L’euro 15 anni dopo: il fact checking dell’ISPI non regge il fact checking
di VOCI DALL’ESTERO (Andrea Wollisch)
All’inizio di questa settimana l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) ha pubblicato un sedicente fact checking sull’euro che promette “un’informazione sintetica e il più possibile fondata su dati oggettivi”. In pratica, sette affermazioni sull’euro sono state definite “vere” o “false”, con brevi note esplicative. Quali che fossero le reali intenzioni degli estensori, il risultato ha poco a che vedere con un fact checking e molto più con una semplice esposizione di opinioni, poco o nulla avvalorata da dati. Ora, come ha affermato Alberto Bagnai in un articolo recentemente pubblicato su questo sito, “l’euro è uno dei più grandi successi della scienza economica: tutto quello che questa aveva previsto si è realizzato, ed esattamente nel modo in cui la scienza economica l’aveva previsto”. Commentando dunque alla luce dei dati e di quanto insegna la scienza economica i sette punti proposti dall’ISPI,
Andrea Wollisch, laureato in Economia e Scienze sociali, giunge a conclusioni decisamente diverse rispetto a quelle propagandate dall’Istituto.
di Andrea Wollisch (@BocPentito), 24 febbraio 2017
1 – L’euro ha fatto aumentare i prezzi?
Che in un’Europa dove si combatte la deflazione si tiri nuovamente fuori questa vecchia questione, significa essere ignari del dibattito. Certo che i prezzi oggi ristagnano, ma è un pessimo segno. Il tasso di inflazione dei prezzi al consumo dipende dall’incontro tra domanda e offerta di beni di consumo. L’inflazione è andata calando poiché è aumentata l’offerta (basti pensare a tutti i prodotti importati che invadono il nostro paese ormai da decenni), ma soprattutto perché è diminuita la domanda: la disoccupazione è salita e i salari reali sono fermi. Le politiche economiche imposte dai trattati europei (liberalizzazioni, privatizzazioni, riduzioni dei diritti dei lavoratori) hanno tra i loro effetti, e probabilmente tra i loro obiettivi, quello di moderare le richieste salariali dei lavoratori, che sono uno dei fattori determinanti del tasso di inflazione: se i prezzi ristagnano è perché non ci sono soldi da spendere.
Grafico: Andamento del salario reale (indice) e del tasso di inflazione: quando l’inflazione cala, i salari reali cessano di crescere.
Fonte: http://goofynomics.blogspot.it/2012/04/svalutazione-e-salari-ad-usum-piddini.html
2 – Con l’euro l’Italia ha perso sovranità monetaria?
L’Italia decise di rinunciare ad esercitare la propria sovranità monetaria con due scelte: la partecipazione allo Sme (1978) e l’adesione all’Atto unico europeo (1986) con il quale si deregolamentarono i movimenti di capitale. In questo modo la nostra capacità di fissare tassi d’interesse interni differenti e indipendenti da quelli dei sistemi finanziari esteri si affievolì molto; tuttavia in un momento di crisi come quello del 1992 fummo in grado di riprendere in mano almeno parzialmente la nostra sovranità monetaria uscendo dallo Sme e svalutando: e i risultati ci furono. Contrariamente a quanto molti avevano previsto, dopo la svalutazione l’inflazione scese (dal 5,2% del ‘92 al 4% del ‘94)[i], l’economia italiana ripartì (+2,9% nel 1995)[ii] e migliorarono sia la bilancia dei pagamenti sia la posizione netta sull’estero, come evidenziato dal grafico sottostante. E questo alla faccia della sovranità “formale” di cui parla l’ISPI.
Fonte: Relazione annuale della Banca d’Italia sul 1995, pag. 131.
Con l’Euro la possibilità di riprendersi la propria sovranità in caso di bisogno è stata esclusa.
Inoltre, bisogna considerare che una politica monetaria comune tra paesi con esigenze e obiettivi diversi non può essere ottimale per tutti contemporaneamente: difatti oggi non va più bene ai tedeschi, perché tassi così bassi stanno mettendo in difficoltà i loro fondi pensione gestiti col sistema della capitalizzazione. Tassi alti, d’altra parte, metterebbero in crisi i paesi fortemente indebitati.
3 – La moneta unica ha fatto guadagnare di più alla Germania che all’Italia?
Le riforme Hartz hanno fatto calare i salari dei lavoratori tedeschi, compensando i loro mancati guadagni con copiosi aiuti statali (e future pensioni da fame). In questo modo la Germania è riuscita ad avere un’inflazione persistentemente più bassa rispetto a tutti gli altri partner europei, guadagnando così competitività anno dopo anno ed esportando sempre di più.
