di ORIZZONTE 48 (Luciano Barra Caracciolo)
Mentre sul fronte delle politiche economico-fiscali (e non a caso, visto che dovremo presto pensare alle coperture e ai “piani di rientro”) domina
la “questione bancaria”, cioè l’insolvenza posta a carico dei risparmiatori-contribuenti in (più) momenti, sostanzialmente inscindibili (e lo vedremo nel 2017-2018),
l’attività parlamentare e “partitica” appare in una sorta di stasi che ricorda molto la quiete prima della tempesta.
Formalmente, l’attività politica sembra in stallo perché vige la parola d’ordine che occorre aspettare un paio di pronunciamenti della Corte costituzionale.
Uno è quello, atteso per il 24 gennaio, relativo alla “costituzionalità” della legge elettorale, c.d.Italicum.
L’altro, ancor prima (l’11 gennaio), e ancor più rilevante in termini di valori costituzionalì, – in un Repubblica fondata sul lavoro (art.1) obbligata ad attivarsi per rendere “effettivo” il diritto relativo, con politiche economiche di pieno impiego (artt.3 e 4, comma 2, Cost. in relazione all’intera Costituzione “economica”)-, è quello sull’ammissibiltà dei quesiti referendari sul jobs act.
2. Anzitutto,
sull’Italicum la pronuncia della Corte potrebbe risultare di inammissibilità:tale legge, infatti, non solo non ha avuto applicazione in alcuna concreta elezione, ma risulta, secondo lo stesso Capo dello Stato, inapplicabile, dovendo essere quantomeno coordinata e “armonizzata” con il “Consultellum”,
de facto vigente per il Senato, e una vera “armonizzazione” non è compiutamente operabile dalla Corte. Questa allora, potrebbe fermarsi a rilevare il difetto di “rilevanza” delle norme denunciate, a rigor di logica. Ma se volesse superare questo non trascurabile aspetto pregiudiziale, con un certo “spirito pratico”, potrebbe anche scendere del merito: in tal caso, però, essenzialmente per mostrare che non spetta a lei indicare soluzioni direttamente applicative che rimangono nella responsabilità del parlamento.
Sui quesiti del referendum la questione è ancor più “spinosa”.
La tesi relativa sarebbe, in sintesi, (e salvo maggior approfondimento imminente), che il quesito, in particolare la parte di esso relativa al comma 8 (dell’art.18), inciderebbe non solo sulle parti della disposizione complessiva introdotte dal jobs act ma anche sulla parte ad esso sopravvisssuta, cioè sulla differenziazione delle soglie di esenzione (dalla tutela rafforzata dei licenziamenti mediante la reintegra), tra imprese “industriali” (per cui è di 15 dipendenti), e imprese agricole (per cui è di 5 dipendenti), differenziazione risalente alla versione “originaria” della previsione.
In pratica, si dice, l’esito del referendum sarebbe quello non di abrogare la norma vigente maquello di introdurne un nuova, divenendo inammissibilmente “propositivo” (a differenza di qualsiasi disciplina previgente, nel tempo, si avrebbe l’estensione della reintegra a tutte le imprese con almeno 6 dipendenti).
2.2. Tale obiezione, non ha, a rigor logico-normativo, molto fondamento: oggetto del referendum abrogativo è il testo di una norma (in tal caso articolata in più disposizioni coordinate), a prescindere dalla pluralità di fonti, che materialmente hanno dato luogo a “quel” testo (e all’unica fonte attuale “composita”, materializzata in un unitario testo di portata normativa).
Se quindi l’abrogazione investe IL TESTO di una norma, in una delle disposizioni coordinate a tutte le altre nella sua attuale formulazione letterale, sia pur derivante da più fonti, (comunque accorpate in un’unica disciplina come risultato attuale della pluralità di fonti), non pare corretto ri-scindere, in fase abrogativa, le fonti unificate nell’unico testo per sindacare l’effetto abrogativo: questo deve poter espandersi pienamente secondo il consenso maggioritario espresso dal corpo elettorale, e ipotizzarne, forzatamente, un risultato “creativo” di una nuova norma.
