Mark Twain: la genesi dell’imperialismo USA
di CONFLITTI E STRATEGIE (G. Candotto)
In un recente dibattito sulla situazione siriana, si era toccato l’argomento dell’origine dell’interventismo democratico americano, dell’esportazione della democrazia. Alcuni vedevano la sua genesi nelle tesi del PNAC (Progetto per un nuovo secolo americano) di Bush, Pearle, Wolfowitz e molti repubblicani dell’amministrazione George W. Bush, nelle quali, partendo dalla tesi che “la leadership mondiale americana è un bene per l’America e il resto del mondo” mescolavano esportazioni di democrazia con le armi, alla trasformazione di un mondo da unipolare (alla fine degli anni 90 la Cina non era ancora considerata una potenza e la Russia era in ginocchio) a monopolare, ovvero dall’esistenza di una sola potenza, al dominio di quella potenza.
Questa tesi, che ha sicuramente delle ragioni, però ha due pecche: la prima è che guarda in un tempo troppo ravvicinato, infatti il PNAC è frutto sia di contingenze storiche, ma soprattutto di un principio più radicato nell’imo dell’americano medio, quello del dovere intrinsico di un’azione liberatrice messianica del popolo americano; la seconda pecca è che sebbene l’amministrazione Obama abbia in gran parte cestinato il PNAC, l’imperialismo americano, anzichè scemare ha avuto nuovi picchi, sebbene con forme diverse (allargamento ad est della NATO, primavere arabe, Ucraina e infine Siria). Un’altra tesi era che l’origine dell’interventismo democratico americano avesse da trovarsi nei celebri quattordici punti di Wilson e nella partecipazione USA alla prima guerra mondiale e nell’accantonamento dell’isolazionismo della dottrina Monroe. Anche questa ipotesi è suffragabile con molte argomentazioni: fu la prima volta che uno stato geograficamente completamente estraneo a un conflitto entrò in guerra con lo scopo dichiarato di ”fare un guerra di per far finire per sempre le guerre” e almeno a parole in maniera disinteressata.
Ovviamente questo è anche uno degli innumerevoli esempi della gigantesca ipocrisia americana: gli Usa dettero un ultimatum alla Germania nel 1916 (due anni prima dei punti di Wilson che sono del gennaio 1918) dopo l’affondamento del piroscafo Lusitania, che trasportava armi, ultimatum che il II Reich ingoiò e accettò, gli Usa entrarono in guerra comunque il 6 aprile 1917 dopo numerose provocazioni ai tedeschi ed entrarono prima di tutto per garantirsi il pagamento dei miliardi di dollari di prestiti concessi alle potenze dell’Intesa. Ma comunque nei 14 punti di Wilson si trova tutta l’idea dell’esportazione della democrazia e dell’intervento “salvifico” degli Usa nel mondo. Tuttavia proprio Wilson deve questa sua visione in parte ipocrita, in parte idealistica, proprio all’autore che più l’ha influenzato e ha formato la sua non vasta cultura: Mark Twain.
E qui arriviamo alla tesi che avevo esposto e che qui voglio ribadire: è Mark Twain il vero padre dell’interventismo democratico americano e il manifesto ideologico nel quale propone questa sua visione è il romanzo fantascientifico “Uno Yankee alla corte di Re Artù”. Si potrebbe ribadire che in realtà la genesi potrebbe essere trovata anche prima, sia nella “civilizzazione” degli indiani d’America, sia nella stessa guerra civile americana combattuta, secondo la propaganda nordista, per “liberare gli schiavi neri del Sud”. Ma nel caso degli indiani, la volontà di “civilizzare” gli indiani (un termine più corretto sarebbe distruggere la loro cultura) è contemporanea a Mark Twain oltre che più frutto di azioni individuali (i gruppi filantropici di metà fine ottocento) che di una decisione politica e culturale condivisa. E durante le guerre indiane precedenti nessun politico o generale statunitense si faceva scrupoli del genere, ma seguivano più che altro il detto del generale Sheridan: “l’unico indiano buono è l’indiano morto”.
