La cospirazione di Ventotene
di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
Il cosiddetto ‘manifesto di Ventotene’[1] inizia con una definizione della libertà evidentemente riferita a Kant: «La civiltà moderna è fondata sul principio di libertà: l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita»; significa che un uomo non è strumento di un altro uomo, che nessuno può avere schiavi, che lo schiavo ha diritto assoluto alla ribellione. È un principio estraneo al mondo classico, introdotto però non dal mondo moderno, ma dal cristianesimo, da cui il mondo moderno – qualunque cosa possa significare questo termine – lo ha mutuato. I tre autori del manifesto aggiungono che è un autonomo centro di vita. È un’aggiunta infelice che elimina quanto c’è di grande in Kant. Questi, infatti, dice che l’uomo è autonomo non come centro di vita, ma come ragione: è la ragione che trasforma in legge la massima individuale qualora vi scorga il requisito dell’universalizzabilità. La vita, invece, è legata alle leggi naturali che le si fanno valere tramite i sentimenti di piacere e dispiacere: come centro di vita l’uomo è eteronomo, dipende cioè da leggi naturali estranee alla ragione. Credere che dalla vita possa derivare un principio di libertà è una evidente assurdità, l’assurdità alla base del liberalismo che tramite Luigi Einaudi è la base ideologica dei tre confinati a Ventotene. La libertà è superiorità alla vita e alle sue necessità, non vita. L’errore non solo testimonia l’impreparazione filosofica degli autori del manifesto, ma anche la prospettiva di ingenuo individualismo in cui osservano la realtà.
Gli autonomi centri di vita a Ventotene non prendono nota dei fatti, ma solo delle proprie esigenze che trasformano a volte in fatti a volte in necessità storiche. Così il § 1 del primo capitolo, riconosciuto allo Stato-nazione il merito di avere generalizzato i progressi all’interno del suo territorio, pretende che «l’ideologia dell’indipendenza nazionale … [porti] però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali». «La nazione non è più ora considerata come lo storico prodotto della convivenza degli uomini, … è invece divenuta un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo “spazio vitale” territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti».
Queste affermazioni possono forse descrivere le evoluzioni di alcuni paesi europei, ma riferite agli Stati in generale e, ancor più, al concetto di Stato sono false. In primo luogo che uno Stato sia un prodotto storico non significa affatto, come insinuano gli autori del manifesto, che il concetto di Stato non abbia legittimità etica. L’etica è la considerazione filosofica della libertà, e la questione della legittimità etica del concetto di Stato non può essere risolta sul terreno storico, ma su quello del suo rapporto con l’idea di libertà: se le sia necessario o se la contrasti essenzialmente.
In secondo luogo, la sovranità è un concetto ben più profondo di quanto pensino gli autori, del tutto disparato da quello di totalitarismo: rivolta all’interno, la sua assolutezza, che li allarma del tutto a torto, è espressa nel principio che la legge è uguale per tutti, ossia che la legge e le istituzioni dello Stato sono superiori a ogni individuo, senza che questa superiorità implichi l’annullamento delle differenze; gli Stati hanno infatti garantito il pluralismo fondamentale, quello religioso, ben prima di diventare democratici.
Rivolta all’esterno, la sovranità non è affatto dominio sugli altri Stati, ma esiste come riconoscimento della sovranità altrui e altrui riconoscimento della propria sovranità; questo reciproco riconoscimento in pace e in guerra è il rapporto normale tra gli Stati. Gli autori del manifesto non solo spacciano falsamente i rapporti internazionali come esercizio di una infantile volontà di dominio imperiale, ma identificano l’imperialismo con la sua forma più disgustosa. Imperialismo in generale è la volontà di asservire altri popoli, e ha come forme estreme da una parte l’egemonia, la devastazione dall’altra. Poiché l’uomo può preferire la morte alla vita, la libertà è assoluta e vi si può rinunciare solo volontariamente; la libera rinuncia alla libertà, ossia il consenso, è accettazione di un’egemonia, accettazione che la rende giusta: il popolo che non difende il proprio onore non ha onore. Non solo è giusta, l’egemonia può risultare un momento necessario della libertà in quanto suscita l’esigenza di liberazione e il senso di sé prima assente; così rende superflua se stessa e si procura la fine. – In quanto mira apertamente alla schiavitù degli asserviti senza appello alla loro accettazione, l’imperialismo fascista non è egemonia, ma devastazione barbarica; e i popoli vi rispondono per lo più con la lotta ad oltranza.
