Un passo avanti verso il sovranismo?
di NICOLA DI CESARE (FSI Cagliari)
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Le prime parole del nuovo presidente USA Donald Trump, nel presentarsi alla platea dei suoi sostenitori festanti sono state: “andremo d’accordo con chi andrà d’accordo con noi”.
Da un capo del governo di un paese imperialista non ci si può aspettare molto di più, anche se mai nella storia degli USA un presidente eletto si era scostato dalla posizione del “costringeremo il resto del mondo ad andare d’accordo con noi”.
Pare una sottigliezza ma non lo è. Trump, che si presenta come l’uomo della sorpresa solo per chi ascolta unicamente “la voce dei mercati”, costituisce l’incarnazione, non dell’uomo che vuole essere rappresentato, ma del cittadino che vuole essere tutelato; un individuo giustamente impaurito e arrabbiato che vuol essere difeso dai soprusi di una finanza che ha distrutto milioni di vite umane, privandole di un lavoro, dei propri risparmi, di una casa, del diritto alla salute, della pace e della sicurezza.
Questo ha fatto il globalismo imposto dalla finanza apolide e questa è stata la risposta del popolo silente; non a caso i primi a preoccuparsi stizziti per questo cambio di rotta sono stati i generali della dittatura bancaria tecnocrate dell’Unione europea; quella stessa che ha deciso che la disoccupazione italiana non possa scendere sotto l’11% per non disturbare la “stabilità” dell’Euro, cioè la capacità dell’Euro di arricchire gli straricchi del continente.
Dell’ascesa di Trump si sono sorpresi quindi solo i finti analisti. Fino a non più di tre decenni or sono, la politica si nutriva dei rumori delle piazze ed era immediatamente capace di graduare la sua azione in funzione degli stati d’animo dell’elettore medio; il sistema dei media era in grado di cogliere il clima circostante e veicolarlo fin dentro le stanze del potere. Oggi, con la scomparsa dell’informazione “dal basso”, quel sistema osmotico è stato sostituito dai megafoni dei sacerdoti delle piazze finanziarie i quali invertendo l’ordine naturale dei fattori, usano i mezzi di comunicazione per far sapere alla gente comune cosa è gradito o no al regime e in che modo i cittadini si debbano adeguare ai loro desiderata; a tale regola non sfuggono nemmeno i sistemi di rilevazione di opinione, i quali, invece di valutare l’orientamento degli intervistati, costruiscono opinioni modellate sulle esigenze del loro committente; dunque per definizione non possono azzeccare nessuna previsione.
Le dinamiche della campagna Trump non sono state dissimili da quelle della Brexit Britannica. Il mantra dei poteri forti del libero mercato e della finanza apolide è stato pressoché identico: “Voi non siete in grado di decidere perché ignoranti. Noi (il potere) sappiamo cosa è meglio per voi, quindi la regola è obbedir tacendo; votate Clinton”.
Nel trasgredire a questa regola Trump, un improbabile miliardario che ha fatto i soldi con l’economia reale, ha raccolto strada per strada le istanze dei derelitti, dei licenziati delle delocalizzazioni, dei salariati sottopagati per effetto della concorrenza degli immigrati sfruttati e disperati, degli ammalati senza assicurazione sanitaria, degli ossessionati dalla malavita dilagante con la pistola in pugno, delle famiglie dei giovani tornati a casa in una bara allo scopo di alimentare l’industria delle armi, facendone un programma elettorale di poche righe: prima il lavoro degli americani e poi gli interessi della finanza; prima la tutela delle comunità, anche delle più remote province agricole del far west, e poi l’occupazione geopolitica del mondo.
A corollario del suo discorso di presentazione, Trump si è soffermato su un dato, già da tempo messo in evidenza dagli osservatori economici più attenti; gli USA sono un paese che, insieme alla sua industria manifatturiera, ha lasciato cadere in abbandono le sue infrastrutture, dirottando tutte le risorse disponibili verso le spese militari da capogiro pari a circa il 2,3% del PIL mondiale; gli USA si preparano dunque a una faraonica riconversione della propria spesa pubblica che sarà dirottata verso il riammodernamento di strade, trasporti, reti e servizi di ogni genere privilegiando lo sviluppo del mercato interno sulle importazioni previa revisione degli accordi commerciali internazionali. Il contraccolpo sull’economia mondiale potrebbe essere pesante per quei paesi che si reggono sui consistenti deficit della bilancia commerciale americana finanziata dalle rotative del dollaro come moneta di riserva (non è il caso dell’Italia). Meno finanza e più distribuzione della ricchezza attraverso il lavoro dell’economia reale finalizzata alla crescita delle economie interne.
Le Mercedes rischiano di non attraversare più l’atlantico a meno che non siano costruite direttamente a Detroit e le produzioni cinesi dovranno comprarsele i Cinesi previo aumento dei loro salari con enorme danno ai fondi speculativi internazionali e ai delocalizzatori seriali.
In attesa che gli intendimenti sovranisti di Trump, come la promessa di non ingerenza nel governo di paesi stranieri alleati o no (come la Russia), divengano realtà, assisteremo forse alla più grande riconversione della struttura economica di un paese avanzato in stile keynesiano.
Che questo debba accadere per mano del più vituperato (dai progressisti globalisti) presidente americano della storia fa un po’ sorridere. Che la Politica con P maiuscola debba essere resuscitata da colui che è considerato il più becero dei populisti, non ha prezzo.
Dopo Brexit e Trump, ora ci attende un’altra sfida al potere finanziario. La vittoria del NO al tentativo di colpo di mano in Italia travestito da riforma costituzionale.
Aspetto fiducioso.
Apprezzabili le analisi delle ragioni del voto, meno l’immagine del personaggio Trump che ne esce fuori e le aspettative, seppur timide, di cambiamento. Sinceramente avrei evitato ogni accostamento di Trump al sovranismo, magari mettendo un punto interrogativo al titolo.
L’impianto di politica economica del trentennio glorioso, che per quanto riguarda i vincoli alla circolazione dei capitali, la legge bancaria, la monetizzazione del debito, la repressione finanziaria e le nazionalizzazioni era iniziato negli anni trenta, è stato smantellato in 36 anni (dal 1981, grosso modo) ed era stato costruito in una quarantina di anni.
Per ricostruirlo in linea di principio serviranno altri 36 anni. Per noi del FSI quello è il sovranismo sotto il profilo della politica economica. Dobbiamo perciò prendere atto che molto probabilmente stiamo nel 1820 non nel 1860 o nel 1924, non nel 1943, o nel 1948 e non nel 1975.
Perciò non credo che la brexit, motivata su ragioni di democrazia e non di politica economica, o talune posizioni di Orban o addirittura l’elezione di Trump possano essere definiti passi verso il sovranismo. Sono scricchiolii o momenti di frizione del liberoscambismo imperante. Sono tutti utili ai fini della implosione. Ma senza implosione il sovranismo è più lontano (sessanta invece di quaranta anni o quaranta invece di venti!)