l’umanità intera.
Fino a che punto?
Soltanto le persone poco informate pensano che una lingua serva unicamente a comunicare. Una lingua costituisce anche un modo di pensare, una maniera di vedere il mondo, una cultura. In hindi per esempio, si utilizza la stessa parola per “ieri” e “domani”. Ciò ci stupisce, ma questa popolazione distingue fra ciò che è – oggi – e ciò che non è: ieri e domani, secondo questa concezione, appartengono alla stessa categoria. Tutte le lingue che spariscono rappresentano una perdita inestimabile, così come un monumento o un’opera d’arte.
Tra i 27 paesi dell’Unione Europea, non è utile adoperare l’inglese per comunicare? Spendiamo una fortuna in traduzioni!
Questa idea è stupida! La ricchezza dell’Europa risiede principalmente nella sua diversità. Come dice lo scrittore Umberto Eco[4], “la lingua dell’Europa, è la traduzione”. Poiché la traduzione – che costa meno di quanto si pensi – mette in rilievo le differenze tra le culture, le esalta, permette di comprendere la ricchezza dell’altra. Ma una lingua comune è molto pratica quando si viaggia. E questo non implica l’eliminazione delle altre!
Ci pensi bene. La storia lo dimostra: le lingue degli stati dominanti conducono spesso alla scomparsa delle lingue degli stati dominati. Il greco ha inghiottito il frigio. Il latino ha ucciso l’iberico e il gallico. Ad oggi, 25 lingue scompaiono ogni anno! Comprenderà bene che io non mi batto contro l’inglese, io mi batto per la diversità. Un proverbio armeno riassume meravigliosamente il mio pensiero: “Tante lingue conosci, tante volte sei uomo”.
Lei va ben oltre, affermando che una lingua unica condurrà ad un “pensiero unico”…
Questo punto è fondamentale. Bisogna comprendere bene che la lingua struttura il pensiero di un individuo. Alcuni credono che si possa promuovere un pensiero francese in inglese: sbagliano. Imporre la propria lingua, equivale ad imporre il proprio modo di pensare. Come spiega il grande matematico Laurent Lafforgue[5]: non è perché la scuola matematica francese è influente che può ancora diffondersi in francese; è perché essa divulga in francese che è potente, poiché ciò la conduce a strade di riflessione differenti. Lei ritiene anche che la lingua inglese sia portatrice di una certa ideologia neoliberale…
Si. E questa, minaccia di distruggere le nostre culture nella misura in cui è focalizzata essenzialmente sui profitti.
"Nessun popolo senza la propria lingua, nessuna lingua senza diritto alla parola"
Ben
Non la seguo…
Pensi al dibattito sull’eccezione culturale. Gli americani hanno voluto imporre l’idea secondo la quale un libro o un film debba essere considerato come un oggetto commerciale qualunque. Poiché essi hanno compreso che oltre a quella bellica, diplomatica e commerciale esiste anche una guerra culturale. Una lotta che essi intendono vincere per ragioni nobili – gli Stati Uniti hanno sempre valutato i loro valori come universali – e meno nobili: la standardizzazione degli spiriti è il miglior mezzo per vendere i prodotti americani. Pensi che il cinema rappresenta il prodotto d’esportazione più importante, ben più che le armi, l’aeronautica o l’informatica! Da ciò la loro volontà d’imporre l’inglese come lingua mondiale. Anche se si nota da un paio di decenni una certa riduzione della loro influenza.
Per quali ragioni?
Intanto perché gli americani hanno conosciuto una serie di sconfitte, in Iraq e in Afghanistan, che li ha resi coscienti del fatto che certe guerre si perdono anche per la mancanza di comprensione delle altre culture. Inoltre, perché internet favorisce la diversità: negli ultimi dieci anni, le lingue che hanno visto la più rapida crescita sul web sono l’arabo, il cinese, il portoghese, lo spagnolo ed il francese. Infine, poiché le popolazioni si mostrano legate alle loro lingue materne e si ribellano pian piano a questa politica.
Non in Francia, a quanto scrive… Lei si scaglia anche contro le “élite vassalizzate” che minerebbero la lingua francese.
Lo sostengo. E’ del resto un’invariante nella storia. Il gallico è sparito poiché le élite galliche si sono premurate di mandare i propri figli alle scuole romane. Le élite provinciali, più tardi, hanno insegnato ai loro figli il francese a danno delle lingue regionali. Le classi dominanti sono spesso le prime ad adottare la lingua dell’invasore. E succede ancora oggi con l’inglese.
Come se lo spiega?
Adottando la lingua del nemico, essi sperano di avere profitto sul piano materiale, assimilandosi ad esso per beneficiare simbolicamente del suo prestigio. La situazione diventa grave quando alcuni si convincono dell’inferiorità della propria cultura. In certi ambienti sensibili alla moda – specialmente la pubblicità, ma anche, perdonatemi se lo dico, il giornalismo – si ricorre agli anglicismi senza alcun motivo. Perché dire “planning” al posto di “pianificazione del tempo”? “Coach” al posto di “allenatore”? “Lifestyle” al posto di “modo di vivere”? “Challenge” al posto di “sfida”?
Per distinguersi dal popolo?
Senza dubbio. Ma coloro che si impegnano in questi piccoli giochi si danno l’illusione di essere moderni, mentre non sono che americanizzati. E si giunge a questo paradosso: sono spesso gli immigrati a dichiararsi i più fieri della cultura francese! E’ vero che essi si sono battuti per acquisirla: ne valutano apparentemente meglio il valore di coloro che si sono accontentati di ereditarla.
Cosa pensa di quei genitori che ritenendo di far bene spediscono i loro figli in Inghilterra o negli Stati Uniti per un soggiorno linguistico?
Io rispondo loro: “Perché non la Russia o la Germania? Sono dei mercati portanti e molto meno concorrenziali, in cui i vostri figli troveranno più facilmente lavoro”.
Non teme di essere etichettato come antiquato o petainista?
Ma in cosa è antiquato utilizzare le parole della propria lingua? E in cosa, il fatto di difendere la diversità, dovrebbe essere equiparato ad una ideologia fascistizzante? La lingua francese è alla base stessa della nostra rivoluzione e della nostra repubblica!
Perché gli abitanti del Québec difendono il francese con più impeto di noi stessi?
Perche loro sono più consapevoli della minaccia: essi formano un isolotto di 6 milioni di francofoni in mezzo ad un oceano di 260 milioni di anglofoni! Da ciò la loro straordinaria attività neologica. Sono stati loro, per esempio, ad inventare il termine “courriel” (e-mail N.d.T.) che invito i lettori di L’Express ad utilizzare!
