Report e la contraddizione insanabile
di Claudio Martini
La trasmissione Report, diretta e condotta della giornalista Milena Gabanelli, è uno de programmi di informazione e approfondimento più autorevoli e rispettati del nostro panorama mediatico. Anno dopo anno, la qualità dei servizi e il coraggio delle inchieste hanno fatto di Report un vero e proprio punto di riferimento per un gran numero di cittadini, specialmente fra quelli appartenenti all'area democratica e progressista. Tuttavia, siamo costretti a constatare che la trasmissione e chi la dirige approfittano del credito conquistato in anni di onesto servizio per confondere gli spettatori contrabbandando squallida propaganda in luogo di genuina informazione.
I fatti
Domenica 12 giugno Report ha mandato in onda "Let's make money", un notevole documentario opera del regista tedesco Erwin Wagenhofer, realizzato avvalendosi delle testimonianze di autori come Jan Christensen e John Perkins. Il documentario mostra in maniera limpida e efficace le meraviglie e gli orrori del mercato internazionale, mercato di materie prime e oggetti, ma anche di prodotti finanziari, di depositi bancari, di investimenti agevolati. Lo sviluppo, diceva Eduardo Galeano, è un viaggio con più naufraghi che naviganti; nel film di Wagenhofer vengono affrontate le fortune degli uni e le disgrazie degli altri, ed è ben visibile la fantasmagorica rete di interessi, astuzie, intrighi e miserie che dal Ghana a Vienna, dall'America a Singapore tutti ci avvolge e, in misura diversa, ci imprigiona. Chiara e vibrante è la denuncia di un sistema che, non contento di aggredire e rapinare, ha il coraggio di proclamarsi "fine della Storia".
Dopo aver assistito ad un simile spettacolo, la miglior parte degli spettatori deve aver pensato: questo sistema è terribile, è anti-umano; andrebbe spazzato via. Nella razionalità dell'uomo medio, al disvelamento di un guasto, di una malattia, di un ingiustizia nascosta segue l'ingegnarsi per trovare un rimedio, una cura.
Il documentario non indica vie d'uscita: cerca di toccare le coscienze, ma non può suggerire il da farsi. Nella sua narrazione risultano però con estrema evidenza alcune nozioni fondamentali: troppa gente soffre, troppa è ingannata; la madre della truffa e del dolore è la globalizzazione-e la globalizzazione è al servizio permanente effettivo degli Stati Uniti d'America.
A questo punto lampadine potrebbero e dovrebbero accendersi, catene di ragionamenti saldarsi, idee svilupparsi. Lo spettatore è ad un passo dal conoscere, e a due dal deliberare. Ma all'improvviso, la fiammata della comprensione si rovescia nel suo contrario, e i vapori della propaganda si manifestano con tutto il loro fetore.
Un documento esclusivo, un inedito viene proposto al pubblico. Lo spettatore che ancora ripensava alle spietate frodi finanziarie e alla miseria in India viene sbattuto in Libia, sulla strada che da Tripoli porta Bengasi. Il generale Warfali, "noto per la sua brutalità", ha fatto girare da uno dei suoi sottoposti un video che documenta l'avanzata trionfale delle truppe della Jamahiryya. Il video, secondo le parole del commentatore italiano, sarebbe stato destinato a Muhammar Gheddafi in persona, il quale pretende "una prova della fedeltà dei suoi comandanti". Siamo a metà marzo, la rivolta armata perdura da quasi un mese, ma l'imbarazzante inferiorità dei ribelli in termini di armamenti, organizzazione e sostegno popolare non lascia dubbi sull'esito della lotta. I soldati libici ne sono consapevoli, e per l'intera durata del video ufficiali e truppa ridono, cantano e scherzano. Sembra una gita. Ancora nessuna bomba umanitaria si è abbattuta su di loro.
I momenti salienti del video sono due: il rastrellamento e l'esecuzione.
L'esercito libico entra in una città, non importa quale. I soldati percorrono le strade deserte e assolate armi in pungo, salutati da alcuni portoni da intere famiglie, con grida e bandiere verdi. I militari si imbattono in un folto gruppo di giovani, anch'essi urlanti. Viene loro intimato di mettersi ginocchioni, le mani dietro la nuca. Ha inizio un sommario interrogatorio: i soldati chiedono a quelli che ormai vanno considerati prigionieri da quali città provengano, e che ci facciano lì. Chi non risponde con prontezza viene preso a calci o percosso coi fucili. Fra i prigionieri c'è un vecchio, e un ufficiale ordina di risparmiargli il trattamento. Un altra scena ritrae un ragazzo, gravemente ferito a entrambe le gambe, a cui un militare intima di inneggiare a Gheddafi.
