Dani Rodrik: cittadini globali, imboscati nazionali
Nell’articolo di Rodrik è evidente una profonda asimmetria: si parla di universalismo contro particolarismo, di nobili mete cosmopolite e di interessi nazionali ristretti; si attribuisce alle élite globali la generosa difesa delle prime e si rimprovera loro soltanto il disimpegno dalle politiche nazionali. Così però Rodrik dimentica che nella realtà contano soltanto gli interessi, nazionali e della società civile. E la retorica dell’universalismo cosmopolita serve precisamente a trascurare che gli interessi della società civile (quelli che Marx chiama interessi di classe) sono particolari e veicoli di conflitto non meno degli interessi nazionali: il libero scambio, di cui Rodrik ignora il potenziale contrasto con le politiche di piena occupazione, finge di voler rimuovere le frontiere per impedire le guerre, in realtà è la guerra che il capitale combatte contro il lavoro, esasperando la concorrenza, cioè la guerra, tra i lavoratori.
L’articolo originale è disponibile al seguente indirizzo
https://www.project-syndicate.org/commentary/limits-of-global-citizenship-by-dani-rodrik-2017-02?referrer=/YCni2gW1Gh
Dani Rodrik
10 febbraio 2017
Traduzione di Paolo Di Remigio
Cittadini globali, imboscati nazionali
Molti sono stati colpiti lo scorso ottobre dal primo ministro inglese Theresa May quando ha denigrato l’idea di cittadinanza globale. «Se credi di essere un cittadino del mondo», ha detto, «non sei cittadino di nessun posto».
Nei media finanziari e tra i commentatori liberali la dichiarazione è stata accolta con derisione e allarme. « Oggi la forma più utile di cittadinanza», le ha rimproverato un analista, «è quella dedicata non solo al benessere di una parrocchia del Berkshire, per esempio, ma al pianeta». L’Economist ha definito «illiberale» la svolta. Un accademico l’ha accusata di ripudiare i valori illuministici e nel discorso ha avvertito «echi del 1933».
Conosco l’aspetto di un «cittadino globale»; ne vedo un esemplare perfetto ogni volta che passo davanti a uno specchio. Sono cresciuto in un paese, vivo in un altro e ho il passaporto di entrambi. Scrivo sull’economia globale e il mio lavoro mi porta in posti remoti. Passo più tempo viaggiando in altri paesi di quanto faccia all’interno di ogni paese che mi riconosce cittadino.
Molti dei miei più stretti colleghi di lavoro sono ugualmente nati all’estero. Divoro notizie internazionali, mentre i miei giornali locali restano chiusi parecchie settimane. Nello sport non ho idea di che facciano le mie squadre di casa, ma sono un tifoso appassionato di una squadra di football dall’altra parte dell’Atlantico.
Eppure la dichiarazione della May tocca una corda. Contiene una verità essenziale – ignorarla dice molto su come noi – l’élite finanziaria, politica e tecnocratica mondiale – ci distanziamo dai nostri compatrioti e perdiamo la loro fiducia.
Iniziamo dal significato attuale di «cittadino». Il Dizionario inglese di Oxford lo definisce come «un soggetto o un cittadino legalmente riconosciuto di uno Stato o di una comunità». La cittadinanza presuppone dunque un sistema di governo costituito – «uno Stato o una comunità» – di cui uno sia membro. I paesi hanno tali sistemi di governo; il mondo no.
I sostenitori della cittadinanza globale ammettono subito che non pensano a un significato letterale. Pensano in modo figurato. Le rivoluzioni tecnologiche nelle comunicazioni e la globalizzazione hanno unito i cittadini di differenti paesi, sostengono. Il mondo si è ristretto e dobbiamo agire tenendo presente le implicazioni globali. Inoltre tutti noi siamo veicolo di identità multiple, sovrapposte. La cittadinanza globale non toglie spazio – non ne ha bisogno – alle responsabilità parrocchiali o nazionali.
Tutto buono e giusto. Ma cosa fanno realmente i cittadini globali?