La vittoria dell’inglese è irreversibile?
Assolutamente no. Sono già state adottate alcune misure positive: le quote di musica francese su radio e televisioni, gli aiuti al cinema francese, etc. Ahimè, lo stato non gioca sempre il suo ruolo. Complica l’accesso al mercato del lavoro dei diplomati stranieri formati da noi, sostiene insufficientemente la francofonia, chiude delle Alliances Françaises… I cinesi hanno aperto 1100 istituti Confucio nel mondo. Ce n’è uno anche ad Arras!
Se ci fosse una sola misura da prendere, quale sarebbe?
Tutto comincia alla scuola primaria, dove si dovrebbero insegnare non una, ma due lingue moderne. Poiché se si propone una sola lingua, tutti si precipitano sull’inglese e ciò aggrava il problema. Offrirne due, è aprirsi alla diversità.
Nicolas Sarkozy è solito agli errori di sintassi: “Ci si domanda a che è servito loro…”[6] o ancora: “Ascolto, ma non ne tengo conto”[7]. E’ grave, da parte di un capo di stato?
Può esserlo meno di quanto si creda. Guardi: ha rilanciato le vendite di La Princesse de Clèves[8] da quando ha criticato questo libro di Madame de La Fayette! Ma è certo che de Gaulle e Mitterrand erano più colti e avevano un rispetto più grande per la lingua. Il francese potrebbe essere il portabandiera della diversità culturale nel mondo?
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I limiti dell’inglese in azienda Nel 1999, l’Amministratore Delegato di Renault, Louis Schweitzer, impose l’inglese nei resoconti delle riunioni di direzione. Una misura che egli sarà poi costretto a rivedere, con grande soddisfazione di Claude Hegège. “Le aziende che hanno adottato questa misura hanno perso in efficacia. Per una semplice ragione, che descrive molto bene l’ex padrone di Sanofi-Aventis, Jean Francois Dehecq: “Se noi imponiamo l’inglese a tutti, i nativi anglofoni esprimeranno il 100% del loro potenziale, coloro che lo parlano bene come seconda lingua, il 50%, e gli altri, il 10%” “Del resto, è falso credere che l’inglese sia indispensabile per il commercio, riprende Hagège. A volte succede il contrario. Quando si vuole vendere un prodotto ad uno straniero, è meglio utilizzare la lingua del cliente, che non è sempre l’inglese! Una grande compagnia d’acqua francese si è recata recentemente a Brasilia. Quando i suoi rappresentanti hanno cominciato a ricorrere all’inglese i Brasiliani, la cui lingua ha origini latine come la nostra, si sono infuriati. Per anglomania, i nostri commerciali hanno trasformato un vantaggio culturale in handicap!” |
Ne sono convinto, poiché esso dispone di tutte le caratteristiche di una grande lingua internazionale. Per la sua diffusione nei cinque continenti, per il prestigio della sua cultura, per il suo status di lingua ufficiale all’ONU, alla Commissione Europea o ai giochi olimpici. Ed anche per la voce singolare della Francia. Pensi che dopo il discorso di M. de Villepin[9] all’ONU, che si opponeva alla guerra in Iraq, si è assistito ad un aumento di iscrizioni nelle Alliances Françaises. Non è contraddittorio voler promuovere il francese a livello internazionale lasciando morire le lingue regionali?
Lei ha ragione. Non si può difendere la diversità nel mondo e l’uniformità in Francia! Da poco, il nostro paese ha cominciato ad accordare alle lingue regionali il riconoscimento che esse meritano. Ma sarebbe stato necessario attendere che esse agonizzassero e non rappresentassero più alcun pericolo per l’unità nazionale.
Quindi ormai è tardi…
E’ tardi, ma non troppo. Bisogna aumentare i mezzi destinati a queste lingue, salvarle, prima che ci si accorga di aver lasciato affondare una delle grandi ricchezze culturali della Francia.
[6] "On se demande c'est à quoi ça leur a servi…": registro informale (ça invece di cela); struttura enfatica incompleta (N.d.T.)
[7] "J'écoute, mais je tiens pas compte" : omissione della negazione ne, tipica del registro informale (N.d.T.)
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Io l'ho sempre rifiutata e me ne vanto. Fino a un decennio fa ancora non distinguevo on da off
Questo articolo è pieno di castronerie (la parte sull'incidente aereo è ridicola, per es. in francese in non distinguo facilmente "dritto" da "destra", e comunque Hagege dovrebbe spiegarci in che lingua dovrebbero comunicare i piloti d'aereo), forzature (le 25 lingue che scompaiono ogni anno scompaiono per dissoluzione della cultura che le parla, e non si può ridurre il tutto all'imperialismo statunitense) e ideologismi vari.
Non esistono lingue più adatte di altre a veicolare significati come "denaro" o "specualzione", o concetti come "freghiamoli tutti questi sporchi negri" oppure "domani mi voglio proprio comprare una ferrari e non so come fare… ah sì, c'è la borsa".
Hagege è un modesto linguista storico e potrebbe limitarsi a quel campo. Quest'articolo è biecamente ideologico, e di un'ideologia campanilista, particolarista.
Siate seri, come di solito siete!
Stando a quanto sostiene Hagege il russo ed il cinese sono lingue che veicolano naturalmente ideologie comuniste, mentre l'inglese veicola ideologia neocon di suo.
Le lingue neolatine d'altronde avrebbero altre caratteristiche, così come quelle arabe e così via. Fatto sta che, con le dovute e sconosciute eccezioni, fanno tutte riferimento a società spiccatamente stratificate. Apparatchick o elites, a seconda che preferiate il russo al francese. Per noi che lavoriamo fa una gran bella differenza. Vive la difference, no? Ah, già, egalitè, fraternitè e così via.
bene han fatto i commentatori precedenti a rilevare le insulsaggini del post, che ho pubblicato appositamente.
l'unica affermazione convincente Hagege la fa a proposito della lingua madre come strutturazione del pensiero, o meglio, aggiungo io, della rappresentazione che ci facciamo attraverso essa di ogni cosa e delle sue relazioni ovvero del mondo.
Hagege fa' notare solo incidentalmente, ma è bene sottolinearlo, che pensare la lingua come comunicazione interpersonale e non come concepimento -pre-figurazione comunitaria – dei fenomeni reali rende, quello sì, le lingue interscambabili, ed a questo è del tutto conseguente e naturale il convergere nella koinè egemone dell' inglese manageriale , ovviamente a ruota con il convergere dei modi di produzione nel più performante modo di (ri)produzione del Capitale.