Scena di ordinaria violenza bellica. Anzi, nemmeno così ordinaria: direi sotto la media. Per mia fortuna non ho mai dovuto vissuto un combattimento, ma ad alcune scene di violenza ho avuto comunque l'onore di assistere. Nella mia città, Genova, dieci anni fa le forze dell'ordine si sono abbandonate a brutalità ben maggiori di quelle documentate dal video del "rastrellamento". Non è una boutade: confrontate le scene. Cercate i video di allora, e fate il paragone. Poi, chiedetevi cosa accadrebbe se, fatte le debite proporzioni, un guerra civile scoppiasse qui da noi.
Le immagine successive mostrano una raccapricciante serie di cadaveri, stesi proni l'uno accanto all'altro, le mani legate dietro la schiena. I corpi indossano una divisa verde-oliva. La qualità del video è molto bassa, sembra una ripresa da telefonino, eppure sono disitnguibili le sanguinolente ferite ai crani dei disgraziati: uccisi con un colpo alla testa. IL commentatore afferma che si tratta di guardie di un pozzo di petrolio giustiziate per non aver voluto sparare sui ribelli in occasioni di un loro attacco all'installazione petrolifera.
Ma questo è assurdo.
Secondo il commentatore, le installazioni di petrolio sono state attaccate dai ribelli, e le guardie (armate) sono state giustiziate… da chi? Chiunque direbbe: dai ribelli. Questa conclusione sembrerebbe confermata dalle voci dei soldato libici, che parlando dei cadaveri dicono "ecco, guarda, qui li hanno ammazzati… li hanno fucilati… ci sono i proiettili". Inoltre, verso la fine del filmato è visibilissimo il soccorso portato dai militari all'unico scampato all'eccidio. Il commentatore invece, con una notevole contorsione mentale, sostiene che i colpevoli sono stati nientemeno che gli uomini di Gheddafi. Insomma, l'esercito libico prima lascia ai ribelli il controllo dei pozzi, ritirandosi dopo aver sparato sulle proprie unità. Nel periodo in cui il luogo è sotto il loro controllo, i bravi ribelli non trovano il tempo di dare una degna sepoltura a chi si è così generosamente sacrificato per loro. Alla fine la masnada di Gheddafi torna sul luogo del delitto riuscendo inspiegabilmente ad allontanare i ribelli dai pozzi. Logico, no?
Al termine della trasmissione Milena Gabanelli riporta senza commenti le incredibili affermazioni del Procuratore Generale della Corte dell'Aja, Moreno Ocampo, secondo il quale Gheddafi avrebbe distribuito viagra ai propri soldati per favorirne la propensione allo stupro (sic), e afferma che "pare che anche i bomabdamenti NATO abbiano provocato vittime civili". "Pare". "Anche".
In conclusione: Report ha mandato in onda un video in cui compare banco di mele indiscutibilmente mature con una voce di sottofondo che sibila "quella che state guardando è un immondo cumulo di mele marce". Il documento, che in sé non mostra nulla che non sia l'efficienza dell'esercito libico nel percorre un autostrada ci pick-up sparando razzi Katjuscia, diventa un formidabile atto di accusa contro Gheddafi soltanto dopo la sapiente manipolazione operata dalla redazione di Milena Gabanelli.
Non c'è dubbio: la trasmissione Report si è coscientemente messa al servizio della campagna diffamatoria agitata delle potenze bombardarci, coerente in questo con le direttive dei referenti politici (PD) dell rete di cui è ospite.
Ciò purtroppo appartiene ad un preciso filone culturale. Vediamo quale.
Il punto da capire
Ecco la contraddizione insanabile: porsi in contrasto con la rete mondiale di rapporti di capitalistici di produzione e dominio e contemporaneamente essere contro i governi sovrani che cercano di sfuggirvi. Denunciare i ladri e sbraitare contro le guardie. La critica della globalizzazione, che spesso sconfina nella critica allo stesso capitalismo, coincide qui con la inoppugnabile condanna dei "regimi" negatori della libertà dei popoli. E’ così abbastanza normale che la stessa acredine venga impiegata contro la Monsanto e contro i dirigenti cinesi, contro la vorace finanza speculatrice e contro l'esotico dittatore di turno. Non si riesce a stabilire un collegamento tra il fatto che la globalizzazione neghi i diritti sociali, e che "regimi" come quelli di Gheddafi invece li difendano, e si finisce per non mettere a fuoco la contrapposizione tra il dominio del capitalismo internazionale (ma quasi sempre bianco e cristiano) e gli stati sovrani che vi si sottraggono. Questo atteggiamento, così diffuso presso chi crede che un "altro mondo è possibile", ha secondo me una doppia origine: un’origine ideologica, e una che potremmo definire di "costume".
