Nasci socialista, muori liberale
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Gianmaria Vianova)
Entro la fine di gennaio conosceremo il nome del candidato “socialista” all’Eliseo. Le primarie francesi permettono di apprezzare le due anime della sinistra, quella liberale e quella appunto socialista, ma soprattutto come la prima abbia preso il sopravvento sulla seconda nell’ultimo atto del XX secolo.
Il 22 e il 29 gennaio il centrosinistra francese eleggerà il proprio candidato per le presidenziali. Tra i sette candidati senza dubbio sono degni di nota l’ex Primo Ministro Manuel Valls e Arnaud Montebourg. Il primo, dicono i sondaggi, sarebbe il favorito. Lui, Valls, il favorito, è uno degli ultimi esemplari della sinistra radical-chic e liberale che tanto ha imperversato negli anni ‘90 e 2000, ora sul viale del tramonto. L’altro, Montebourg, è l’outsider che non ti aspetti o di cui probabilmente ti eri dimenticato/a. Si tratta dell’ex Ministro dell’Economia, divenuto appunto “ex” nell’estate del 2014, perché aveva espresso posizioni troppo keynesiane, socialiste e di rottura nei confronti dell’asse franco-tedesco. Fu, in sostanza, cacciato da un Hollande che a colpi di rimpasto aveva giustiziato tutti i dissidenti al di qua del suo fossato. Ora: con ogni probabilità le primarie della gauche saranno una mera formalitàtutta interna alla gauche stessa, in quanto secondo tutti i sondaggi e con largo margine il prossimo Presidente della Repubblica francese arriverà da destra.
Il centrosinistra francese è affondato sotto ai colpi di politiche economiche fallimentari che non sono state in grado di apportare una reale ripresa. La preferenza della popolazione verterà sul liberista Fillon(centrodestra) e sulla nazionalista Le Pen, quest’ultima probabilmente messa all’angolo e isolata al secondo turno. Lo scontro Valls-Montebourg è sintomatico della frattura insita nella sinistra francese ma in sostanza condivisa da tutto l’occidente. A partire dagli anni ‘80 l’ala socialista e quella liberale (nonostante appartengano entrambe al “partito socialista”) imboccano strade diverse e, inevitabilmente, si perdono di vista. Il fatto che tale tendenza sia stata pressoché universale permette di comprendere come l’origine della scissione non sia di natura nazionale, bensì extra-politica, sovra-nazionale e prettamente ideologica. È nell’atto della precomprensione che la realtà è stata alterata e nella rinnovata forma mentis che si cela la perdita della fame di diritti sociali, uguaglianza e benessere diffuso. A monte del venir meno di forti partiti politici dell’area socialista c’è, lapalissianamente, la teoria economica. La struttura, diceva Marx, sulla quale la sovrastruttura si determina.
Il declino della sinistra pianta le sue radici negli anni ‘70 del secolo scorso. È il decennio in cui si afferma la scuola monetarista di Milton Friedman, decisa a spazzare via Keynes da libri di testo e agende politiche di tutto il mondo. Non si tratta solo di due dottrine accademiche opposte bensì di opposte visioni del mondo. Friedman fu, di fatto, il più influente ambasciatore del neoliberismo nell’occidente. Non bisogna dimenticare il contesto in cui il suo pensiero esplose: nel 1971 Nixon interruppe la conversione Dollaro-Oro, mettendo fine agli accordi di Bretton Woods. Sono gli anni della fine della guerra in Vietnam e dell’insostenibilità del cambio fisso. Le monete cominciano a fluttuare liberamente e le banche centrali acquistano maggiori competenze in termini di politica monetaria. È in quel contesto che nelle economie occidentali si palesa una forte inflazione, sovente in doppia cifra, che caratterizzerà l’intero decennio. In questo caos si afferma la teoria neoliberista: la colpa è dello Stato che, intervenendo, compromette l’equilibrio di mercato. Lo Stato deve farsi da parte, dicono loro. Le cose, in realtà, non stavano propriamente così. I monetaristi non hanno mai mancato di ignorare la congiuntura esterna in cui il rialzo dei prezzi si manifestò. Nel 1973 e nel 1979 l’occidente subisce due devastanti crisi petrolifere: la prima con la guerra del Kippur, la seconda con la rivoluzione iraniana. Tali eventi portarono, come prevedibile, ad un consistente aumento del prezzo del petrolio: esso triplicò nel ‘73 e quadruplicò nel ‘79. L’occidente importatore ha quindi scaricato sui prezzi interni gli shock petroliferi.