E ciò per la semplice ragione che l’effetto abrogativo di una delle disposizioni contenute in un’unica norma-disciplina articolata, disposizione legittimamente oggetto di richiesta di abrogazione, conduce sempre, immancabilmente ad un nuovo testo della norma complessiva e, quindi, a una nuova norma in senso materiale (“interpolando” la fonte nella sua attuale e inscindibile portata normativa).
Non sta scritto in Costituzione che una complessiva norma, composta, come normalmente accade, di più disposizioni coordinate, provenienti INDIFFERENTEMENTE da una o più fonti succedutesi nel tempo, possa essere solo oggetto di abrogazione integrale o relativa all’ultima fonte confluita in quella vigente.
3. Ma questo ordine di problemi, ci riporta a una questione più generale e “pregiudiziale”.
Per comprendere l’insidia che deriva dallo stesso porsi questo quesito, ricorriamo ai profili di storia, istituzionale ed economica, che sono emersi dal dibattito su questo blog.
“Bello spunto, che mette in evidenza, tra l’altro, ed anzi conferma,
l’incompatibilità sostanziale tra liberalismo e democrazia parlamentare,
laddove, invece, la “vulgata” dominante vede (ancora) come l’uno padre dell’altra.
Non è invece così (e lo vediamo oggi), non era così (e lo vediamo leggendo criticamente i trattati di Roma ed il manifesto di Ventotene), non era così ancora prima (vedi il liberale Salandra e tanti altri come lui affascinati dalle sirene dell’autoritarismo fascista).
E non era così nemmeno “alle origini” in un certo senso.
Già alla fine dell’800, infatti, Sonnino si trovava ad affermare (nel celebre “Torniamo allo Statuto“) che “In un Governo fondato quasi totalmente sull’elezione manca, nella alta direzione della cosa pubblica, la rappresentanza dell’interesse collettivo e generale“.
Il Passo citato ci dice già tutto: la composizione civile degli interessi particolari, che, a ben vedere, è alla base del confronto parlamentare deve cedere, ad avviso di Sonnino, il passo ad un preteso interesse superiore, che è visto addirittura come estraneo e sovraordinato ai meccanismi della democrazia rappresentativa, i quali, per loro natura intriseca, rappresentano addirittura qualcosa di opposto (i cattivi “interessi particolari”).
Si tratta, in sostanza, di un perverso primato della politica che costituisce, puta caso, la “grundnorm” di un particolare “stato di eccezione“, quello del “vincolo esterno” che diventa, da un punto di vista morale, una sorta di misura necessitata per, potrebbe ben dirsi, salvare la democrazia da se stessa (annullandola).
In quel testo si trovano, poi, tanti altri rimandi al nostro presente. Primo fra tutti il mito del “governocentrismo” come unica via per affermare il preteso interesse superiore.
Il ritorno alla formula letterale del potere esecutivo in capo al Re, con conseguente rigetto della prassi parlamentare che si era consolidata, viene infatti giustificato da una visione di un potere esecutivo che deve (si citano le testuali parole) “nella sua azione di governo, mantenersi al di sopra e al di fuori dei partiti” (e come si collocano, oggi, le istituzioni €uropee? “Al di sopra e al di fuori dei partiti”!!!), e che non deve (si cita sempre dal testo) “favorire gli interessi della maggioranza piuttostoché quelli della minoranza [ … ] ma considerare tutti i cittadini allo stesso modo tenendo conto del solo interesse generale dello Stato“.
Ben potrebbero vedersi, in queste parole, gli albori di quella che potremmo definire “morale della tecnocrazia“: se il potere esecutivo, per ricondursi all’interesse superiore di cui è unico portatore, deve prescindere da ciò che un Parlamento democraticamente eletto rappresenta, ciò significa -e non potrebbe essere altrimenti- che l’unico modo in cui il secondo può coesistere col primo è vincolato alla presenza di un perenne stato di eccezione che ne neutralizzi la sostanza, riducendolo a mero organo ratificatore.
Insomma, la “dottrina” era già stata scritta…..
Guardando ai fatti di oggi, rimango sempre più convinto che Liberalismo e parlamentarismo tutto sono tranne che fratelli. E non c’è momento nella storia, dalla nascita delle prime democrazie ottocentesche, in cui il primo non manifesti, ad intervelli regolari, decisa insofferenza verso il secondo…”
“Sono d’accordissimo, ma l’equivoco, se vogliamo chiamarlo così, mi pare semplicemente il frutto di una separazione fra storia filosofico-politica e storia giuridica.