La prima è da identificarsi nell'estremismo di sinistra. Con il termine estremismo Intendo qui un preciso metodo di valutazione dei fatti politici e sociali. Tale metodo prevede la costruzione di un idealtipo perfetto e modellistico, e una conseguente contestazione polemica di tutto ciò che vi si discosta. L'approccio estremista è di natura dogmatica, nel senso che prescinde da una analisi disincantata dei dati di realtà e si lascia invischiare nella melma dei sentimentalismi, delle emozioni, dei riferimenti mitici e simbolici. E’ l'attitudine tipica degli "orfani delle Guardie Rosse", di chi prova disgusto per la Cina che si emancipa e progredisce e prova nostalgia per una Cina paese misero e disordinato, ma avvolta da innumerevoli drappi rossi.
L'origine di "costume" dell'atteggiamento contradditorio che stiamo descrivendo si situa nello iato tra il flusso di informazioni sul mondo che l'uomo medio riceve e le possibilità che quest'ultimo possa agire per modificare il mondo. Noi viviamo nell'era dell'onnipotenza in astratto e nell'impotenza in concreto,
e veniamo bombardati quotidianamente con nozioni che non potremo mai utilizzare dal punto di vista pratico. Dopotutto, non c'è cosa che noi non sappiamo. Report ogni settimana si sforza di insegnarci cosa c'è da cambiare. Ma quando si arriva al fatidico "che fare?" prevale un sentimento di rassegnazione; e nel caso ci si renda davvero conto a quale livello bisognerebbe intervenire per sanare i guasti della globalizzazione, che è il livello delle leggi e della politica, allora subentra l'ipocondria.
In tale situazione, tre compiti sono inscritti sull'agenda di una forza d'opposizione:
1) riuscire a diffondere la consapevolezza dell'intima e profonda connessione tra le vicende della nostra vita quotidiana, anche le più minute, e i grandi eventi della geopolitica mondiale, chiarendo il legame che, attraverso il commercio globale, tiene insieme le esistenze dell'architetto boliviano e dell'oparaio gallurese;
2) far capire a quanti più cittadini possibili qual è la posta in gioco, e come sia inimmaginabile difendere i nostri diritti e, in ultima analisi, le nostre vite senza porsi il tema della conquista del potere politico e statale, qui come in Burkina Faso;
3) smascherare i media nazionali e internazionali, denunciandone le contraddizioni e le menzogne, svelando i fini politici che li portano a attaccare senza sosta certi paesi e certe forze politiche.
Al lavoro!
Ringrazio Claudio, per l'eccellente articolo. Spero che si apra non un dibattito – che cosa c'è da dibattere? – bensì una discussione analitica, che tenda ad approfondire, svolgere, al più distinguere e dunque precisare.
Articolo esemplare, che condivido con due sole eccezioni.
1)L'idea che l'idealtipo perfetto sia di appannaggio dello "estremismo di sinistra" (qualsiasi cosa questo significhi) è facilmente smontabile. Senza ricorrere alla reductio ad Hitlerum, basta citare i vari interventi di Frattini che vede di volta in volta l'idealtipo nel Gheddafi cui si bacia la mano oppure nel Rasmussen che bombarda Gheddafi. Idealtipo che serve a mantenere salda l'assoluta dipendenza del Belpaese nei confronti dell'imperialismo USA.
2) Non è compito di chi fa informazione rispondere al fatidico "che fare?". Il compito è informare, semmai. Informare su come le truppe di mercenari del Ciad assoldati da Gheddafi con la complicità dei servizi israeliani stuprino e mutilino la popolazione civile non è informazione. E' propaganda destituita da qualsiasi legame con la Realtà.
Il compito del "che fare?" non compete agli organi di informazione, compete alle unità sociali che fanno buon uso della buona informazione. Come i Valsusini, ad esempio.
Non possiamo pretendere che i giornalisti scendano in campo a fianco dei no-tav, possiamo pretendere invece che ci diano informazioni corrette su quanto sta accadendo e perchè sta accadendo. Sta poi a noi trarre le conclusioni che riteniamo più adeguate.
Le tre conclusioni mi sembrano molto valide, e per questo guardo con molto interesse agli avvenimenti della Valsusa. E' in atto uno scontro epocale tra gli interessi dei grossi gruppi capitalistici e gli interessi della gente comune. Non è uno scontro ideologico, è uno scontro di egoismi: la gente della Valsusa vuole vivere la propria vita in modo da non dover subire l'oltraggio del Progresso e della Modernità incarnata nella TAV. I capitali vogliono invece questa grande opera, che significa soldi a pioggia per tutti coloro che gravitano attorno all'area pro-tav.
Nel nostro piccolo dovremmo capire che questo è il modo corretto di affrontare le questioni. Purtroppo dichiararci autenticamente egoisti (nel senso stirneriano) significa ammissione di grettezza e cinismo. Ho cercato di spiegare cosa significhi cinismo, magari un giorno chiarirò cosa significhi essere egoisti così come lo intendeva Stirner. Questo toglie l'aria all'ideologia. E' un tentativo che vale la pena di fare, credo.