In una condizione normale in cui ogni paese ha la sua moneta, di fronte a una grande richiesta di beni tedeschi la moneta nazionale tedesca si sarebbe rivalutata, rendendo i prodotti tedeschi troppo cari e riequilibrando il mercato. Grazie all’Euro, la politica tedesca ha potuto evitare una rivalutazione della propria moneta ed è stato quindi possibile per la Germania praticare quella che è in pratica una svalutazione reale competitiva e accumulare ingenti surplus di partite correnti (ovvero esportare molto più di quanto importa). In Italia è avvenuto l’opposto. Inizialmente, senza tagliare i salari, siamo andati in deficit con l’estero; successivamente, obbligati dalle istituzioni europee, abbiamo fatto “le riforme” e ora con meno diritti e un salario minore siamo tornati in attivo con l’estero, ma a costo di una drammatica compressione dell’economia, di un alto tasso di disoccupazione e di un peggioramento del rapporto tra debito pubblico e PIL.
Grafico: Divergenza dell’inflazione: l’unione monetaria raggiunge l’obiettivo della Bce solo considerando l’inflazione media.
Fonte: The Euro – A story of misunderstanding, Flassbeck e Spiecker, 2011.
Grafico: La divergenza del costo del lavoro per unità di prodotto apre un profondo gap di competitività nell’unione monetaria.
Fonte: The Euro – A story of misunderstanding, Flassbeck e Spiecker, 2011.
4 – Il ritorno alla lira farà crescere le nostre esportazioni?
Premessa: far crescere le esportazioni in questo momento non è un obiettivo sensato. Se vogliamo uscire dalla crisi, noi dobbiamo concentrarci sulla crescita della domanda interna, preoccupandoci di rimanere in equilibrio con l’estero. Ma far ripartire la domanda interna con una moneta sopravvalutata, ci porterebbe nuovamente a sbilanciarci, importando troppo.
L’Italia ha ora un leggero surplus con l’estero: in caso di ritorno alla lira, la svalutazione, nell’attuale contesto di libertà di movimento dei capitali, dipenderà dalle aspettative degli operatori rispetto alle politiche economiche che si intendono perseguire. Ciò che sarebbe certo, in ogni caso, è la rivalutazione della nuova valuta tedesca, dovuta all’enorme surplus di bilancia commerciale della Germania: e questo porterebbe a riequilibrare la situazione con l’Italia, che non si troverebbe più a dover competere con un concorrente come la Germania, che gode di una moneta sottovalutata, ovvero di una sorta di sconto fisso sui beni che esporta.
Il grafico sottostante mostra molto chiaramente come, ai tempi dello SME, in presenza di rivalutazioni del marco, il gap di produttività tra Italia e Germania regolarmente spariva (fase B-C), mentre si allargava ogni volta che la banda di oscillazione della lira veniva ridotta (fase A-B e fase C-D) o, dopo il 1996, eliminata (fase E).
Fonte: http://goofynomics.blogspot.it/2012/03/cosa-sapete-della-produttivita.html
5 – I paesi Ue fuori dall’Eurozona crescono più di quelli che stanno dentro?
I paesi dell’Ue che non fanno parte dell’eurozona sono tutti cresciuti di più, non solo quelli considerati “indietro” come ad esempio i nuovi entrati dell’Est europeo, ma anche e soprattutto quelli più avanzati come la Svezia e il Regno Unito, per non parlare poi di chi in Europa sta solo geograficamente, come la Svizzera. Un caso emblematico è rappresentato dai paesi scandinavi. Il grafico sottostante mostra chiaramente i gap di crescita dei quattro paesi, molto simili tra di loro tranne che per la rispettiva posizione verso l’Euro e la UE: Svezia e Norvegia, i paesi che crescono di più, hanno moneta propria e libera di oscillare; la Danimarca, pur non adottando l’Euro, vi ha agganciato il cambio della Corona con un rapporto piuttosto rigido (e infatti è penultima, distanziata dai primi due); ultima e in piena crisi, la Finlandia, membro UE che ha adottato l’Euro.
Fonte: http://vocidallestero.it/2016/05/31/la-grande-divergenza-scandinava/
Ma l’aspetto peggiore è la disomogeneità della crescita e in generale delle performance economiche all’interno dell’eurozona, i cui paesi membri hanno progressivamente visto divergere le proprie economie anziché convergere, come era stato promesso.
6 – Senza la moneta unica gli stati avrebbero affrontato meglio la crisi?
Il cambio flessibile è fondamentale per assorbire shock asimmetrici o compensare divergenze strutturali tra economie: la moneta unica, togliendo lo strumento della flessibilità, ha in realtà reso le economie degli stati coinvolti più fragili di fronte a crisi e squilibri.