Il danno ormai era fatto. Le responsabilità furono scaricate interamente sull’apparato statale, sul governo, che doveva limitarsi, da quel momento in poi, a garantire le libertà economiche. Le rigidità andavano rimosse in favore delle flessibilità. Il ruolo di regolatore doveva essere assegnato al mercato, non all’inefficiente settore pubblico. Saranno state le forti discontinuità con l’interventismo economico di Keynes, il fascino della perennemente travisata “mano invisibile” di Smith oppure il bisogno di una nuova chiave di lettura anti-inflazionistica: sta di fatto che la dottrina di Friedman attecchì. Apripista fu il Cile di Pinochet, che accolse a braccia aperte l’economista e la sua dottrina. Cinquecento imprese di Stato privatizzate, abolizione delle tariffe sulle importazioni, spesa governativa ridotta in maniera consistente e mercato liberalizzato. A fronte di un immediato boom economico, dovuto principalmente all’afflusso di capitali esteri, le classi sociali deboli soffrirono. In quegli anni si registra un costo della vita quadruplicato, aumento delle disuguaglianze e una disoccupazione oltre il 30%. La fetta di popolazione sotto la soglia di povertà passò dal 20% al 44% nell’arco del decennio. Eppure il boom fu sulla bocca di tutti, non la disuguaglianza generata.
Il mito della supply-side economy, ossessionato dal culto dell’offerta e dall’oblio della domanda interna, era ormai stato creato. I consumi smisero di essere sostenuti: «l’offerta genererà sempre la disponibilità sufficiente a soddisfarla». Due i personaggi che, su tutti, furono colpiti dal fascino della scuola di Chicago: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Repubblicano il primo, conservatrice la seconda, rappresentano senza dubbio le anime politiche più celebri ed emblematiche degli anni ‘80. Governarono il loro Paese rispettivamente per otto e undici anni, attuando quella deregulation tanto ambita dai monetaristi e dal grande capitale. Furono eletti, entrambi, con un programma elettorale anti-Stato: i cittadini sono esasperati dall’alta inflazione, dovuta a fattori esogeni, e danno loro retta. La colpa è tutta dello Stato. Con il “miracolo” cileno a fare da esempio e il detonatore dell’inefficienza del settore pubblico stravincono. Sinistra non pervenuta. È in quell’esatto momento che la sinistra, appunto, dà il via alla propria metamorfosi: ciò che piace all’elettorato è il neoliberismo, la formula economica che funziona è il neoliberismo. Il neoliberismo deve essere alla base di ogni proposta, pensiero e riflessione.
«La società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. E il governo non può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono guardare per prime a sé stesse. È nostro dovere badare prima a noi stessi e poi badare anche ai nostri vicini»
(M. Thatcher – 23 settembre 1987)
Il risparmio privato cede il passo al debito privato: l’ambizione muove il consumatore degli anni ‘80. E’ l’individualismo più esasperato quello che imperversa al termine del decennio. Affermare la non esistenza della società implica il disprezzo per qualsiasi intervento della sfera pubblica nell’economia. Le disuguaglianze diventano la normalità in una cultura che si prostra alla fittizia meritocrazia. Durante il decennio, il tasso di crescita del reddito degli inglesi è il più basso dal dopoguerra mentre quello del 10% più ricco è il più alto. Il 10% più povero vede contrarsi il proprio reddito. Mentre due terzi delle industrie pubbliche vengono vendute ai privati per mano della Thatcher, negli Stati Uniti il tasso di crescita del PIL nel decennio risulterà inferiore a quello registrato durante le crisi petrolifere (alta inflazione). Reagan taglierà, al netto della propaganda mediatica, solamente dell’1% la spesa pubblica USA perdendo però consistente parte del welfare system e guadagnando un esponenziale aumento del debito pubblico. È il mercato bellezza, e l’inebriante sensazione di finta prosperità mise a tacere i dubbi della classe operaia.