Ora, venendo alle intenzioni sottostanti la pubblicazione di questa stupidissima intervista, mi volevo porre il problema della sussunzione reale che il capitale opera ogni giorno incessantemente rispetto ad ogni tradizione come rispetto ad ogni emancipazione: una volta preso atto di ciò non è sufficiente remare controcorrente (come vorrebbe fare il progressista intervistato) per disattivare il meccanismo di dominio.
Non mi sento di rispondere direttamente all'ultima domanda di altrecorrispondenze.
Ma quanto al precedente ragionamento, più semplicemente e più "prepoliticamente", aggiungerei che la lingua è qualcosa di più di un filtro di lettura del mondo esterno, perché coincidendo in essa quel che si può pensare (con poche eccezioni) e quel che si vuol significare e comunicare, essa è il mondo esterno, o perlomeno non è importante che il mondo differisca da quel che se ne può dire, significare e pensare.
Insomma la vita è un'esperienza mentale, e se ce lo stiamo qui a dire è perché possediamo una mente che usa una lingua.
Detto ciò, le parole delle lingue seguono gli oggetti, perciò è comodo, forse anche abituale e tendenziale anche se non arriva a essere normale (nel senso che se può trarre un'abitudine e una tendenza ma sarebbe sbagliato pensare di trarne una norma), che il mouse si chiami mouse in italiano, in russo e in giapponese. Se invece gli spagnoli lo chiamano raton essi senza pensarci fanno un calco semantico su una parola di un'altra lingua, il cui significato primario (topo) è come si vede del tutto arbitrario (il mouse non somiglia per forza a un topo, e a me che sono figlio di un architetto, la prima volta che lo vidi, esso sembrò un filo a piombo).
Nessuno scandalo, se non per chi ne cerca a bella posta
Dopodiché la lingua è usata, dicevamo, per comunicare. E' e deve essere interscambiabile tra persone che hanno lingue madri diverse, pena l'incomprensione.
Perché dovremmo non comprenderci? In virtù di quale scelta di vita? Se la lingua è la nostra rappresentazione del mondo, e se noi accettiamo che esistano altri esseri simili a noi nello stesso mondo, l'interscambiabilità della lingua è un fatto naturale, che dipende direttamente dalle circostanze. Quando parliamo con qualcuno scambiamo pezzi di lingua con altri pezzi della lingua di quel qualcuno; farlo in un'altra lingua comporta solo un'approssimazione, un adattamento, più preciso per chi conosce bene l'altra lingua, meno per chi la conosce male.
Oppure decidiamo di tacere, di non comunicare, e conserviamo l'uso della lingua dentro di noi, per pensare. Ma attenzione, se compiamo questa scelta lo facciamo perché non vogliamo comunicare, non perché non possiamo, non perché la lingua ce lo impedisce. L'incomunicabilità insomma non è una causa efficiente (non dipende dalla lingua), ma solo una causa finale (è lo scopo che ci interessa, cioè la reazione che dalla comunicazione scaturirebbe, e pertanto taciamo perché vogliamo evitare quella reazione).
Dunque basterebbe non parlare inglese per evitare la deriva liberista-mercantilista! Geniale, perché non ci ho pensato prima?
No, mi spiace, gli argomenti di Hagege scricchiolano e le deduzioni che ne trae non sono valide (per fargli un complimento), perché non sono deduzioni
Io ho trovato nell'articolo parecchie affermazioni che condivido, anche se c'è una tendenza ad esasperare motivazioni (Marco ha segnalato motivazioni esasperate) al punto da far perdere valore all'asserzione che, talvolta, non necessitava addirittura di motivazione.
Comunque la lingua è qualche cosa di prepolitico. Imporre a un popolo una lingua diversa dalla sua è una violenza, alla quale i popoli generalmente si ribellano. E spesso conservano per secoli la lingua orale, non ammessa nelle scuole e nei tribunali. Che poi ogni lingua si trasformi e sia frutto di contaminazioni è un'altra cosa. La lingua per il popolo è un dato, come la madre e il padre; è una dote; una dotazione linguistica, appunto. E sarebbe bene che tutti, soprattutto coloro che hanno maggiori capacità, prendessero cura della lingua che si è presa cura di loro. Questa banalità si deve e si può dire senza rischiare di cadere in purismi privi di senso.
La lingua inglese, molto probabilmente seguirà la stessa sorte del latino: si frantumerà in parecchie neolingue. Ciò accadrà quando gli Stati Uniti non saranno più potenza egemone sul pianeta. Alcune avvisaglie cominciano già a notarsi fin d’ora. Certo l’inglese parlato in Australia o in Africa, o negli stessi Usa, specie negli stati del sud, non è lo stesso di quello parlato a Londra. E anche qui in Italia, e in altri paesi europei, l’inglese parlato è tutta un’altra lingua di quella inglese. Forse sopravviverà l’inglese da aeroporto o da ristorante.
Sulle imprecisioni e ambiguità della pronuncia inglese non è soltanto Hagège ad affermarlo, – l’esempio dell’aereo schiantatosi per incompresione della pronuncia non mi sembra una castroneria – ma sono gli stessi anglofoni a confermarlo: è ben noto che gli anglofoni hanno bisogno molto spesso, specie nelle conversazioni telefoniche, a compitare vocali e consonanti, o come dicono loro, a fare lo “spelling”. Quando si tratta di trascrivere esattamente anche le loro stesse parole non riescono a fare a meno della compitazione. Infatti, sull’aspetto ortografico, la lingua italiana, e in gran parte anche quella spagnola, vanta sicuramente un punto di forza rispetto all’inglese, perché si scrive come si pronuncia. L’ortografia italiana è sicuramente la più geniale al mondo e sarà recuperata quando avverrà la frantumazione dell’inglese in svariate sottolinguaggi. Si può dire che il processo sia già in corso: la lingua cinese ricorre a una trascrizione dei suoi caratteri e suoni in caratteri latini definita “romanizzazione”. E nelle zone latinofone alcuni termini vengono già trascritti piegandoli all’ortografia e pronuncia tradizionali: es. futbol in portoghese; lider in spagnolo.
Hagège afferma una cosa storicamente indiscutibile: una lingua si sviluppa perché lo stato che la utilizza è potente militarmente. La dominazione linguistica scaturisce dalla conquista, dal soggiogamento militare e politico e dallo sfruttamento economico. Il ruolo linguistico nell'espansione imperialista è l'elemento centrale della colonizzazione del mondo. Gli americani hanno imposto l’inglese, che non è lessicalmente più ricca di altre lingue, ma semplicemente più “armata”, più dollarizzata e più mcdonaldizzata delle altre.
