Nazismo e mercantilismo
di ALBERTO BAGNAI
Il mercantilismo è la dottrina economica che promuove un modello di crescita basato sulla spesa altrui, cioè sulle esportazioni. In quanto tale, esso è intrinsecamente nazionalista e “socialista”, cioè nazionalsocialista. Per gli amici: nazista.
Il mercantilismo è nazionalista perché si articola su una concezione perversa e aggressiva di interesse nazionale, quella che consiste nel fare l’interesse della propria nazione letteralmente a spese degli altri. Per il mercantilismo la nazione non è una comunità identificata da un percorso storico e culturale e raccolta attorno a valori condivisi. Quando questi valori sono democratici e progressisti, come quelli della nostra Costituzione (il lavoro, la limitazione di sovranità in condizioni di parità con altri Stati al fine di assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni), che male c’è a raccogliersi attorno ad essi? Solo un completo cretino, o un parlamentare di Sinistra Italiana, potrebbe biasimare il desiderio di agire un processo politico nell’unico modo in cui è possibile, cioè condividendo una lingua nella quale mediare i conflitti, o la legittima aspirazione a riconoscersi in dei principi fondanti condivisi, cioè comuni. Ma il mercantilismo non è questo: il mercantilismo è identificare la propria nazione come un outlet, e le altre nazioni come clienti, anche loro malgrado. Se chi deve comprare non vuole farlo, il mercantilismo diventa aggressione militare, colonialismo, imperialismo, europeismo…
Il mercantilismo è “socialista” (pregasi notare l’uso delle virgolette) perché per diventare l’outlet del mondo non puoi usare solo il bastone della forza militare, o almeno non sempre. Devi anche usare la carota della convenienza di prezzo. Il fatto è che questa carota finisce dove sapete, cioè nelle parti molli delle tue classi subalterne. E allora, pro bono pacis (perché la guerra è meglio farla agli altri che in casa propria), il capitalismo mercantilista gestisce il suo rapporto con le proprie classi subalterne in un modo peculiare: da un lato schiaccia le sue retribuzioni (cosa che qui abbiamo detto quando non si poteva dire), ma dall’altro supplisce con uno stato “sociale” che è, nei fatti, una massiccia manipolazione del mercato, perché altro non è che un sussidio dato alle imprese, le quali possono permettersi di pagar poco i lavoratori (tanto questi campano lo stesso) visto che c’è lo stato (nazional)sociale che ci pensa. Anche di questo abbiamo parlato quando non ne parlava nessuno, ed è quindi scusabile chi, arrivato oggi, non sappia che per noi certe cose sono chiare e archiviate (mentre la stampa di regime le sta scoprendo ora, cautamente…).
Quindi, sì, viviamo in un regime, e in un regime nazista, impreziosito delle consuete amenità.
Come nel ghetto di Lodz, anche nella periferia dell’eurozona l’umanità viene sacrificata alla produttività, che poi altro non sarebbe che il presupposto per vendere all’estero, in un assurdo gioco al ribasso nel quale il compratore viene fatalmente declassato a Untermensch, perché se compra da te è perché tu sei più produttivo e quindi “migliore”. Articolare la dialettica economica attorno alla sopraffazione commerciale (che è cosa diversa dallo scambio in condizioni di parità) non può che condurre alla violenza, ma, come nel ghetto di Lodz, anche nella periferia dell’eurozona ci sono i Chaim Rumkowski che, affascinati dalla “narraffione” dominante, illudendosi di poter essere cooptati nei ranghi dei superuomini, dei quali condividono la Weltanschauung, o semplicemente soggiacendo a un perverso calcolo nel quale l’umanità viene vilipesa relativizzando come male minore la perdita degli elementi più deboli, collaborano col regime, glorificandone le scelte, esaltandone le “regole”, nonostante queste siano contrarie a qualsiasi etica e a qualsiasi razionalità economica.
Mi riferisco, è chiaro, a quegli economisti diversamente a proprio agio con la contabilità nazionale, i quali non capiscono che non tutti i paesi possono essere esportatori netti allo stesso tempo, e che un afflusso di capitale, se non è un’eredità dello zio d’America, è un debito, perché dovrai restituirlo, il capitale, dopo averlo remunerato corrispondendo interessi o dividendi.
E, come nella Francia di Vichy, anche nell’attuale regime nazista, che in quanto regime totalitario mal tollera la libertà di espressione, fioriscono i delatori, e si sta strutturando una censura di stato. Ma in questo caso torna veramente appropriato ricordare che la storia si ripete come farsa.
