L’uomo senza tempo
di NICOLA DI CESARE (FSI Cagliari)
L’essere senza tempo è una condizione umana che trae origine dalla “monetizzazione” del tempo come fattore di produzione, responsabile della modificazione delle strutture produttive e dei livelli di consumo del mondo occidentale prima e del mondo globale poi.
Il tempo è sempre più un bene che, come tutti i beni, risulta essere “scarso” e sul quale l’individuo deve operare delle scelte sul suo proficuo utilizzo; tuttavia, con l’acuirsi della mercatizzazione delle coscienze, il campo di tali scelte si è sempre più ristretto e costretto tra opzioni di mera sussistenza, generando il contingentamento del tempo individuale disponibile.
La struttura sociale produttivistica impone ormai al 95% degli individui, come vincolo al sostentamento, due alternative; o l’opzione “sopravvivi”, come accezione di soddisfacimento dei soli bisogni primari, o quella “non sopravvivi” che prevede l’uso del tempo per la cura della propria relazione con se stesso e il mondo esterno.
Il denaro è divenuto strutturalmente l’unico mezzo per comprare il proprio tempo e la propria libertà intellettuale in sostituzione della proprietà materiale, tuttavia per ottenerlo, è necessario paradossalmente perdere altro tempo a meno che non si sfrutti il tempo (vita) altrui nella generazione del profitto.
Produrre di più in meno tempo per consumare di più e velocemente al fine di rinnovare, in un circolo vizioso infinito, la corsa verso la costruzione di un mondo grasso e senza riflessione, senza pensiero, senza il senso di se, inconsapevole del mondo reale; sacrificare così alla produzione e al consumo il tempo per aderire alla realtà circostante e coltivare i rapporti umani.
Non a caso l’ultima generazione etero diretta di pseudo contratti collettivi di lavoro sono stati stipulati, da una lato comprimendo il salario, e dall’altro gli spazi di vita dei lavoratori, con l’aumento della discrezionalità delle imprese nell’uso indiscriminato dei tempi di vita dei “dipendenti”. Il solo parlare di “tempi di vita” esplicita tutto il significato di condizionamento delle scelte dei “sommersi dalla preponderanza del profitto”.
Il nuovo disperso “uomo senza tempo” non è più il “gorilla ammaestrato di Taylor” ricordato da Gramsci in “Americanismo e Fordismo”, privato di umanità e spiritualità sull’altare della produttività, ma un individuo al quale, oltre al vivere la dissociazione tra prodotto e lavoro, si è aggiunta la sottrazione della sue relazioni sociali, anch’esse assurte a merce con preciso valore di mercato.
All’annullamento del “tempo di sé” (quindi non solo per sé) si è adoperata, con un’opera titanica, l’industria della vita parallela e della menzogna, in mano, manco a dirlo, alla finanza globale, sostenuta dal consumo spropositato dell’astensione dal reale, di cui la moderna multimedialità rappresenta il cardine; è così che social network, la stessa stampa mainstream e reti televisive più o meno a pagamento, videogiochi, scommesse, in associazione a ogni sorta di agente psicotico chimico a buon mercato, contribuiscono a sottrarre all’individuo quel poco di tempo residuale, impedendogli di prendere coscienza di un’ inaccettabile realtà caratterizzata dalla ubiqua disgregazione sociale. Il panem et circenses tecnologico.
La nuova violenza mediatica si nutre infatti di se stessa, autoproducendo i suoi ignari sodali in cerca di un’esistenza virtuale, avulsa dalla difficile e frustrante ricerca di relazioni umane, assuefacendoli alle più indicibili atrocità.
Oggi ci troviamo inevitabilmente a dover lottare politicamente per ricostruire i rapporti di classe sulla base di un rivisitato principio di esistenza “sociale”, il quale può essere determinato solo in un ambito confinato al perimetro nazionale, in quanto unica sede dei centri di produzione del diritto democraticamente e costituzionalmente fondati; dobbiamo impegnarci a ridefinire la scala di valori sulla base dei quali indicare quale siano i parametri del diritto ad un’esistenza degna di essere vissuta, al di là del mero dato materiale determinato dal circuito produzione-consumo, attraverso una redistribuzione che tenga conto non solo delle opzioni materiali della vita ma anche di quelle afferenti ai rapporti umani e familiari.
Ecco che quando si parla di piena occupazione si dovrebbe porre l’accento anche sulla sua qualità e sulla sua equa distribuzione sociale e territoriale, non solo in termini quantitativi e finanziari ma anche tale da garantire la serenità spirituale e relazionale dei consociati.
La politica è quindi a una svolta epocale, che la porta a non dover più solo scegliere il migliore dei mondi possibili, basati fin’ora sui vecchi rapporti materiali di classe, ma anche a dover riscrivere la legge in funzione di regole che tengano conto del diritto alla fruizione del tempo di vita, indispensabile alla coltivazione del rapporto con la propria spiritualità e con la comunità circostante.
Sullo sfondo dello scontro tra popoli e culture si scorge all’orizzonte la stanchezza e la nausea, da oriente a occidente, per modelli di produzione, distribuzione, consumo e accumulazione coercizzanti, violenti, defraudatori del tempo e della dignità umana, modelli basati sulla permanente delocalizzazione materiale e spirituale dell’essere umano sui quali la nuova politica non può che porsi interrogativi e generare ipotesi di inevitabile cambiamento; non a caso, là dove emerge la coscienza di un altro mondo possibile, le religioni, non imbrigliate dai processi politici condizionati dai rapporti di potere, guidano le rivoluzioni culturali perché intimamamente legate all’elementarietà dei bisogni umani, senza aver bisogno di spiegare se stesse.
La nuova classe dirigente che con perseveranza intendiamo costruire, conscia di questo nuovo ruolo, è in cammino; non sappiamo quanto sarà lungo ma niente e nessuno la potrà fermare.
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