Il linguista francese ha ragione anche su un altro punto: esiste un disegno politico imperialistico di imporre l’inglese come lingua universale. “Tra le due guerre ci fu un progetto ingegnoso: creare una versione ridotta dell'inglese come "lingua ausiliaria internazionale" chiamata "BASIC English" (BASIC = British American Scientific International Commercial – Inglese Britannico Americano Scientifico Internazionale e Commerciale). Fu proposto nella speranza che le lingue meno importanti sarebbero state eliminate: Ciò di cui il mondo ha bisogno è questo: circa mille lingue più morte ed una più viva (Ogden 1934 , citato da Bailey 1991, p.210). In questo contesto "la comprensione internazionale" era considerata in modo unidirezionale; si devono abbandonare le altre lingue e si deve assumere la lingua dominante, l'inglese, resa più facilmente accessibile per mezzo di una semplificazione” (Lingue internazionali e diritti umani internazionali di Robert Phillipson).
L’americano David Rothkopf, professore di Affari Internazionali alla Università Columbia, ex dirigente del Dipartimento per il Commercio Estero degli USA nel periodo della presidenza Clinton, scrisse un articolo, "In Praise of Cultural Imperialism?" Foreign Policy, numero 107, estate 1997, pp. 38-53, il cui titolo è tutto un programma: In lode dell’imperialismo culturale.
“E’ nell’interesse degli Stati Uniti incoraggiare lo sviluppo di un mondo in cui la linea di separazione tra nazioni sia superata da interessi comuni. Ed è nell’interesse economico e politico degli Stati Uniti assicurarsi che se il mondo si sta muovendo verso una lingua comune, essa sia l’inglese, che se il mondo si sta muovendo verso telecomunicazioni comuni, standards di qualità e di sicurezza, essi siano americani, che se il mondo è collegato da televisione, radio e musica, la programmazione sia americana, e che, se valori comuni si stanno sviluppando, si tratti di valori con i quali gli americani si trovano a loro agio.”
Dunque ha ragione Hagège: Imporre la propria lingua, equivale ad imporre il proprio modo di pensare.
Luciano,
Marco che è un linguista forse saprà darti una risposta tecnica. Ma io mi pongo una domanda veritativa e perciò non mi interessa la risposta tecnica. L'intervento di Luciano mi sembra decisivo.
A questo punto replico anche all'accusa di corbellerie. Essa è infondata quand'anche ve ne fossero. L'ideologia si pone sul piano dell'utile ma non vedo perché io dovrei rinunciare a irrobustire e dare senso alla mia volontà di resistenza.
Non si capisce per quale ragione nel contestare l'ideologia e la potenza dominante, ma l'ideologia qui non è ideologia ma volontà di potenza allo stato puro, non si potrebbe fare ideologia, oppure opporre una strategie di resistenza, e in fondo neppure fare filosofia (la domanda veritativa) ma semplicemente adottare un metodo tecnico di analisi del linguaggio.
Posso al più smontare il discorso altrui ma senza ricorrere alla ideologia. Sono perdente e dominato.
Non ci sto
Esiste un qualche problema nella traduzione. Ogni singola parola si forma all'interno di una specifica cultura, e lì viene coltivata e fatta fiorire. Tradurla vuol dire estirparla dal suo terreno culturale per piantarla in un altro, magari non esattamente compatibile o idoneo per la fioritura. La parola quindi avvizzisce. Le traduzioni sono fatte così. Specialmente nelle poesie. Ricordo ancora Whoroscope di Samuel Becket tradotta con Puttanoroscopo. Intraducibile quel gioco di assonanze e significati.
Inutile quindi mentire: ha speranza di comprendere chi è in grado di assimilare il substrato dove la parola ha attecchito. Gli altri si contentano di approssimazioni, alle volte grossolane, come in Whoroscope. Questo per dire a Stefano che comprendere a fondo un disegno politico o economico non richiede maggiore sforzo di comprendere a fondo un linguaggio: entrambi portano in superficie elementi che richiedono tempo e pazienza per essere assimilati. E tali sforzi, a mio modesto avviso, vanno sempre riconosciuti.
Detto questo non è ancora deciso che sia il linguaggio a determinare i significati ultimi. Marco afferma che la lingua è la nostra rappresentazione del mondo. Non è l'unica, questo elemento manca dalla sua analisi. E' sicuramente il veicolo di maggiore rappresentazione LOGICA del mondo, da Cartesio fino a Wittgenstein e oltre.
Ma non esiste solo la rappresentazione logica del mondo, sennò tutta l'analisi junghiana, ad esempio, è solo carta straccia. Esiste l'inconscio che ha modi di rappresentazione raccapriccianti per la nostra logica. Sogniamo cose impossibili che se ricordate ci fanno sorridere per la loro "stupidità". Peccato che i surrealisti (per citare un movimento di estrazione non psicologica) si fossero già chiesti, in pieno afflato modernista, dove stesse la vera percezione, se qui nel mondo logico dominato dal verbo oppure nell'illogico dominato dall'inconscio. Se dobbiamo credere ai padri della psicologia il conscio (l'aspetto logico cioè) è solo la punta dell'iceberg. Il resto, enorme, giace sotto il velo della conoscenza (o coscienza) formale.
Ecco, io guardo molto più all'inconscio che al conscio, ma comunico con il conscio perchè è con questo che siamo abituati a comunicare. Quindi mi servo delle gabbie dei significanti per veicolare significati, dove i vincoli tra i due sono arbitrari e variabili nel tempo e nello spazio.
Gabbie di cui David Bohm si rese conto e che tentò di riformare con neologismi che valicassero gli angusti spazi comunicativi. Ma sempre di gabbie si tratta, gabbie create per limitare o ampliare l'ascolto e la percezione di ciò che ci viene comunicato. War on terror, la guerra contro il terrorismo internazionale voluta da Bush e la combriccola di neocon suoi amici, è in realtà un neologismo che ci abitua alle extraordinary renditions (rapimenti mirati da parte della CIA) e alla progressiva limitazione delle nostre libertà personali. In questo senso, essendo parole legate a sintassi e grammatica inglese, si potrebbe dire che nascono per confonderci attraverso l'uso della lingua dominante. Ma se così fosse Whoroscope di Beckett perderebbe il fascino della poesia che rappresenta per diventare un'arma di penetrazione culturale. E Pessoa, ne sono certo, contesterebbe tale lettura.
Credo che ogni lingua "diffusa" nel mondo porti con se sopraffazione di popoli e culture.
La diffusione della lingua ha sempre viaggiato parallelamente al colonialismo, più una lingua è diffusa nel mondo e più è l'emblema dell'imposizione di una nuova cultura su un altro popolo. La lingua come mezzo di comunicazione è secondo me al primo posto tra tutte le tradizioni di un popolo, perchè attraverso essa si esprime qualsiasi cultura.