Se si evita l’apologetica della prima e ci si concentra sulla seconda, la “normale” apribilità dello stato di eccezione (ricordo la citazione di Bin che avevo riportato qui e quella di Zagrebelsky qui, punto 1.4) e la prevalenza dell’esecutivo sui parlamenti (vedi la citazione di Bagehot riportata da Nania qui) risultano fatti acquisiti”. 3.3. E infine vi ripropongo (sempre a fini di miglior conservazione dei più proficui dibattiti) le
mie riflessioni indotte da questo importante scambio:
“Ci sarebbe da chiedersi perché i parlamenti siano stati, comunque, nel corso del tempo, anche esaltati dal capitalismo anglosassone, che è poi il modello di riferimento del sempre autorazzista spirito imitativo delle elites italiane.
Volendo farla breve, la ragione principale di tale concorrente “vena” della facciata etica del capitalismo liberoscambista, e implicitamente mercantilista-imperialista (come evidenziò Joan Robinson), è la CORRUTTIBILITA’ delle compagini parlamentari (pre-orientativa delle deliberazioni assembleari: cose che, ancora oggi, vediamo divenuta una mitologia pop in serials USA come House of cards o “The Boss”, di cui consiglio la visione a ci se lo fosse perso. Senza menzionare le “storiche” vicende dei rivolgimenti dell’Assemblea nazionale durante la Rivoluzione frencese…).
In sostanza, la prevalenza dell’Esecutivo conssegue a un certo qual consolidamento di rapporti di forza che si incentrano sui più eminenti operatori economici “tradizionali” e, in qualche modo, legati all’accumulo di terra-oro nel territorio nazionale.
Si tratta, ovviamente, di banchieri, della cui “morale” prevalente Bazaar ha evidenziato il ruolo essenziale relativamente alla fondazione delle regole pregiuridiche ritenute “fondanti” un ordinamento liberale, e delle grandi industrie di “prima generazione”; questo complesso consolidato, in quanto tale, tendeva, e tende (adeguandosi ai tempi e alle tipologie di media) a condizionare l’opinione pubblica e la legislazione “a valle” di essa.
In altri termini, nelle vicende storiche di superamento del c.d. ancien régime, gli operatori economico-finanziari, resa rispettabile la propria condizione, tendono irresistibilmente ad assumere funzione e ruolo delle vecchie aristocrazie (che hanno espulso dal potere) ed “occupano” le strutture istituzionali, cioè lo stesso Cabinet e le “filiere” pubbliche dell’esercito e della diplomazia (e della magistratura).
Se la burocrazia diviene così esponenziale dello Stato borghese-liberale, incarnato dalla tendenziale prevalenza dell’Esecutivo, lo diviene in un modo particolare: cioè, inevitabilmente autoconservativo di certi rapporti di forza “interni” alla classe capitalistico-mercantile.
Allora, in questa situazione, le forze nuove che operano sull’evoluzione dei traffici commerciali e delle filiere industriali, in chiave colonialista e mercantilista, entrano in concorrenza con l’establishment del capitalismo (pro-tempore) divenuto rispettabile (ma non meno attento a conservare la prevalenza nel conflitto sociale interno).
Per indurre politiche che siano anche protettive e promozionali dei nuovi settori emergenti, che spesso, in poco tempo, divengono i più lucrativi, questi ultimi tendono a comprare l’indirizzo legislativo tramite il parlamento, di cui si assicurano un crescente numero di esponenti eletti e foraggiati, nelle loro prese di posizione, dai nuovi flussi finanziari.
Sul punto, rammento questo post: http://orizzonte48.blogspot.it/2016/04/la-mano-invisibile-che-affida-la.html (relativo alla guerra dell’oppio; esempio paradigmatico che può essere esteso a molte altre successive ed analoghe vicende, anche negli Stati Uniti).
Questa, in fondo, è la logica dei checks and balances: essa presuppone cioè la possibilità diavvicendamento tra settori o fazioni del potere economico, storicamente mutevoli e in dialettica rispetto agli assetti autoconservativi interni alla classe oligarchica.