E anche per quanto riguarda la guerra civile, l’idea che i nordisti abbiano combattuto per ”liberare i neri” è più frutto della propaganda fatta a posteriori, che della realtà contemporanea agli eventi. Come ha ampiamente dimostrato da Raimondo Luraghi in Storia della guerra civile americana, testo considerato da Harvard “la miglior opera mai scritta sulla guerra civile”, se la questione avesse riguardato solo i neri non ci sarebbe mai stata una guerra civile negli Usa: i motivi erano molto più profondi e radicati e riguardavano prima di tutto la questione dell’autonomia dal governo centrale, secondariamente le decisioni in materia di fiscalità generale e di dazi e solo in parte marginale la schiavitù dei neri. Quindi neanche, tranne che a posteriori, la guerra fatta dagli Yankee contro i sudisti ebbe l’origine nella volontà di imporre un modello politico presunto come perfetto.
Detto questo torniamo a Mark Twain. Mark Twain è stato lo scrittore più influente della storia della cultura americana e i suoi scritti tutt’ora sono considerati “l’inizio della vera cultura americana” (cit. Ernst Hemingway) e quindi sebbene si possano trovare altri autori suoi contemporanei che hanno porposto visioni simili, l’influenza di Twain è stata, ed è tutt’ora, immensamente superiore a quella degli altri. Inoltre sebbene dopo il 1890 si disse contrario all’imperialismo americano, ma solo nella forma neocoloniale contro le Filippine, lo scritto fantascientifico “Uno Yankee alla corte di Re Artù” può essere definito come il manifesto ideologico almeno dell’imperialismo democratico e dell’esportazione della democrazia. In detto romanzo, uno Yankee del XIX secolo si ritrova mirabolmente catapultato nel VI secolo dopo Cristo, nella terra di Camelot, alla corte di Re Artù.
Qui scopre che nulla funziona: il Re ha un potere assoluto, il popolo non ha diritto di parola, la legge è puro arbitrio dei nobili, la religione avvinghia i più poveri nella superstizione e nella sottomissione ai potenti e via di seguito. Quindi, dimostrando per altro una incredibile ignoranza della profondità delle società medioevali, decide di “liberarli”. Grazie alla sua superiore (secondo lui) consocenza tutti lo prendono per un potentissimo mago e a lui si inchinano adoranti e ubbidienti. Secondo lo scrittore tutti i personaggi, dai Re ai nobili fino alla plebe, sono solo dei bambini privi di alcuna cultura e conoscenza, pronti a credere a tutte le superstizioni e bugie: esemplificativa è la scena di dieci cavalieri pronti ad ucciderlo che lui sconfigge grazie alla sua pipa. Infatti nello scritto questi cavalieri, vedendo il fumo uscire dalla sua bocca, lo scambiano nientemeno che per un drago e si inchinano tremanti al suo volere.
Così dopo aver preso il potere assoluto (sempre per il bene della libertà) inizia a introdurre le scuole dove insegnare l’agnosticismo, i diritti individuali, l’uguaglianza di fronte alla legge (legge che ovviamente avrebbe scritto lui ricalcando la costituzione americana), dopodichè lavora per portare il suffragio universale “insegnando” a quei poveri ignoranti che solo votando si può essere liberi e felici e così di fantasia in fantasia va avanti. In questo scritto si vedono tutti i prodromi dell’imperialismo democratico, almeno nella sua parte idealistica (che poi queste tesi vengano usate per nascondere inconfessati interessi è un’altra cosa): la volontà di “salvare” gli altri anche se gli altri non si sono minimamente sognati di chiedere nienta gli americani, anzi il dovere di “salvare” gli altri e portarli verso la democrazia americana, perchè essa è il modello perfetto a cui tutti dobbiamo assurgere e se qualcuno non lo vuole è perchè è arretrato o stupido e quindi glielo va, sempre per il suo bene, imposto con la forza e la fondamentale ignoranza degli statunitensi: l’incredibile superificialità con cui guardano ciò che è diverso da loro stessi e la visione caricaturale del medioevo europeo proposta da Twain, derubricato a un ammasso di crudeltà, superstizione e ignoranza ne è, in questo caso la più fulgida dimostrazione. Influenzati da scritti come questo, invece che civilizzare Camelot, gli americani si sentono in diritto di “civilizzare” paesi con migliaia di anni di storia e cultura. Sempre a suon di bombe.
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