Sicuramente la lingua Yankee è quella al primo posto tra quelle più diffuse e ovviamente la più "odiata" in questo senso, ma non dimentichiamoci le altre. Tutta l'America Latina parla lo spagnolo, dietro questa "ufficialità" di questa lingua si nascondono genocidi, depredazioni e soprusi indescrivibili.
Nell'Africa del nord sono molti gli stati che parlano francese…la diffusione di una lingua nel mondo è direttamente proporzionale alle violenze subite dai popoli occupati con la colonizzazione.
Io credo molto nella "conservazione" delle lingue. Ad oggi sono tantissime le lingue scomparse dal pianeta insieme ai loro popoli, ed altre sono in via di estinzione. Quando una lingua è legata ad un popolo e il popolo scompare, nemmeno della lingua rimane traccia…
Ringrazio Appello al Popolo per la pubblicazione di questo articolo, Tlaxcala è una rete internazionale di traduttori che come fine ultimo ancora prima dell'informazione si prefigge la difesa e la sopravvivenza di ogni lingua del pianeta. Ad oggi siamo in 204 membri in tutto il mondo, marilena Inguì traduttrice di questo articolo è la penultima arrivata.
Colgo l'occasione anche per fare un appello a chiunque volesse diventare membro di Tlaxcala, in particolare coloro che conoscono lingue poco conosciute e parlate (visto che comunque in Italia ci sono molti stranieri), l'anno scorso, ad esempio, abbiamo aggiunto l' Amazigh http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=2784 che è la lingua originaria dei popoli imazighen del Nord Africa e il linguaggio ancestrale della maggior parte degli abitanti del Nordafrica comprese le Isole Canarie. Una lingua che oramai sopravvive in modo più o meno precario. Per capire meglio lo spirito di Tlaxcala invito a leggere il nostro manifesto: http://www.tlaxcala-int.org/manifeste.asp
Condivido l'ultimo intervento di Alba, così come alcune cose dei precedenti. Però vorrei rimanere sul punto, che lei in qualche modo ricorda.
Così come non dobbiamo pensare alle lingue come a delle cose da tenere in gabbia, non possiamo pensare al mondo come a uno zoo, diviso in gabbie non comunicanti, che mostrano una verità immutabile.
La lingua rimane il primo mezzo di espansione di una cultura, e la sua stratificazione ci aiuta a studiare la storia e le storie; perciò sì, accettiamolo, la lingua è uno strumento di colonizzazione. E arriva molto più in profondità di altri strumenti. Dunque è normale che venga usata come arma.
Ma non è un'arma, è una lingua. Vive nell'utilizzo dei suoi parlanti e si determina in regole (descrittive e prescrittive) nelle grammatiche scritte da alcuni di loro; risente delle interferenze e anomalie che continuamente in essa vengono riversate. Ed è aperta a contaminazioni perché ne viene informata ogni volta che viene usata. Un tipo che cercherà di vendermi un computer, una lavastoviglie, un modo di pensare concepito a casa sua coglierà dei vantaggi nell'usare parole di casa sua nate insieme all'oggetto che descrivono. Si può parlare a lungo della fascinazione esotica che oggi l'inglese, un secolo fa il francese, quattro secoli fa l'italiano producevano in certi prodotti intellettuali da esportazione, secondo me semplice frutto della retorica mercantile moderna. Ma non esistono appigli, alla luce di uno studio obiettivo, per dire che c'è qualcosa nella struttura di quella lingua che ne fa uno strumento di dominio, di quell'altra che ne fa invece un contenitore di parole d'amore (come si diceva dell'italiano un tempo). Nell'intervento di Alba è quell’ “ovviamente" prima di "è la (lingua) più odiata", lo ripeto, è un fattore esterno alla lingua. Totalmente esterno. Appartiene alla sfera dell'uso che ne fanno i parlanti, anche parlanti una lingua seconda, anche malamente, anche senza capire che in certi casi quell'utilizzo va contro i loro interessi.
Alcune considerazioni sparse sugli interventi precedenti:
– le lingue dei dominatori nove volte su dieci non subentrano ma si aggiungono, secondo uno schema che viene chiamato tecnicamente "superstrato": il latino sulle lingue locali, imposto nell'uso formale, l'inglese e altre lingue indoeuropee alla base di diversi creoli diffusi soprattutto nelle zone costiere, nei porti asiatici trafficati, addirittura perlopiù in certe categorie (i marinai specialmente portoghesi tra XVIII e XIX secolo) e non nelle rispettive popolazioni. E via dicendo.
Per motivi, stavolta sì, interni alla lingua stessa, le lingue dei dominatori sono di solito meglio descritte e più ampiamente usate, e con maggior differenziazioni delle lingue dei popoli "dominati", perciò si sviluppano ancora tra i dominati, con nuovi utilizzi. Qualche volta assumono un ruolo di riferimento, diventano cd "lingue tetto", ma mi pare difficile pensare a queste conseguenze – isolate tra tante altre – come a un preciso disegno di dominazione. E non esistono lingue fatte ad hoc, con questo intento, anche quelle poche costruite a tavolino, non furono pensate per questo. Comunque, Stefano, condivido quanto dici sulla cura della lingua e delle lingue, e nel mio piccolo cerco di usarla "bene".
– Per Luciano: è senz'altro vero che gli inglesi parlati si stanno allontanando l'uno dall'altro, ed è probabile che il fenomeno continuerà, anche se potrebbe esserci una reazione normativa qua o là proprio per la conservazione della lingua scritta (di una delle, intendo), visto che l'inglese che ha sì una grafia problematica vanta invece una differenziazione di stili scritti molto ricca ed efficiente, ancora apprezzata da chi ne coltiva l'uso. In poche parole, non crediate che gli inglesi e anche parecchi statunitensi siano tutti contenti di come la loro lingua viene utilizzata in aeroporto, sulle etichette commerciali, negli slogan delle manifestazioni e via dicendo. Comunque lingua e sua resa grafica non sono aspetti differenti dello stesso oggetto, ma sono due oggetti diversi con applicazioni in parte coincidenti, il secondo dipendente dal primo come l'impronta dal piede.
Non contesto nemmeno l'uso protervo e strumentale che alcuni pazzi imperialisti vogliono fare della lingua. Ma penso che al posto loro avremmo fatto lo stesso con l'italiano, o in altri tempi con il veneziano o il genovese. In ogni caso la lingua non porta in sé gli strumenti di dominazione; se così fosse e noi fossimo interessati a sovvertire l'ordine mondiale, dovremmo studiare inglese e usarlo contro gli imperialisti statunitensi, no?