Ma anche questo non importa. Il neoliberismo è stato venduto alla grande, diventando imprescindibile. Persino la sinistra non ne ha potuto fare a meno. Il socialismo reale è sostanzialmente scomparso. Basta guardarsi attorno. In Italia c’è il Partito Democratico, firmatario del Fiscal Compact e del Jobs Act. In Francia il “socialista” Valls, che approva con colpi di mano la Loi Travail. In Spagna Rajoy e i gatekeeper di Podemos. In Grecia troviamo Tsipras, anch’egli autore di tagli alla spesa e aumenti di tasse. Razionalizzando: la sinistra è diventata garante dell’ordine neoliberale, in favore del capitale e di teorie economiche che non hanno mai, sostanzialmente, funzionato. La sinistra liberale si è tramutata in una brutta copia di quella destra conservatrice che fece furore negli anni ‘80:
La fame di potere, come la fame di ricchezza, rende ciechi
Unitamente al fenomeno neoliberista si è assistito alla regressione dei sindacati. Deboli, con sempre meno iscritti, si limitano alle medesime azioni del passato (cortei, scioperi, ecc…) senza però la pretesa di portare a casa un risultato. Essi hanno assistito impotenti all’introduzione di flessibilità sul mercato del lavoro in tutte le economie avanzate. D’altronde la disaffezione all’associazionismo si può anche riscontrare con il crollo degli iscritti ai partiti. In Francia, ad esempio, tra il 1978 e il 1999 la riduzione è del 64,5%: un milione di persone. A soffrirne maggiormente sono, guarda caso, i partiti della sinistra socialista e comunista che dell’unione dei salariati hanno sempre fatto il proprio cavallo di battaglia. Annichilita l’ideologia, il mercato si appropria anche della gestione partitica. Come sottolinea Loretta Napoleoni in “Maonomics”:
«A questo punto entrano in scena i finanziatori privati, gli sponsor, ricchi individui che sostengono la causa politica di un gruppo piuttosto che di un altro. E che […] promuovono nel partito di loro scelta la visione del mercato che trovano più conveniente»
Napoleoni porta come esempio il New Labour inglese che, negli anni ‘70, riceveva il 49% degli introiti dalle iscrizioni, mentre nel 2004 il loro contributo era sceso all’8%. Disgregata l’umanità e l’interesse degli umani lavoratori, entra in campo l’interesse del capitale. Spietato. Tony Blair, nel 2006, era costretto a giustificarsi di fronte al “pentimento” di dodici potenti uomini d’affari che fornivano un contributo di oltre 6 milioni di sterline al suo partito. Da soli. Come può un partito essere indipendente dalle ingerenze ed occuparsi di chi il finanziamento non lo può elargire? Non può, semplicemente. Sono i privati a dettare l’agenda. L’amore per il libero scambio, le delocalizzazioni, il dumping. I danni di questa conversione, oltre che economici, si riversano nella sfera ideologica: gli elettori che si sono sempre identificati nei valori della sinistra votano, per inerzia, i medesimi partiti di sinistra che sono passati al lato oscuro del capitale. Questi ultimi, mantenendo sufficienti consensi, non percepiscono la necessità di cambiare registro. Con loro anche l’intellighenzia satellite, prostrata di fronte alla new left. Caso emblematico quello italiano, con il PD, ma anche greco, con Syriza. In Francia la questione è diversa: l’estrema destra di Marine Le Pen ha esplicitamente assunto le sembianze della sinistra che Valls e Hollande avrebbero dovuto incarnare. Come c’è riuscita? Con l’antieuropeismo.
È l’UE, infatti, uno dei baluardi più esasperatamente difesi dalla sinistra radical chic. Fratellanza, globalismo ed Erasmus sono i valori spesso sbandierati ma scevri di reale significato. Con l’austerità aggressiva e la necessità di scaricare sui salari gli squilibri derivanti dalla moneta unica, Bruxelles ha cominciato ad indossare le vesti di difensore del neoliberismo. A farne le spese sono state naturalmente le classi più deboli ormai prive di qualsivoglia difesa concreta e rappresentanza. Il male della sinistra moderna è l’allineamento con la destra liberale su temi economici come privatizzazioni, flessibilità ma altresì libera circolazione di persone e capitali. Queste ultime due libertà, amiche del profitto facile, hanno poi alterato e condizionato il pensiero comune: cosmopolitismo, rimozione dei confini, repulsione per i sentimenti nazionalisti e diritti “cosmetici” per tutti. Globalizzazione come conquista da difendere. Qui sorge il paradosso principe: la sinistra si è schierata in favore dell’abbattimento di ogni confine nazionale senza al contempo agire sulla difesa dei diritti sociali. I diritti sociali, al termine del XX secolo, diventano un peso. Al loro posto sono i diritti civili a dover essere tutelati: diritti che non intaccano la finanza dello Stato e non alterano l’equilibrio di mercato.
Oggi è universalmente chiaro come la globalizzazione forzata e selvaggia sia stata un’utile strumento per il grande capitale di fiorire a discapito della piccola impresa e della condizione del salariato. La sinistra, sostenendo tale progetto, ha finito per eliminare sé stessa. Affamata di consensi ha scimmiottato il monetarismo smart di Reagan e Thatcher (disastroso per la condizione umana) lasciando alla propria sinistra un vuoto, colmato dagli estremismi definiti populisti. Quindi sì, le primarie in Francia vengono ancora chiamate socialiste ma il socialismo reale è morto. Sua prerogativa era l’uguaglianza all’interno della società, prerogativa caduta nell’oblio e mai più ripescata. Le libertà, quelle economiche e non personali, devono essere limitate in favore di un livello minimo sufficiente a garantire una esistenza decorosa anche alla classe più debole della popolazione. O perlomeno questo è un discorso che la sinistra dovrebbe urlare nelle piazze gremite. Non pervenuto.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/nasci-socialista-muori-liberale/
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