La confusione dei concetti politici nel manifesto non è casualità, vuole insinuare che la barbarie nazifascista non è antitetica allo Stato-nazione, ma il suo sviluppo naturale: gli Stati sono sovrani; se sovranità è totalitarismo lo Stato vero è quello hitleriano; tra gli Stati si stabiliscono solo egemonie; se egemonia è imperialismo devastatore nazista, la neue Ordnung è la fase culminante dello Stato. Immaginando un’evoluzione naturale dello Stato verso l’impero nazista, facendo dello Stato totalitario imperialista l’esito necessario di questa evoluzione, il primo paragrafo si risolve dunque in una calunnia del tutto dissennata e storicamente falsificata dello Stato:. «Gli stati totalitari … hanno realizzato … l’unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all’odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentrato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinato nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere». Trascurando concetti e fatti i visionari di Ventotene pretendono che i nemici dell’asse Roma-Berlino siano diventati Stati totalitari, perché il totalitarismo può essere combattuto solo dal totalitarismo..
Nel paragrafo 2 la contraddittorietà del manifesto assume un aspetto penoso. Il documento riconosce la tendenza dello Stato moderno a realizzare l’uguaglianza politica dei cittadini e, poiché l’uguaglianza politica consente di rivendicare l’uguaglianza sociale, a favorire l’avanzamento materiale dei diseredati. Poiché se ne sono sentiti minacciati, i ceti privilegiati hanno abolito lo Stato e hanno instaurato «dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari». Riconoscendo che lo Stato moderno ha messo in mano ai diseredati armi legali di emancipazione dai ceti privilegiati, gli autori del documento smentiscono quanto hanno affermato prima, che le dittature siano l’evoluzione naturale dello Stato moderno, e affermano in effetti che gli Stati totalitari sono il contrario di un vero Stato. La contraddizione per cui lo Stato è nel contempo strumento di emancipazione e strumento di asservimento dà origine al caos di questa frase: «D’altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un’unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta tra loro. Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere». Dapprima il governo è l’arbitro nei conflitti di interesse tra industria, finanza e lavoratori; poi sembra che la semplice grandezza delle parti in conflitto dissolva lo Stato in baronie in lotta – cioè lo divida al suo interno; poi gli ordinamenti democratico-liberali diventano uno strumento con cui industriali, finanzieri e lavoratori sfruttano la collettività – ma se è paralizzato dalle sue divisioni, come può diventare uno strumento per sfruttare la collettività? Infine si diffonde la convinzione che lo Stato totalitario possa risolvere il conflitto sociale. Tutto il saltellare per cui lo Stato, da arbitro tra gli interessi, diventa loro strumento e dunque totalitario, ha un solo scopo: spacciare gli opposti – Stato costituzionale e Stato totalitario – per identici, supportare la menzogna che questo sia l’evoluzione di quello. Questa menzogna sulla natura dello Stato è un elemento di continuità tra Ventotene e la Ue.
Il paragrafo 3 mette nello stesso sacco il dogmatismo, il razzismo (senza considerare che la chiesa cattolica, pur essendo dogmatica, non è certo razzista), l’autarchia, gli scambi bilanciati, che sarebbero «ferrivecchi» del mercantilismo. Qui la confusione è totale come prima, ma non più prodotta da una visione che forza la percezione, bensì dall’ignoranza: a parte il fatto che gli scambi sono bilanciati per definizione, altrimenti sarebbero truffe, mercantilismo è una politica economica finalizzata ad accumulare saldi attivi nella bilancia estera di uno stato, e non può avere nulla a che fare con l’autarchia, che è una politica di sostituzione delle importazioni con produzioni domestiche, in genere per evitare passivi di bilancia estera. Secondo questi dilettanti, «i più evidenti concetti della scienza economica» … mostrano l’interdipendenza economica di tutte le parti del mondo: «spazio vitale per ogni popolo … è tutto il globo». Qui l’interdipendenza globale – in altri termini il libero scambio – è spacciata per un fatto, addirittura è sentita come se fosse una soluzione di problemi, uno di quei ‘free lunch’ che proprio la scienza economica esclude. Anche il fanatismo del libero scambio è un elemento di continuità tra Ventotene e la Ue.