– Per Stefano bis: “Non si capisce per quale ragione nel contestare l'ideologia e la potenza dominante, ma l'ideologia qui non è ideologia ma volontà di potenza allo stato puro, non si potrebbe fare ideologia, oppure opporre una strategie di resistenza, e in fondo neppure fare filosofia (la domanda veritativa) ma semplicemente adottare un metodo tecnico di analisi del linguaggio.”
Perché sarebbe sbagliato, dal mio punto di vista, sovvertire l'ordine delle cose, scambiare gli effetti per cause, in soldoni affermare falsità, al solo fine di opporsi. Tutto qui. Se proprio dobbiamo farlo, andiamo più al sodo, senza utilizzare anche quest'argomento trito della lingua su cui in passato si sono esercitati tutti o quasi tutti i dittatori e i generali.
– Per Tinguessy: “Marco afferma che la lingua è la nostra rappresentazione del mondo. Non è l'unica, questo elemento manca dalla sua analisi. E' sicuramente il veicolo di maggiore rappresentazione LOGICA del mondo, da Cartesio fino a Wittgenstein e oltre.”
Certamente. E' la più efficace, è quella che ci permette di ricostruire i sogni di cui parli più avanti, secondo schemi logici, anche psico-logici, in una parola contemplativi. Non parliamo nemmeno della musica, che sicuramente è un codice semiologico molto efficace, poco descritto, accessibile anche a chi non sa produrla (diversa in questo dalla lingua). C'è anche chi vorrebbe separare dalla facoltà linguistica quella matematica/aritmetica, ma non vedo perché.
Difficile però immaginarmi immerso per tutta la mia vita in un mare di percezioni che non so rimettere in ordine, un po' di panico mi assalirebbe. Il codice linguistico – onnipotente perché in grado di avvolgersi attorno a ogni manifestazione della realtà – verrebbe a confondermi ancor di più, se fosse vero che esso è altra cosa rispetto all'inconscio.
Ma io non credo che le cose stiano così. Credo che il mio inconscio sia raggiungibile esattamente come il resto della mia mente dall'influenza che il mio ambiente – materno familiare sociale e in tutto culturale – esercita su di me, quindi anche dalla lingua che parlo. Non vedo nessuna contraddizione tra l'uso del linguaggio dentro e fuori un sogno, o un delirio, nel senso che il linguaggio non determina i significati ultimi, ma solo i sensi che io di volta in volta (fuori o dentro un sogno, o un delirio) rintraccio e assumo. Il significato ultimo – come somma e amalgama dei sensi possibili – giace invece nello spazio condiviso tra quelli che parlano la mia lingua, cioè tra quelli che condividono con me una parte più o meno ampia di possibili sensi.
Un esempio: quando guardi un sagoma sfocata di un uccello, composta di una miriade di silhouette di uccelli diversi sovrapposte a formare quella sagoma, hai davanti la visualizzazione di un significato di “uccellinità". Dentro se guardi bene ci sono un passerotto, una cornacchia, uno struzzo (tutti condividono almeno qualche tratto saliente al concetto di uccello, concetto non linguistico), ma probabilmente il risultato finale somiglierà a un piccione.
Faccio notare una cosa importante: se tu abiti in Laos, probabilmente i tratti salienti saranno pressappoco gli stessi, ma le sagome anche molto diverse, e alcune mancheranno del tutto. Potresti avere dei problemi a condividere con un italiano il “significato ultimo” di uccello, perché potresti trovare dei problemi a condividere qualche senso, ma alla lunga una condivisione la troveresti, o la troverebbe l'italiano. Questa è una traduzione, con tutti i suoi problemi.
mi sa che sono un pò in ritardo, comunque saluto Alba Canelli e approfitto per ringraziare per il lavoro che Tlaxcala ci offre giornalmente
a Marco
da quello che scrivi nella prima parte del tuo ultimo commento deduco che non mi sono spiegato bene. rilevo che prima parli della lingua madre come di esperienza mentale (che non è) e poi passi alla lingua come scambio (che non è nella sostanza, sempre a mio modestissimo avviso).
io ho usato i termini "concepimento" contrapposto a "comunicazione", cercando di cogliere la natura bifronte dei codici linguistici
– il primo implica una essenziale condivisione: non un semplice collante sociale tra individui -e tantomeno convenzione o filtro attraverso cui descrivere la realtà- ma proprio di generazione di significante condiviso, di senso comune: il codice linguistico sottointende relazioni in cui in un solo movimento l'individuo esperisce ed esprime il proprio essere comunitario a tutti i livelli, dalla dipendenza materiale alla forma simbolica
-il secondo di scambio informativo, tecnico, il livello empirico (da considerare e non da disprezzare) del linguaggio, che sottintende oggi un soggetto derelazionato che si trova interconnesso nella rete commerciale degli scambi che gli altri soggetti derelazionati che vi operano. Lungi da valutazioni moralistiche, se il dire è inteso come terminologia dello scambio, va da sè che questa prassi trovi un equivalente universale (in quest'epoca l'inglese commerciale, ma in passato il francese, il latino, il greco) che li faciliti, cambiando la natura di lingua particolare e comunitaria a universale ed astratta, astratta perchè esprime non quella cosa ma il suo prezzo, la sua quantità di valore di scambio.
forse ti ha confuso il fatto che io abbia parlato di rappresentazione, che per me non è affatto mera "apparenza" superficiale di una "sostanza" (o peggio ancora una superficialità che distorce e che depotenzia) ma è proprio il farsi presente, il presentificarsi concreto, l'apparirene senso dell'apparizione, di quella essenza che necessariamente si disvela in quel fenomeno determinato che ha quel nome.
la lingua madre insomma è per me compartecipazione condivisa di un evento: la cosa che sorge come oggetto distinto e determinabile, ed è distinto e determinabile in quanto condiviso e compartecipato. Niente affatto un esperienza mentale- che nell' accezzione comune rimanda ancora una volta ad un soggetto verbale derelazionato e astoricizzato, astratto.
il mio fine teorico sarebbe sviluppare il concetto di comunità linguistica, che vedo ancora pregno di potenzialità e di auspicata centralità per una sempre possibile comunità nova
a Stefano
credo di aver compreso il tuo primo commento, mentre poco o niente del secondo
restando a quello che ho capito non concordo, il linguaggio non è affatto un dato (la
datità va -forse- bene per le scienze naturali, applicata alla prassi sociale umana è
metafisica, seppur di origine laica e illuminista, una prossima volta semmai approfondirò la spiegazione). Ogni evento sociale, come la lingua, è appunto sociale, profondamente storico. Parlare di cosa è pre-politico (termine che nella mia terminologia non esiste ma dove esiste il meta-storico e il meta-politico) con te è un pò come parlare se è nato prima l'uovo o la gallina, quesito per me privo di interesse.
