La retorica del wrestling
di IL BLOG DI SABINO PACIOLLA (Giovanna Ognibeni)
Pupazzi di lottatori di Wrestling
Un ricordo d’antan: una serata di giugno 1959, alla televisione è annunciato un dramma dal titolo classico: “I figli di Medea”, di cui si sconsiglia la visione ai minori. Gettata nello sconforto – mi piacciono le tragedie greche (ebbene sì) – inizio una guerra di nervi e di posizione con mio padre che mi vuole a letto, mentre io prolungo lo sparecchiamento della tavola oltre ogni limite accettabile. Il dramma sullo schermo è ancora alle battute iniziali, quando una brusca interruzione introduce in modo assolutamente inusuale un fatto di cronaca sconvolgente: l’annunciatrice spiega che l’attore Enrico Maria Salerno ha rapito il figlio per sottrarlo alla madre, Alida Valli, che sta appunto interpretando il ruolo di Medea. Da lì il registro cambia e diviene uno sceneggiato alla Tennessee Williams, con lunghi monologhi e impennate drammatiche.
Di ciò non posso dire nulla perché probabilmente mio padre riuscì a cacciarmi via, però ricordo ancora con vivezza che il funzionario di polizia, che rivolgeva un preoccupato appello ai telespettatori, era un attore, Tino Bianchi, caratterista in quegli anni molto presente nelle produzioni di prosa della Rai, commedie, sceneggiati e teleromanzi.
Ora, ragazzetta decenne, probabilmente saccente, mi accorsi subito che il re era nudo, per così dire, mentre sembrò che mezza Italia ci fosse cascata a piè pari. Ed anche i miei genitori, nonostante non fossero in fondo sprovveduti, caddero nella trappola, perfino mio padre che era di cultura medio-alta e che, benché non avesse fatto il militare a Cuneo, tuttavia viaggiava molto per lavoro; era inoltre di spirito molto critico e combattivo verso le istituzioni. Quando manifestai loro il mio sconcerto rimasero un momento perplessi, ma poi ipotizzarono che si fosse scelto un attore per qualche ragione ‘tecnica’.
Gli ideatori del programma si erano riallacciati in qualche modo alla geniale e sulfurea trasmissione messa in onda dall’enfant terribile Orson Welles nel 1939, in un certo senso in una versione più casalinga, più nazionalpopolare, che perciò non provocò nessun exploit pubblicitario, e tuttavia spostava la bandierina dell’abuso di credulità popolare più in alto.
Perché oltreoceano si trattava in fondo di una storia di fantascienza, che nel clima del dopoguerra aveva una sua credibilità e che non poteva avere riscontri immediati, qua invece la verosimiglianza della narrazione era smentita dalla presenza di almeno due o tre attori riconoscibili dal pubblico.
L’aura di verità era costruita sulla partecipazione alla storia della popolarissima annunciatrice Nicoletta Orsomando, e dal fatto che l’attore Salerno aveva avuto non molti mesi prima una figlia con un’attrice popolare, Valeria Valeri. Il gioco di assonanze aveva quindi funzionato, eppure, a distanza di più di sessant’anni, mi riesce difficile capire come sia stato possibile un gioco di prestigio che lasciava intravedere così platealmente le carte nella manica.
Eppure devo ricredermi, perché appunto ora, dopo tutti quegli anni questo gioco viene ripetuto quotidianamente benché, come direbbero i più cool tra noi, la grammatica del linguaggio televisivo sia ampiamente conosciuta.
Sempre più la televisione è diventata la presenza rassicurante, quasi materna ma con una punta di occhiuta insegnante che ti mette immediatamente al tuo posto, di una novella Orsomando, che annuncia ma anche ammonisce. La televisione è sempre stata percorsa da una forte vena pedagogica, è sempre stata maestra, solo che bisogna contemplare la possibilità che sia una pessima maestra.
Ha ereditato dalla pubblicistica il ruolo, il destino, la missione (?!) di istruire ed educare il popolo, e lo fa con le figure, come nelle antiche chiese si faceva con gli affreschi, per narrare storie ed esempi per immagini, perché il popolo, ora come allora, è analfabeta. Oggi si parla di analfabeta funzionale; personalmente non metterei la mano sul fuoco su quell’aggettivo, funzionale.
Passando da una classe all’altra, si sa, cambia il sussidiario, ma l’impostazione è sempre la stessa. Prima la pandemia, ora la guerra in Ucraina, sempre in emergenza, elmetto e moschetto pronti. E lo stesso schema visivo: gli affreschi sulla parete del monitor, prima camion dell’esercito in corteo notturno, medici con mascherina abbassata, infermieri in tenuta da “Virus Letale” (ma in quei giorni circolavano nella stessa tenuta anche i netturbini) e trombe che suonano nelle strade deserte; in primo piano i gruppi scultorei degli opinionisti a spargere ansia e terrore a piene mani.