È in realtà all’imperialismo nazista che i visionari di Ventotene attribuiscono la funzione di punto di svolta dalla preistoria statalista dell’Europa alla sua storia autentica. Come il Messia sarà preceduto dall’Anticristo, così nella loro visione sconvolta l’unione europea non poteva essere attuata che dopo il diluvio nazista. Se vincessero, i tedeschi potrebbero «anche permettersi una lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione dell’umanità in Spartiati ed Iloti». Qui il sentimento patriottico non appare antagonista dell’imperialismo nazista, ma come stupidità umana che baratta con il suo sfruttamento effettivo la concessione di un patetico palo di confine. Anche il disprezzo dei confini è un elemento di continuità tra Ventotene e la Ue.
Gli Stati e i loro confini sono perduti – profetizzano i visionari: sia che la Germania vinca sia che essa perda. La Germania ha abbattuto «ad uno ad uno gli stati minori», ma «con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in lizza». I nemici della Germania, che assumono la forma di Stati finché si lasciano abbattere, quando scendono arditi in campo per combatterla cessano di essere Stati e assumono la forma di forze: la Gran Bretagna non è uno Stato, né lo è l’URSS contro il cui popolo i tedeschi sono andati a cozzare, né l’America, né la Cina: «contro le potenze totalitarie» non sono schierati Stati – giammai – ma «immense masse di uomini e di ricchezze», «Nazioni Unite». Queste «masse di uomini» non solo si muovono fuori dalle organizzazioni degli Stati, ma comprendono gli imprenditori che «… vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano il loro movimento». Con un semplice espediente lessicale gli autori del manifesto trasfigurano addirittura la guerra degli Stati alleati contro l’Asse in una svolta messianica antistatale e antipatriottica. Ma così, dopo aver fallito la dimostrazione che lo Stato moderno evolva naturalmente verso lo Stato totalitario, facendo del totalitarismo nazista il punto di svolta dalla preistoria statalista verso l’Europa unita, i tre confessano involontariamente che l’Unione europea non era affatto nell’attesa degli Europei, che poteva sorgere soltanto da uno choc storico, soltanto come replica di una scossa tellurica. Quando gli europeisti hanno sottoscritto il Trattato di Maastricht hanno seguito lo stesso principio: poiché nessuno voleva un’unione effettiva, hanno creato un cambio valutario fisso che avrebbe amplificato il primo choc economico a tiro così da costringere a quell’unione effettiva dapprima improponibile[2].
È talmente evidente l’estraneità dell’unione europea agli europei che gli europeisti di Ventotene sanno che «la sconfitta della Germania non porterebbe automaticamente al riordinamento dell’Europa secondo il [loro] ideale di civiltà». Anziché esporre questo loro ideale per tentare di convincere le masse, essi hanno in mente di organizzare una cospirazione per prendere il potere e realizzarlo. «Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo …» – ai visionari sfugge l’osservazione elementare che la guerra allora in corso non poteva finire che con la vittoria di un fronte e la sconfitta dell’altro, che se gli sconfitti sarebbero giaciuti fracassati al suolo, i vincitori, per quanto provati (ma gli Stati Uniti usciranno dalla guerra con un’economia in prorompente espansione), sarebbero divenuti padroni dei perdenti, quindi, seppure fracassati, non sarebbero giaciuti al suolo; questa inavvertenza è così pacchiana, così enorme, da generare il sospetto che gli autori del manifesto, se non erano già agenti dei futuri padroni, si stessero proponendo per svolgere questo ruolo, che già durante la guerra il loro pseudo cosmopolitismo volesse essere l’ideologia di copertura dei progetti geopolitici euroatlantici – dicevamo: «Nel breve intenso periodi di crisi generale … in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere calata in forme nuove,» le masse traumatizzate dalla guerra, «materia fusa e ardente», accoglieranno «la guida di uomini seriamente internazionalisti», cioè la loro guida, la guida dei cosmopoliti visionari, dei signori Spinelli, Rossi e Colorno, e guidate da questi uomini storico-universali impediranno che i ceti privilegiati smorzino «l’ondata dei sentimenti e delle passioni internazionalistiche» e ricostruiscano i vecchi organismi statali. Qui i visionari immaginano la lotta tra statalisti e internazionalisti come una lotta tra privilegiati e diseredati, immaginano all’improvviso che i diseredati non abbiano Stato, che i ceti privilegiati abbiano invece carattere essenzialmente nazionale, e che non esistano interessi industriali e finanziari a carattere transazionale – eppure qualsiasi importazione ed esportazione di beni, servizi, capitali o persone crea un ceto privilegiato non legato allo Stato nazionale. L’identificazione tra ceti privilegiati, Stati nazionali, vecchio è tanto mistificante quanto l’identificazione tra internazionalisti, diseredati e nuovo; qualcosa di questa mistificazione si è trasmessa fino alla Ue.