a Tonguessy
hai ragione a porre il problema della traduzione, di cui bisogna essere consapevoli, ma proprio perchè in questa problematica si mostra la natura comunitaria e insieme particolare del linguaggio e non un' interiorità solipsistica pensata come inconscia e quindi difficilmente esprimibile e conoscibile.il discorso non cambia, ove l'approccio sia lo stesso, se si parla di inconscio collettivo.
bisogna però anche rilevare che tutte le lingue sono traducibili, e quindi ci sono alcune linee della logica del linguaggio umano che sono universali.
ad altre corrispondenze:
devo pensarci meglio, ma in sostanza hai capito il senso di quel che dicevo: concordo che nel suo aspetto sociale riposa la strumentalità del linguaggio, cioè quel che ci si può fare. Nel suo aspetto mentale invece sta quel che ci si deve fare, nel senso che non se ne sfugge. Quindi sì, lungi da ogni valutazione morale, cioè comportamentale, il linguaggio è tra me e te, ed è nella mia mente, anzi è la mia mente. Solipsismo al 100 %
Desidero ringraziare tutti per l'interessante scambio di opinioni e scusarmi in anticipo se quanto esporrò sarà vagamente fuori tema.
Voglio però riprendere il discorso della parte logica e della parte inconscia. Se diamo per buona la valutazione che la parte conscia è solo la punta dell'iceberg, com'è che la logica deve assurgere a giudice "imparziale" della totalità? Mi pare che in questa visione di assieme si rifletta l'attuale crisi istituzionale, con una stretta minoranza verticistica (BCE, governo etc…) che pretende di rappresentare la totalità, quando la grande maggioranza non si sente rappresentata nè vede difesi i propri interessi.
Il panico di cui parla Marco nel non vedere ben in ordine il "mare di percezioni" riflette questa dittatura della logica. Serve una tassonomia che permetta di distinguere, spezzando quell'unione tra il nostro vissuto ed il tessuto vitale. Come dicevo tutto questo ha origine nella separazione tra REs Extensa e Res Cogitans di Cartesio, da cui nasce la descrizione matematica della realtà. Si scontrano quindi apertamente percezione e descrizione, a tutto vantaggio di quest'ultima.
Si arriva però al limite. Si può continuare a spezzettare fin che si vuole, ma così facendo si perde facilmente di vista l'insieme. Si diventa specialisti nello spaccare il capello in quattro quando il problema è l'alopecia.
Il rimedio a questa difficoltà della eccessiva parcellizzazione è sufficientemente semplice: ricucire lo strappo tra noi ed il nostro vissuto. E non è una questione logica, è tutta un'altra faccenda. Come scrive nell'articolo qui sopra N.O.I.:"100 anni di psicologia e guardate come siamo messi."
Non è che analizzando logicamente i problemi questi trovino adeguata soluzione. L'analisi può non essere corretta, incompleta e comunque non porta necessariamente alla soluzione. La soluzione non è l'analisi, perchè la logica non è l'impegno e la passione. Trovo in questo senso illuminante una frase di Zygmunt Bauman: "Tra le autorità che la modernità riconosce e favorisce, le passioni morali non-razionali, non-utilitaristiche e non-remunerative, sono incredibilmente assenti".
Siamo assolutamente logici quindi immorali, per dirla provocatoriamente. Non abbiamo più passioni (la logica del superamento degli "opposti schieramenti" si colloca in quest'ottica) nè impulsi morali, sostituiti da calcoli razionali utilitaristici.
A me questo, e non il "mare di percezioni", fa paura. Da vecchio epicureo le percezioni mi piacciono, e riconosco che è un attimo partire da una premessa sbagliata per arrivare logicamente a conclusioni catastrofiche.
Ho difficoltà poi ad immergermi nel magma degli universali, e per me l'uccellinità (o la cavallinità di Platone) sono pure astrazioni. Ma qui il discorso è ancora più complicato e si rifà allo scontro tra universali e particolari dove le nostre scelte (imposte?) hanno spianato la strada a visioni universalistiche che ci hanno saldamente consegnato a certa metafisica.
Per Marco: dalle due testimonianze (ma ve ne sono delle altre) che ho citato, ho dedotto, e ne sono ancora convinto, che usare la lingua a fini imperialistici non sia solo un’intenzione o un fantasia di alcuni pazzi imperialisti, ma un preciso progetto, ancora in corso di attuazione, dei governi statunitense e inglese. Tuttavia questo non significa che la struttura della lingua inglese sia imperialista (sarebbe ingenuo e anche un po’ ridicolo crederlo); è una lingua come tutte le altre, con la sola differenza, storicamente contigente, che è quella del padrone. Perciò sono d’accordo con te: “una lingua non porta in sé gli strumenti di dominazione”. Ma essa può diventare strumento di dominazione se sul piano politico si progetta di usarla come tale. Noi avremmo fatto lo stesso? Non lo so. Storicamente noi non lo abbiamo fatto, neanche quando si era soltanto veneziani o genovesi; e ancor prima non l’ha concepito neanche l’antica Roma che, nei secoli dell’impero, era bilingue, greco-latina, sia in Urbe sia per metà del territorio imperiale. Dietro la diffusione del latino o del greco non c’era un disegno politico, una determinazione, una volontà di imporre la lingua, diversamente da quel che accade oggi che l’industria culturale, pubblicitaria, ludica, di intrattenimento ha raggiunto un grado di organizzazione, di sofisticazione e di invasività tale da riuscire a imporre subdolamente anche una lingua. L’uso della lingua a fini imperialistici è una novità dei nostri tempi ed è stata voluta, progettata e introdotta dagli americani. Senza dubbio bravi gli yankees! Chapeau!
Il tuo ragionamento non fa una piega. E apprezzo l'epicureismo di cui è intriso.
Non intendevo arrivare a Cartesio, che comunque non risolse mai il problema dell'origine e dell'inquadramento del linguaggio. E non volevo certo sostenere che la logica sia l'unico strumento che abbiamo a disposizione per risolvere i nostri guai; volevo solo puntualizzare qualche concetto alla base della mia critica a Hagege. Comunque mi riconosco in quanto mi dici, soprattutto nella parte più sgradevole.
Detto ciò, dato per assunto che la parte logica (che sottosta alla parte economica) resta una parte sempre in attività nella nostra mente, io sono interessato al senso comune delle cose, al suo ordinamento che è taxo-nomico e quindi (…)-logico (riempire lo spazio … con la parola che si vuole tra: psico-, arche-, il- ) e insomma basato sul logos, verbo, parola e tutte quelle menate lì. Purtroppo con questa impostazione la parte logica prende spesso il sopravvento, comprende parte delle mie riflessioni sul mio comportamento (morale?), sul mio modo di capire e spiegare (epistemologia?), anche sul mio modo di immaginare (metafisica?). Lo stagirita mi perdoni, ma sono sulle sue tracce, con umiltà e semplicità.