Dunque, sulla base di alcuni principi organizzativi quali l’idraulicità delle elezioni, garantita dal controllo dei media, e i meccanismi delle leggi elettorali (invariabilmente tesi a selezionare l’elettorato passivo), i parlamenti sono considerati accettabili come espressione della “Mano Invisibile” proiettata nel campo del controllo concorrenziale delle istituzioni: ma sempre ascrivibile ad una sola classe sociale…
Al di fuori di queste rigide condizioni, e spesso proprio per la inefficienza in termini di benessere collettivo di questi meccanismi delimitati, i parlamenti “entrano in crisi“: cioè finiscono per rappresentare diversi gradi di un più esteso malcontento sociale.
Ed è allora che la solidarietà della classe finanziario-industriale viene ritrovata e si muove l’attacco sistematico ai parlamenti.
Inutile dire che la causa di ciò sono diversi gradi di compromesso: cioè allorquando si accetta il suffragio (più o meno) universale e/o accedono alla burocrazia esponenti di altri ceti sociali, o “peggio”, si organizza il potere sindacale.
Il parlamentarismo va bene, dunque, purchè non si realizzi neppure un minimo di Stato pluriclasse e l’idraulicità elettorale sopporti soltanto stress soggetti all’agire di forze, in evoluzione, tutte interne all’oligarchia.
Oggi, dai veloci (e spesso violenti) arricchimenti coloniali, siamo passati all’affermarsi delle “nuove tecnologie” come dinamiche caratterizzanti questa dialettica, considerata accettabile e che, entro queti limiti, fa ancora conservare i parlamenti e i processi elettorali.
In pratica: solidali quando si tratta di scongiurare la “dittatura della maggioranza”, in concorrenza, anche feroce quando di tratta di sostituire una “dittatura della minoranza” ad un’altra.
Il rapporto normale del capitalismo con le pubbliche istituzioni politiche, dunque, è la corruzione, che rappresenta l’applicazione del metodo concorrenziale al processo di formazione dell’indirizzo politico (si tratta, a ben vedere, di un corollario della formazione dei prezzi in regime oligopolistico).
Oggi, più tecnocraticamente (and out of political correctness), la designano “capture“, ma il principio è sempre lo stesso.
La corruzione-brutta – quella delle classifiche promosse dai più grandi corruttori (su scala industriale)- è solo quando intermediari non appartenenti alle elites si inseriscono nel meccanismo ed alzano il costo della competizione politica “interna”, rendendo “inammissibilmente” più incerto e oneroso un esito favorevole (cioè ottimo-allocativo paretiano).
“Non a caso, il Parlamento è un’istituzione dell’epoca liberale, mentre l’istituzione dell’epoca democratica è rappresentata dai partiti di massa: l’entrata in scena di questi ultimi avrebbe dovuto spostare il centro della vita democratica fuori del Parlamento, organo che quindi avrebbe dovuto essere profondamente modificato per adattarsi al nuovo scenario. Non è accaduto.
I risultati sono quelli da Lei puntualmente rilevati: scadimento dell’istituto Parlamentare a beneficio del Governo, con sostanziale concentrazione del potere oligarchico-capitalistico in capo a quest’ultimo (la scampata riforma costituzionale voleva non a caso sublimare quest’assetto).
Il problema è, manco a dirsi, spostare dal Parlamento alle masse il definitivo baricentro, in modo che le masse possano inserirsi negli ingranaggi della vita collettiva, cioè là dove sono in giuoco i loro interessi. Partiti e sindacati di classe, valorizzazione degli enti locali (Comuni), gestione diretta ed autonoma dei servizi sociali, culturali e servizi essenziali, oltre che dei sistemi informativi. Ma, soprattutto, democratizzazione del processo produttivo mediante gestione aziendale (art. 46 Cost., di cui i molti ignorano l’esistenza; le argomentazioni di Giannini, sul punto, andrebbero riprese alla lettera).
Non è utopia, è Costituzione italiana, norme precettive: artt. 1, 3, comma II, 4 e ss.. Sempre allo stesso punto andiamo a finire. Ma tanto che ce lo diciamo a fare…”
Fonte: http://orizzonte48.blogspot.it/2017/01/parlamentarismo-stato-di-eccezione.html
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