L’Euro, inoltre, nei primi anni ha favorito l’afflusso di capitali verso la periferia dell’eurozona, facendo lievitare il debito estero di questi ultimi e gonfiare bolle speculative, fino alla crisi finanziaria americana. Il brusco arresto di questo ciclo ha creato enormi problemi finanziari, bancari e di bilancia dei pagamenti agli stati, i quali non avendo più la sovranità monetaria, e non potendo quindi agire attraverso gli strumenti che questa consente, sono stati costretti ad accettare attraverso il “fondo salva-stati” prestiti fortemente condizionati, che li hanno obbligati non solo all’austerità, ma anche e soprattutto a riformare i propri mercati del lavoro, diminuendo drasticamente le tutele, e a privatizzare importanti settori ed infrastrutture. La disoccupazione è esplosa, la domanda si è ulteriormente contratta e la crisi non ha fatto che avvitarsi su se stessa: il caso drammatico della Grecia insegna.
Inoltre buona parte di quegli stessi prestiti condizionati sono serviti per far rientrare dalle proprie esposizioni estere le banche tedesche e francesi (l’Italia ha contribuito con il 17% al fondo, pur avendo solo il 4% delle perdite bancarie derivate dalla crisi).
L’Euro ha creato le premesse per la creazione di questi istituti e per l’attuazione di politiche di deflazione salariale e disoccupazione di massa.
Grafico: Crediti esteri delle banche del “centro” verso le banche della “periferia” dell’eurozona (sinistra) e delle banche tedesche rispetto ai PIGS, l’Italia e la Francia (destra).
Fonte: “An Optimum Currency Crisis”, Pasimeni, 2014
7 – L’euro funziona male perché la sua costruzione è incompleta?
Che l’euro non potesse funzionare era stato previsto dai maggiori economisti. Più che “incompleta”, però, la costruzione è stata capovolta: si è partiti della moneta, e questo ha provocato tali squilibri e tensioni da mettere a rischio ulteriori avanzamenti verso una Europa unita (come previsto da Kaldor nel lontano 1971). Che ce ne si accorga solo oggi lascia quantomeno perplessi.
I passi che in teoria sarebbero necessari per far funzionare l’eurozona prevedono la costruzione di un vero stato europeo, dotato di un bilancio proprio sostanziale e con entrate proprie, oltre alla creazione di un debito pubblico europeo comune. Queste nuove istituzioni potrebbero essere efficaci solo se trasferissero ingenti risorse dagli stati che beneficiano dell’attuale situazione a quelli che stanno peggio. Non è difficile oggi prevedere che questo non accadrà mai. Molti paesi, a partire dalla Germania, non hanno alcun interesse a proseguire su questa strada. Non esiste in questo momento, se mai è esistita, la volontà politica e nemmeno popolare per passi del genere. Queste proposte sono una forzatura, una fuga in avanti di chi continua a parlare di sogno europeo.
L’Euro, facendo divergere le economie, ha accentuato le differenze e i contrasti tra i diversi interessi nazionali e ha quindi reso paradossalmente meno probabili questi sviluppi.
Fonti:
– Appendice statistica alla relazione annuale della banca d’Italia sul 1996.
– Relazione annuale della Banca d’Italia sul 1995.
– Pasimeni P. (2014), An Optimum Currency Crisis, The European Journal of Comparative Economics Vol. 11 (2), pp. 173-204.
– http://vocidallestero.it/2016/05/31/la-grande-divergenza-scandinava/
– http://goofynomics.blogspot.it/2012/03/cosa-sapete-della-produttivita.html
– Flassbeck H. – Spiecker F. (2011). The Euro: a story of misunderstanding. Intereconomics, 46(4): 180-187.
– http://goofynomics.blogspot.it/2012/04/svalutazione-e-salari-ad-usum-piddini.html
– Garber, P.M. (2010), “The Mechanics of Intra-euro Area Capital Flight”, Economics Special Report, Frankfurt am Main: Deutsche Bank Global Markets Strategy.
– Cour-Thimann, P., «Target Balances and the Crisis in the Euro Area», CESifo Forum, vol. 14, Special Issue, April, 2013.
Nota: per ovvi motivi, in questo articolo l’argomento è stato trattato in estrema sintesi. Per i lettori interessati a informarsi più ampiamente e consultare l’ampia bibliografia disponibile in materia consigliamo i saggi di Alberto Bagnai Il tramonto dell’euro (Imprimatur, 2012) e L’Italia può farcela (Il Saggiatore, 2014).
[i] Dati tratti dall’appendice statistica alla relazione annuale della banca d’Italia sul 1996.
[ii] Vedi sopra.
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