Analogamente, in questi ultimi giorni va in scena la rappresentazione della guerra, bombe, scoppi, incendi e carovane di profughi, e in primo piano sempre lo stesso gruppo, ma non le stesse persone, ché già covano malumori ed invidie, a parlare.
Non voglio essere irriverente: la malattia e la morte, la paura, lo strazio dei corpi e lo strazio delle vite, case, beni, usanze relazioni che in un momento si sgretolano come sabbia, rappresentano, sono l’infelicità ed il mysterium iniquitatis che sempre ci insidiano e talvolta ci travolgono.
Ma in questo terzo anno di peste e guerra, noi non abbiamo in realtà a che fare con l’epidemia reale, ma con quella percepita, e allo stesso modo con una guerra ugualmente percepita.
Si è cominciato qualche anno fa con la storia della temperatura percepita, perché non bastava più la misurazione secca, neutra di uno strumento “scientifico”, ma era necessario caricare di pathos il caldo estivo, cosicché ognuno potesse partecipare allo psicodramma del riscaldamento globale (infatti non si parla mai del freddo percepito dai calli del povero nonno). Dalla bomba d’acqua si è passati alle bombe vere e proprie, dalle ondate di calore a quelle dei profughi.
Delle cause della guerra non dirò nulla, innanzi tutto perché se prima eravamo un popolo di santi, poeti, navigatori, di allenatori ora, dopo che i più hanno letto “L’Arte della Guerra”, libro che possiede il rimarchevole pregio della brevità, anche di fini strateghi; in secondo luogo devo ancora considerare se e quando una guerra sia santa o giusta o democratica e quando vile imperialismo.
Ciò che mi preme sottolineare è l’aspetto del pubblico discorso, che diventa inevitabilmente il pubblico pensiero, e poi discende nelle coscienze individuali, come aria di montagna o fetido miasma.
E di questa responsabilità faccio carico non tanto all’inventore della televisione (forse innocente come il medico Guillotin, inventore per scopi umanitari della ghigliottina), quanto a ciò che di fatto la televisione è (e lo è da parecchi decenni), l’ipnotico più potente prima che arrivi il fantastico soma del New Brave World.
Solo nei sogni funziona la rottura dei nessi causali e spazio temporali.
Solo nella televisione funziona la rottura, lo scollamento tra ragione, logica e ciò che si dice. È il trionfo della nuova retorica, il definitivo successo degli insegnamenti dei guru d’india negli anni ’70 cui si abbeveravano giovani di tutto l’Occidente, dai Beatles in giù, giustamente annoiati dalle incongruenze del Cristianesimo e in estatica ammirazione per dottrine che asserivano nel contempo una cosa e il suo contrario. Anche la Chiesa, che ha per sua prerogativa di arrivare sempre in imbarazzante ritardo, pochi anni fa per bocca di un suo nouvel thèologicien proclamava che qualche volta 2+2 fa 5.
Tutto sta dentro, tutto può entrarci come nello stufato all’irlandese di jeromiana memoria. Ora vogliono spezzare le reni all’infame plutocratica Russia, ieri volevano debellare il virus. E se qualcuno obietta, è un vile traditore o il nemico che ascolta. Chisseneimporta se il vaccino in quanto tale è farlocco quanto mai è stato un altro, chisseneimporta se Zelensky è un po’ sul nazi-nostalgico andante con brio, se da 8 anni l’Ucraina bombarda il Donbass: potete dire, dimostrare provare sino alla noia queste cose, non scalfirete neppure lievemente il cristallo lucente della loro rappresentazione. Sono su due piani che non hanno nessun punto in comune.
È lo schema del wrestling, laddove non puoi tracciare alcuna linea di confine tra realtà e finzione, a meno che tu non appartenga a quel business; ma tanto piace lo stesso all’eterno dodicenne (ora l’età media sta calando) qual è il telespettatore medio. Nessuno si chiede se sia o cosa ci sia di vero, basta che emozioni.
Chiamale se vuoi emozioni. Di emozione in emozione verrà un giorno in cui ci troveremo a batterci il petto davanti a un monolite nero.
E per rispettare il ruolo di Cassandra, e così chiudo il cerchio, eccovi la frase attribuita a Ninon de Lenclos e rivolta ad uno dei suoi amanti: “Signore, voi non mi amate più: credete a quel che vedete e non a ciò che vi dico io!”.
Forse sarebbe il caso di smaliziarci un poco nei confronti di questa nostra seduttrice, per non fare la fine di quel pover’uomo.
FONTE: https://www.sabinopaciolla.com/la-retorica-del-wrestling/
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