Trump visto dal campo di battaglia mediorientale
di ALBERTO NEGRI
Trump d’Arabia: il nuovo presidente visto dal campo di battaglia. La politica Usa è la divisione intrattenimento dell’apparato industrial-militare americano, disse una volta Frank Kappa. Un’affermazione tanto più vera in Medio Oriente dove in otto anni di presenza Obama, con la Clinton segretario di Stato, gli Stati Uniti hanno venduto 98 miliardi di dollari di armi ai sauditi e firmato da poco con Israele un contratto di forniture belliche per 38 miliardi. A questi interessi si aggiungono quelli del Big Oil, anche se Trump promette di pompare altro greggio in Usa e costruire nuove pipeline che Obama aveva ostacolato. Per questo le quotazioni del barile scendono.
Ma gli Usa non si possono permettere di perdere il controllo del Golfo Persico e degli Stretti del petrolio dove è di stanza nel Barhein la Sesta flotta con altre sette basi militari distribuite tra le varie monarchie del Golfo, tutte affezionate clienti dei bond del Tesoro americano: è qui che gli Stati Uniti controllano strategicamente più di metà dell’economia mondiale e anche i rifornimenti di greggio alla Cina.
Cambiare la politica americana in Medio Oriente significa toccare interessi consolidati in quasi un secolo di guerre e alleanze. L’America ha condotto qui un’azione militare, economica e diplomatica basata su due pilastri: Israele e l’Arabia Saudita. Per modificare questi rapporti bisogna incidere sullo stesso establishment americano di cui Trump fa finta di non far parte, anche se è più marginale al sistema rispetto ad altri presidenti che lo hanno preceduto in questi anni.
Una cosa è fare delle promesse elettorali, un’altra mantenerle, soprattutto quando ci si scontra con gli stessi interessi economici della nazione americana. Non basta pensare l’isolazionismo per isolarsi a meno di non farsi un’iniezione di nirvana. Basti un dato su tutti: la spesa militare americana nel 2015 è stata di 512 miliardi di dollari, quella dei russi di 66 miliardi. Quello che vogliono gli americani da tempo – non solo Trump – è che gli europei di paghino la Nato, oggi coperta per quasi l’80% del suo mantenimento da Washington. In questo non è troppo diverso da Obama che ha definito gli europei degli «scrocconi».
Trump è apparso durante la campagna elettorale un islamofobo e ha dichiarato che per far fuori il terrorismo dell’Isis l’America si deve alleare con la Russia, ma anche con l’Iran, la Siria di Assad e gli Hezbollah libanesi, le milizie schierate qui in Iraq a Tal Afar: questi erano i bersagli preferiti della signora Clinton, quell’”asse della resistenza sciita” che è il maggiore nemico dei sauditi e della Turchia, portabandiera del sunnismo, ma anche di Israele. È stata un’abile mossa per distinguersi da un ex segretario di Stato che aveva ficcato l’Occidente in un groviglio quasi inestricabile, lasciando nel 2011 l’Iraq al suo destino in mano al governo sciita di Baghdad, sbagliando i calcoli nella guerra in Siria e in Libia e aprendo con questi fallimenti l’Europa e gli Usa alla propaganda del jihadismo e al terrorismo.
Ma un conto sono le promesse, un altro è il principio di realtà che guida una superpotenza. Con la Russia Trump può mettersi d’accordo ma per negoziare un’intesa con Putin deve dimostrare di avere qualche leva importante, dal Baltico al Mediterraneo. Se vuole un accordo che non sia un cedimento, gli Usa devo impegnarsi ancora di più in Medio Oriente e tentare di vincere la battaglia di Mosul (e poi anche Raqqa), che sarebbe il primo successo vero contro il Califfato in un Paese che gli americani occuparono nel 2003. Putin intanto sta tentando di catturare Aleppo dopo esseri messo d’accordo con Erdogan e tratta con tutti gli alleati degli americani, da Israele, all’Egitto, all’Arabia Saudita. Gli Stati Uniti qui non sanno più chi sono i loro veri alleati, che comunque come il governo di Baghad sono amici stretti di Teheran e hanno difficoltà a tenere a bada la Turchia del nuovo autocrate della regione, Erdogan.
Non fai un buon accordo con Mosca se non porti a casa dei risultati militari e diplomatici importanti che facciano capire alla tua controparte che sei capace di andare fino in fondo. Questi due mesi in Medio Oriente saranno cruciali e la vicenda è ancora nella mani di Obama che gli ha fatto campagna contro come nessun presidente uscente aveva mai osato nell’ultimo mezzo secolo.
Trump gestisce dei casinò: questa pianura desertica e sassosa di Mosul, che rigurgita jihadismo e petrolio, è un sorta di tavolo verde dai colori pallidi e insidiosi dove si muore e il prezzo, se sbagli, sono migliaia di morti e una perdita enorme di prestigio e autorevolezza. L’interrogativo è se Trump è davvero convinto quando dice certe cose: il suo staff, dal segretario di Stato, a quello della Difesa, al Consigliere per la sicurezza nazionale, gli spiegheranno le regole. Ma il tempo della propaganda è finito e a gennaio alla Casa Bianca dovrà giocare una partita vera. Anzi la sta già giocando sul campo di battaglia mediorientale.
Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-11-09/trump-visto-campo-battaglia-mediorientale-104844.shtml?uuid=ADkREEsB
Un’analisi molto importante, che segnala sia le oggettive difficoltà nel cambiare la politica medio-orientale, quand’anche ve ne fosse la volontà, sia il fatto che la volontà statunitense, in questa materia, dipende dal complesso militare-industriale e non dal presidente.
Su questo punto non vi è dubbio che le parole di Trump sono soltanto flatus vocis: sia perché non sono chiare, sia perché sembrano prospettare come facile ciò che è molto difficile, sia perché, in questa materia, le parole di una persona, sia pure di un presidente degli stati uniti, negli stati uniti contano poco e niente.
Lascia invece perplessi la ricostruzione della politica medio-orientale che gli stati uniti avrebbero fino ad ora effettivamente perseguito.
Infatti, gli Stati Uniti hanno attaccato l’islamismo sunnita talebano: è un fatto.
Poi hanno attaccato l’Iraq laico, regalandolo a partiti sciiti settari (e in definitiva all’Iran, con il quale sono palesemente alleati nella guerra irachena contro lo Stato Islamico) e hanno combattuto per anni contro una resistenza che noi occidentali credevamo costituita e diretta dal partito Baath clandestino e che tuttavia si esprimeva in milizie tutte salafite, sebbene in alcuni casi nazionaliste, le quali avevano per nome: Ansdar Al Sunna, Al Qaeda in Iraq poi ISI (Stato Islamico in Iraq), Jaish al-Mujaheddin, l’Esercito islamico in Iraq, Hamas in Iraq, Army of the Men of the Naqshbandi Order.
Infine, nel giugno 2016, gli Stati Uniti hanno tentato il colpo di Stato contro i fratelli musulmani in Turchia.
Contro gli sciiti c’è stato soltanto l’appoggio agli islamisti sunniti combattenti in Siria e la tolleranza (quando non attaccavano gli alleati curdi socialisti) verso formazioni non finanziate e armate ma che credevano di poter utilizzare (IS e AL Nusra, dal 3 gennaio 2014 in guerra tra loro).
Se gli Stati Uniti avessero invaso l’Iran, anziché l’Iraq, per darlo in mano a fondamentalisti sunniti, avessero aggredito direttamente la Siria, come hanno aggredito l’Afghanistan, e fossero intervenuti in Egitto nel golpe contro i fratelli musulmani, allora si che avremmo potuto dire che gli Stati Uniti combattevano gli sciiti o comunque sostenevano i fratelli musulmani e i salafiti combattenti.
Insomma, se si guarda ai fatti e non alle declamazioni, la politica statunitense non appare per niente chiara, perché è stata confusa e piena di errori strategici (a prescindere, per una volta, dal giudizio negativo su ogni politica imperialista)
Una sola osservazione: continua a non convincermi la presunta preminenza dell’economia (il settore militar-industriale in questo caso) sulla politica. Ma è un’obiezione teorica, che può essere anche contraddetta nel caso particolare (anche se gli Stati Uniti, per grandezza e potenza, sono un caso più generale che particolare).
In breve, io non penso che vadano ricercate negli interessi economici del settore militar-industriale le motivazioni di ultima istanza delle scelte di politica estera americana. Sono scelte politiche, sulle quali i fornitori militari possono illudersi di contare qualcosa, ma probabilmente non è così. Dario Fabbri scrive su Limes che il meccanismo decisionale della politica americana si regge su tre pilastri: Presidente, Congresso e Burocrazia (dai servizi segreti ai funzionari pubblici di varia natura). Il Presidente è il pilastro meno importante dei tre, ma rimane un pilastro. Le aziende, anche grandi, non rientrano nel processo, secondo Fabbri.
Poi magari ho malinteso io quello che intendevi.
Simone, certo che è politica. Per esempio, sembra che Obama ci sia rimasto male quando gli hanno detto che avevano bombardato 82 soldati siriani. Chi ha deciso di bombardare? Chi è il sovrano che decide nello stato di eccezione? Tra coloro che decidono c’è appunto la “burocrazia” che comprende la CIA e i vari servizi segreti, gli alti comandi militari, gli ex generali come Campbel, che ha tentato il golpe in Turchia (Obama è stato informato? è stato convinto? In questi due casi ha deciso?), e petrolieri e grandi industriali che, quando non diventano presidenti, o membri del congresso (i senatori sono in grandissima parte grandi miliardari), finanziano, condizionano e eventualmente ricattano i membri del Congresso.
Siamo d’accordo. Scrivendo che l’obiezione è teorica, infatti, intendevo che sarebbe utile chiarire a livello di analisi in cosa consista il processo decisionale di uno Stato, sempre di natura politica, e a cui eventualmente partecipano anche interessi che potremmo definire economici (grandi aziende).
La mia preoccupazione è che l’assenza di elaborazione teorica su questo punto fondamentale lasci intatta l’idea fallace dell’Impero acefalo, di natura industrial-finanziaria, sdoganato ufficialmente da Hardt e Negri. Il sovranismo ha bisogno di una teoria che rimetta al centro, anche dell’immaginario, la Politica.