La massa fusa e ardente dei traumatizzati dalla guerra, divenuta ardente di sentimenti e di passioni internazionalistiche sull’onda dell’entusiasmo suscitata dal manifesto di Ventotene, impedirà che si ricostruiscano gli Stati. Dapprima i visionari sembrano non pensare che questa massa ardente di internazionalismo, ammesso che esista, ammesso che voglia impedire la ricostruzione degli apparati degli Stati sconfitti, dovrà almeno tenere conto della volontà dei vincitori, i cui organismi statali non devono affatto essere ricostruiti, ma a seguito della vittoria sono più solidi che mai e controllano con i loro eserciti gli Stati sconfitti. In effetti i tre autori temono che i dirigenti delle nazioni vincitrici, deludendo i sentimenti internazionalisti che ardono tra le masse, restaurino i vecchi apparati statali nell’interesse del loro impero. In fondo è un timore futile: il destino degli sconfitti è la perdita della sovranità, il saccheggio delle risorse da parte dei vincitori, l’imposizione di una classe dirigente che risponde soltanto alle esigenze di questi ultimi. Rispetto a questo destino, che si ricostruiscano organismi statali o che i vecchi organismi statali confluiscano in un’unione è una questione del tutto indifferente; infatti sia i vecchi organismi sia la loro unione possono essere Stati fantoccio privi di sovranità, semplicemente funzionali al saccheggio dei vincitori, e non si capisce perché l’unione debba essere preferita ai vecchi organismi statali. Che l’Europa sconfitta torni a dividersi in Stati o si unisca in un unico Stato, il problema sarà in ogni caso il recupero della sovranità, la scelta tra quelli e questo sarà dunque del tutto irrilevante. Ma si sa che discutere su un problema irrilevante è il modo migliore per far passare in silenzio le decisioni su quelli rilevanti. La Ue non ha dimenticato questa lezione: ha incantato gli europei con i diritti dei consumatori e delle minoranze, mentre li esponeva ignudi alla tempesta della globalizzazione.
Il problema degli sconfitti è il recupero di sovranità; i tre visionari non solo lo ignorano immaginando una situazione in cui tutti gli organismi statali, vinti e vincitori, sono abbattuti, ma propongono come problema politico principale la lotta tra i dirigenti degli organismi statali ormai disfatti e le masse ardenti di internazionalismo – sul modello della visione marxiana della fine della storia in cui a un pugno di capitalisti che si sono appropriati di tutta la ricchezza della Terra si oppone la massa dell’intera umanità espropriata. La sorte degli Stati sarebbe segnata: la Storia li ha già condannati e le masse avrebbero gioco facile ad abbatterli, se non fosse che i dirigenti statali e i ceti privilegiati che vi si appoggiano sono di una consumata abilità nello strumentalizzare le masse per mantenersi al potere. Ed ex abrupto non è più vero quanto i tre visionari avevano divinato prima, che le masse ardessero di sentimenti internazionalisti; al contrario, ora risulta che le masse sono imbevute di «stupidi» sentimenti patriottici, che le rende facili strumenti di fini reazionari. Dalla parte del federalismo europeo restano così soltanto alcune opinioni di politica estera: «Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni con gli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta». Le opinioni sono però discutibili, e tutti gli uomini ragionevoli hanno riconosciuto che si poteva tenere spezzata la Germania – lo avrebbero preferito gli stessi tedeschi orientali vittime di un brutale Anschluss – e che l’equilibrio tra gli Stati europei è andato perduto dopo che essi, in nome dell’Unione europea, hanno rinunciato alla loro sovranità economica e agli strumenti per difendersi dal mercantilismo tedesco.