La cittadinanza reale implica interazione e deliberazione con altri cittadini in una comunità politica condivisa. Significa chiedere ai decisori di rendere conto, significa partecipare alla politica per dare forma ai risultati politici. Nel processo le mie idee su fini e mezzi desiderabili sono confrontate e controllate con quelli dei miei concittadini.
I cittadini globali non hanno simili diritti o responsabilità. Nessuno è tenuto a risponderne, e non c’è nessuno a cui debbano giustificarsi. Al massimo, formano comunità con individui di altri paesi che la pensano in modo simile. I loro interlocutori non sono cittadini ovunque, ma si indicano come «cittadini globali» in altri paesi.
Naturalmente, i cittadini globali hanno accesso ai loro sistemi politici nazionali per far passare le loro idee. Ma i rappresentanti politici sono eletti per far avanzare gli interessi della gente che li ha messi al loro posto. I governi nazionali vogliono essere attenti agli interessi nazionali, ed è giusto così. Questo non esclude la possibilità che gli elettori possono agire con egoismo illuminato, tenendo conto delle conseguenze sugli altri dell’azione interna.
Ma cosa succede quando il benessere dei residenti locali viene in conflitto con il benessere dei forestieri – come accade spesso? Non è precisamente la disattenzione ai loro compatrioti in queste situazioni ciò che dà cattiva fama alle cosiddette élite cosmopolite?
I cittadini globali temono che gli interessi dei diritti globali possano essere danneggiati se ogni governo persegue il proprio interesse stretto. Questo è certamente una preoccupazione per questioni che riguardano veramente i diritti globali, come il cambiamento climatico o le pandemie. Ma in molti ambiti economici – tasse, politica commerciale, stabilità finanziaria, gestione fiscale e monetaria – ciò che ha senso da una prospettiva globale ha senso anche da una prospettiva nazionale.
L’economia insegna che i paesi dovrebbero mantenere aperti i confini economici, una regolamentazione molto prudente e politiche di piena occupazione, non perché ciò sia buono per altri paesi, ma perché serve a ingrandire la torta economica nazionale.
Naturalmente i fallimenti politici – per esempio il protezionismo – si verificheranno in tutti questi ambiti. Ma questi riflettono un’amministrazione nazionale debole, non una mancanza di cosmopolitismo. Essi risulteranno o dall’incapacità delle élite politiche di convincere gli elettori nazionali dei vantaggi dell’alternativa o dalla loro mancanza di volontà di fare gli aggiustamenti per assicurare che ognuno abbia davvero vantaggi.
Nascondersi dietro il cosmopolitismo in questi casi – quando per esempio si spinge per i trattati commerciali – è un misero sostituto di battaglie politiche vincenti per loro valore. E questo svaluta la moneta del cosmopolitismo quando ne abbiamo veramente bisogno, come facciamo nella lotta contro il riscaldamento globale.
Pochi hanno esposto la tensione tra le nostre varie identità – locale, nazionale, globale – con tanto intuito come il filosofo Kwame Anthony Appiah. In quest’epoca di «sfide planetarie e di interconnessione tra paesi », ha scritto in risposta alla dichiarazione della May, «non c’è stato mai tanto bisogno di un senso del destino umano condiviso». È difficile non essere d’accordo.
Eppure il cosmopolitismo dà spesso l’impressione di essere come il personaggio dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij che scopre di amare più l’umanità in generale, meno la gente in particolare. I cittadini globali dovrebbero temere che le loro nobili mete non si rovescino in una scusa per sottrarsi ai loro doveri verso i compatrioti.
Dobbiamo vivere nel mondo che abbiamo, con tutte le sue divisioni politiche, e non nel mondo che desideriamo avere. Il modo migliore per servire gli interessi globali è di essere all’altezza delle nostre responsabilità all’interno delle istituzioni politiche che contano: quelle che esistono.
Dani Rodrik è professore di Economia politica internazione alla John F. Kennedy School of Government della Harvard University. È autore di The Globalization Paradox: Democracy and the Future of the World Economy e, più recentemente, di Economics Rules: The Rights and Wrongs of the Dismal Science.
Dani Rodrik è soltanto un critico moderato della globalizzazione e come tale resta un avversario ideologico.