Siccome qualcosa devo dare per pacifico, mi fido almeno delle mie percezioni, o almeno non me ne curo più di tanto, forse perché sono bruttino, ci vedo male, il naso funziona poco, la pelle è invecchiata in fretta, e solo l'udito mi sostiene. Il resto è lì, dentro la testa, e si muove anche se non voglio.
un saluto
perdono, il mio precedente intervento era per Tonguessy.
A Luciano rispondo, sì, bravi gli yankee. E noi complici, in tutto e per tutto.
Il discorso di Hagège mi sembra inserirsi, per quanto in maniera sfumata, nella tradizione della linguistica organicistica, cioè di una comprensione della lingua come espressione dell’anima peculiare di un popolo, inteso come individualità olistica dotata di senso. Alla radice di questi sviluppi c’è tutto il pensare romantico e post-romantico.
E’ l’approccio antitetico alla comprensione strumentale della lingua fatta valere dal liberalismo, sorta di utensile finalizzato a consentire la comunicazione interindividuale e quindi, in prospettiva, la conoscenza, la crescita dei commerci e in ultima analisi l’interazione pacifica fra individui e popoli.
Mi sembra che quest’antitesi, ai fini degli argomenti trattati su questo sito, prevalga su pur interessanti considerazioni epistemiche attinenti ai rapporti fra pensato e sua manifestazione linguistica, ecc.
Ogni progetto coesivo di lungo respiro presuppone un’unificazione linguistica (pensiamo agli stati nazionali) e l’attuale progetto mondialista di pace perpetua a capitalismo selvaggio e a gendarmeria americana non fa eccezione. La lingua è quella del conquistatore uscito vittorioso dalle tre guerre mondiali (due calde e una fredda) del XX secolo.
Se questo progetto sia realizzabile o meno è da vedere. Io lo combatto perché sono fra coloro a cui il turbocapitalismo ha pestato i piedi, perché mi ributta l’incultura statunitense in cui si concentra tutto ciò che di deteriore lo spirito occidentale ha saputo esprimere, e anche perché mi irrita l’ipocrisia di cui la perfida Albione è maestra in solido colle sue diramazioni mondializzate.
Mi è come sempre piaciuto Stefano colla sua franca rivendicazione del pregiudizio e dell’ideologia. E’ proprio così: le idee si diffondono nella misura in cui sappiano offrire un sottofondo mitico e giustificativo a bisogni o stati d’animo diffusi. La lucidità concettuale è nemica mortale di ogni progetto aggregativo. Cucite pure il vostro vestito di idee, basta poi non scandalizzarsi quando altri cuciono il proprio.
In effetti non siamo mai usciti dal romanticismo.
Dalla sopravvalutazione delle pulsioni sentimentali (inserite tra sensazione e ragionamento, dal suddetto romanticismo al posto della contemplazione platonica e plotianiana) e dei rapporti di consanguineità, alla faccia dell'obiettività della scienza.
Dalla fidelizzazione dello stato nazionale una volta imposta con la leva militare e oggi che non c'è più divenuta infatti puerile e sterile. Alla faccia dell'unità degli stati uniti d'europa e dei popoli.
Dalla rappresentazione di ogni vicenda attraverso categorie di appartenenza, se possibile acritica per coprire sempre se possibile interessi diversi, dalla Minetti che crede negli ideali di Silvio al calciatore romano che rinuncia a un compenso di 8 milioni all'anno per rimanere nella sua città, a soli 5,5 milioni l'anno. Alla faccia dell'economia di mercato.
Non credo che vedrò la fine del romanticismo coi miei occhi, purtroppo.
La definizione (e non comprensione) della lingua come strumento è uno degli aspetti salienti del linguaggio, teorizzato già dalla scuola di Port Royale, tardo XVII secolo, ma chiaro come il sole da pensatori precedenti. Cosa ci sia di americano mi sfugge, probabilmente studi più recenti di quando studiavo io. Chomsky che invece conosco si rifa a Deschartes che si rifaceva alla logica di Port Royale, ed è americano, ma la sua logica è qualcosa di affine ma diverso dalla logica classica. Le sue tesi peraltro sono state confutate allargando il campo d'indagine a lingue diverse dalle indoeuropee più descritte.
Visto che si parla di linguaggio, mi piacerebbe aprire con voi un discorso sulla distorsione e trasformazione del linguaggio (inteso come facoltà intellettuale, categoriale, non linguistica nel senso di inglese, francese, italiano….) nei passaggi prima digitale e poi iconico più recenti, specialmente parlando di computer e affini. Ma non so se interessa
un altro saluto
a Tonguessy
io direi che l'analisi risiede nella logica ma non il contrario
l'analisi è solo un momento (ma non una fase, come staticamente ed infantilmente si presume) dell' indagine
a Luciano
completamente daccordo, se non fosse che l'ideologia non si fa usare in chiave tattica ma di solito si autonomizza e diventa strategia, è meglio che almeno qualcuno lo ricordi, lo sappia e lo dica
Personalmente mi trovo d’accordo con Claude Hagège, e non è certo anglofobia la mia. C’è una cosa di cui tenere conto che ho saputo. Secondo una statistica circa il 70% della popolazione mondiale non sa parlare inglese ad un livello adeguato o non lo sa proprio. Persino in India o addirittura negli Stati Uniti dove l’inglese è ufficiale solo in alcuni stati, ma non è ufficiale a livello nazionale (nessuna lo è, la Costituzione statunitense non ha stabilito quale debba essere). Consiglio a tutti di leggere il trattato The hegemony of English si Yukio Tsuda. Riguardo alle ambiguità concordo ancora una volta con lui, anche se ovviamente anche altre lingue ce le hanno, anche l’italiano. Anche i migliori a parlare inglese come lingua straniera a volte fanno errori, e persino i nativi. Vi consiglio di cercare a tal proposito su internet Denglish, Danglish, Swenglish, Czenglish, Dunglish e Chinglish ( quest’ultimo anche su Google immagini e su YouTube perché c’è da sbellicarsi), e capirete come l’inglese diffondendosi si modifica in molte varietà.
Comunque se parlare la stessa lingua unisse davvero le persone non ci sarebbe razzismo negli USA verso gli afroamericani, e nemmeno in Italia tra noi stessi. Potrei andare avanti all’infinito ma sarebbe troppo lungo, rispetto i vostri pareri. Questo è il mio.