Il nuovo Stato europeo non ha dalla sua parte i dirigenti e i ceti privilegiati, né i popoli ancora persi nello «stupido» patriottismo. La sua irresistibilità poggia ora sull’armonia prestabilita per cui tutti i problemi europei «vi troverebbero la più semplice soluzione, come l’hanno trovata in passato i problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti tra diverse province». In altri termini: è proprio l’essenza statale dello Stato europeo a farne una soluzione di problemi così efficace da renderlo ineludibile. A questo punto la valutazione dello Stato, che finora è stata a dir poco ingenerosa, si rovescia completamente: i suoi poteri diventano taumaturgici, al punto che basta unificare gli staterelli in un grosso Stato perché tutti i problemi trovino soluzione, come se bastasse mettere due belve nella stessa gabbia perché si ammansiscano. Così un’ultima contraddizione avvolge le sue spire sullo Stato: prima il bene coincide con l’unificazione, il male con il suo risultato; l’unificazione che cancella gli staterelli per federarli è buona, lo Stato che ne risulta è cattivo; poi però, se a essere unificati sono non staterelli ma Stati, non solo l’unificazione degli Stati è buona, è buono anche il suo risultato, lo Stato che federa gli Stati. Così il patriottismo, che prima era stupido, ora che ha per oggetto l’Europa è la fiamma di cui devono ardere «quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale». Il loro compito non sarà troppo difficile; è vero, hanno contro i vecchi politici, i vecchi ceti privilegiati, il popolo è ancora patriottico; ma nelle loro teste hanno la semplice soluzione a tutti i problemi – non è poco: uno Stato europeo, che dispone di una forza armata, che spazza le autarchie economiche, ossia impone una politica economica comune, che ha mezzi sufficienti per far eseguire negli Stati federati le sue deliberazioni dirette a mantenere l’ordine comune, che chiederà il sacrificio della vita ai suoi soldati in caso di guerra, e il sacrificio di una quota delle ricchezze ai privati con l’imposizione fiscale in funzione redistributiva, e che nonostante tutte queste caratteristiche così antiquate sarà il primo passo verso l’unione cosmopolita della nuova umanità!
I tre sono così affezionati alle loro visioni e nel contempo così intimamente timorosi della loro vacuità da rifiutare il metodo democratico dell’assemblea costituente a suffragio universale che prende decisioni da correggere con interventi graduali: «La metodologia democratica sarà un peso morto nelle crisi rivoluzionarie»; infatti, mentre i democratici si logorano in chiacchiere, si ricostituiscono le istituzioni pre-totalitarie e la lotta di classe con cui gli operai si isolano e badano ai loro bassi interessi anziché alla sublime visione europeista. Bene fanno dunque i dirigenti comunisti che «utilizzano gli operai nelle più disparate manovre», «ma non prendono leggi da essi». Sì, proprio così: i rappresentanti del popolo devono strumentalizzarlo per i propri fini, che il popolo ora non capisce, ma capirà. Pur contrastando con i comunisti per il loro settarismo e la loro dipendenza dagli interessi nazionali russi, i visionari vogliono organizzare il partito europeista in forma leninista: non una coalizione eterogenea alla Martov, ma una organizzazione con precise direttive d’azione, che, pur facendo proseliti tra tutti gli oppressi a qualunque titolo, recluta nelle sue file solo rivoluzionari di professione disposti ad operare anche nella più dura illegalità: così i rivoluzionari di professione, coscienti «di rappresentare le esigenze profonde della società moderna», sapranno come guidare la massa all’urto. La Ue ha ereditato la visione elitaria di Ventotene.
«Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato e attorno ad esso la nuova democrazia«. Ovviamente, «non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba … sboccare in un nuovo dispotismo»; e per evitarlo i visionari raccomandano di fare esattamente quello che hanno fatto i regimi totalitari: «Se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo … le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà … nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere». Come nei regimi totalitari, il popolo parteciperà alla vita dello Stato nella misura in cui accetterà il nuovo ordine. Per lui, come dirà Juncker nel 2015, «non può esserci scelta democratica che vada contro i trattati europei»[3].
[1] Sul web ne esistono più edizioni. Abbiamo utilizzato la seguente http://www.italialibri.net/contributi/0407-1.html .
[2] Cfr. quanto dichiarò Prodi al Financial Times il 5 dicembre 2001 riportato in http://gondrano.blogspot.it/2013/10/un-giorno-ci-sara-una-crisi.html .
[3] Cfr. l’affermazione di Juncker al seguente indirizzo: http://www.ilfoglio.it/tutta-colpa-del-liberismo/2015/09/16/news/la-versione-neoliberista-della-dottrina-della-sovranita-limitata-87556/
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