Concludo con un simpatico grafico che attira la vostra attenzione su un dato del quale, chissà perché, non si parla mai. Tutti oggi sanno e dicono quello che cinque anni fa sapevamo e dicevamo solo noi, cioè che il surplus tedesco è il tumore dell’Europa. Sfugge regolarmente nel dibattito che c’è un paese non trascurabile, erede di una simpatica tradizione coloniale, che in termini di surplus estero è messo molto, ma molto peggio. Quale? Questo:
(il grafico rappresenta la media mobile a tre termini del saldo delle partite correnti in rapporto al PIL, ai sensi della Procedura sugli squilibri macroeconomici, e in rosso abbiamo la soglia, che per i surplus è al 6%).
Eh già, sono i simpatici arancioni, gli olandesi.
Due osservazioni. La prima è che esistono anche governi disarmanti nella loro trasparente ingenuità. Il governo olandese può essere annoverato fra di essi. Alla domanda “Waarom keert Nederland niet terug naar de gulden?” (Warum kehrt Holland nicht zurück nach Gulden?), il sito del governo olandese risponde candidamente che i prodotti olandesi diventerebbero troppo “duur” (teuer).
Non avete capito?
Bè, voi siete Untermenschen (non offenderò la vostra intelligenza nascondendovelo), diversamente a vostro agio con le lingue europee e con le arti del quadrivio, ma almeno, se siete qui, ve ne siete accorti!
Pensate invece al povero piddino pseudocolto, che per ostentare latitudine di visuali tiene in vista sul tavolo del salotto la traduzione dell’ultimo bestesller uiguro promosso dal Völkischer Beobachter eurista, che “ha letto” Proust (o simile traduzione) un po’ come “si fa” il morbillo, per non prenderlo più, che si annoia nelle sale da concerto (potendole frequentare solo passivamente), e che vi mostro qui in visita a Berlino intento a sfoggiare il suo fluente tedesco.
Ecco: lui, porello, non capirebbe nemmeno se glielo traducessi, e quindi non lo traduco…
Seconda osservazione: se chi esporta è bravo, come mai gli olandesi sono così scontenti e voteranno compatti per Geert Wilders? Forse che nel mondo nazionalsocialista la virtù non viene premiata, e i bravi patiscono? Non posso crederlo! Sarebbe impossibile, per un regime che ha eretto la meritocrazia a Grundnorm etica, convivere con una simile contraddizione (chiamiamola così)…
Ci deve essere sotto qualche mistero. Per scoprirlo, vi suggerisco di seguire @_polemicamente, una regazzetta (?) piuttosto sveglia e addentro alle cose arancioni, sulla cui tweetline troverete molte, moltissime chicche, inclusa quella che non vi ho tradotto sopra…
Ed ora vado: il mio tempo è molto duur, e voi ne avete avuto abbastanza!
(…domenica, da Parigi, riprendiamo il discorso…)
(…per gli intenditori: sì, ho usato “agire” in senso transitivo per far capire ai coglioni che sono di sinistra. Chi non è coglione dovrebbe capirlo dai contenuti, non dai vezz@, ma questo è un lutto che ho elaborato, e altri ne elaborerò…)
fonte: http://goofynomics.blogspot.it/2017/02/nazismo-e-mercantilismo.html
IL MERCANTILISMO SECONDO BAGNAI E UN MIO DUBBIO
Alberto Bagnai ha scritto un buon articolo sul “mercantilismo”. Accettato il regime di libero scambio, accettata la concorrenza internazionale, il mecantilismo è esattamente ciò che Bagnai descrive.
Resta tuttavia un dubbio: che per uno stato che rifiuti il liberoscambismo e ricorra alle bardature per tutelare l’economia nazionale, in particolare alla possiblità di non autorizzare importazioni di merci servizi o capitali da uno stato nei confronti del quale il paese sarebbe in deficit, il mercantilismo altrui sia totalmente innocuo.
Insomma, il mercantilismo è di fatto il fine che uno Stato ha convenienza di porsi in regime di libero scambio, quando gli Stati nei quali esporta sono senza controlli sulla libera circolazione delle merci, dei capitali, dei sevizi e delle persone, un fine che, all’interno dello Stato mercantilista, può essere socialmente accettato soltanto se lo stato sociale, come segnala Bagnai, supplisce i salari non pagati dalle imprese.
Al contrario, in un sistema in cui gli Stati non hanno rinunciato al potere di adottare le bardature contro paesi nei contronti dei quali essi sarebbero in deficit, il mercantilismo di uno Stato non può far male a nessuno, se non per colpa o scelta politica della classe dirigente dello Stato in deficit.
Se le cose stessero così, la critica del mercantilismo sarebbe una critica che implica l’accettazione del libero scambio e che forse dovrebbe essere rimossa suggerendo il recupero del controllo sulla circolazione che attraversa i confini. Quando mi capiterà l’occasione, vorrei parlarne con lo stesso Bagnai, per verificare se la mia ipotesi è fondata.