Un altro pezzo di Jobs Act
di ALESSANDRO GILIOLI
Oggi sul Foglio Tommaso Nannicini – il docente della Bocconi che è anche l’economista più influente del renzismo – spiega in che cosa consiste il “lavoro di cittadinanza” proposto dall’ex premier:
«Non un piano di lavori socialmente utili di massa ma una sfida culturale. (…) Non è lo Stato chioccia che trova lavoro a tutti, ma una visione per tenere insieme crescita e inclusione sociale continuando sul percorso tracciato dal Jobs Act, attraverso un menù di policy diverse che favoriscano l’attivazione e mettano al centro il capitale umano. (…) Ad esempio, servizi di riattivazione sociale con offerte formative che trovino sbocchi lavorativi, una dote messa dallo Stato che si spende per un processo formativo in un circuito di soggetti (…), un esonero contributivo individuale che il giovane si porta dietro in qualunque azienda. È il pezzo mancante del Jobs Act».
Nannicini ha ragione: così, è un altro pezzo di Jobs Act.
Perché è ispirato alla stessa cultura, alla stessa ideologia.
Secondo questa proposta, infatti, la società, attraverso le sue istituzioni e la sua fiscalità, non deve intervenire a ridistribuire i capitali accentrati a causa del mix recente di mutamenti tecnologici e scelte economiche; né ritiene che vi sia un problema di rarefazione del lavoro, determinato dalla robotizzazione e degli algoritmi, che rende indispensabile (per il mantenimento stesso della stabilità sociale ed economica) un meccanismo diverso da quello classico (salario in cambio di manodopera) per consentire a tutti un’esistenza dignitosa e una partecipazione alla dinamica di produzione e consumo.
La società, attraverso le sue istituzioni, così si limita invece ad agevolare i tuoi skill, le tue chance di essere utile al mercato del lavoro. Nella piena fiducia che, se tu ti aggiorni, sarai assorbito da detto mercato.
C’è appunto un’ideologia, alla base della convinzione che un intervento di questo tipo sia risolutiva e rappresenti un’alternativa al reddito minimo: l’affidamento mani e piedi al mercato. La convinzione che questo possa risolvere da solo, una volta oliati i suoi meccanismi, i disastri da esso stesso creati: disoccupazione, precarizzazione, diminuzione e discontinuità di reddito, emarginazione ed esclusione sociale.
Il Jobs Act, nella sua impostazione, andava nella stessa direzione: era cioè basato sul teorema che se lo Stato offriva al mercato del lavoro il diritto di demansionare, telecontrollare e licenziare a piacere, il mercato del lavoro sarebbe rifiorito. Abbiamo visto com’è andata.
Ha ragione Nannicini, questo è un altro pezzo di Jobs Act. Lo è non tanto in sé (agevolare i know how va sempre bene, ci mancherebbe) ma come presunta ricetta (alternativa al reddito minimo e al welfare reale) per combattere il crac sociale che si è verificato negli ultimi dieci anni.
Ed è un pezzo di Jobs Act perché nell’affidare tutto al mercato contiene il rifiuto di un intervento che bypassi il mercato stesso e ne sia indipendente.
Con tutto il rispetto: l’agevolazione degli skill funziona davvero (ha cioè un’incidenza reale) quando un’economia cambia crescendo, quando l’ascensore sociale si muove, quando le dinamiche nazionali e internazionali sono positive; nella disastrata situazione attuale, accanto al problema di creare competenze c’è il problemuccio che il mercato assorbe sempre meno competenze, quali che siano. Quindi siamo lontanissimi da un intervento realisticamente d’impatto. Siamo di fronte a cosmesi, nel migliore dei casi; nel peggiore, a un imbroglio.
Non so, con precisione, che cosa ci sia dietro il rifiuto ideologico dei renziani verso il reddito minimo (condizionato o universale che sia). Ed è curioso che, nel suo viaggio alla Silicon Valley, Renzi non abbia maturato un po’ di interesse verso il dibattito e gli esperimenti in merito che avvengono proprio da quelle parti.
Nannicini, di scuola bocconiana, forse ha una reale fiducia nella famosa “mano invisibile”.
O forse anche lui crede, come dicono diversi della sua parte, che «un reddito non basta, è il lavoro a dare dignità alla persona». Il che ha un suo fondamento – la questione è lunga – ma curiosamente proviene dalla stessa area politico-culturale che (anche prima di Renzi, s’intende) in nome dell’affidamento al mercato ha svuotato il lavoro proprio della sua dignità. E lo ha fatto avvicinandolo ogni giorno di più alla schiavitù: riducendolo a chiamata, all’ora, a voucher, senza diritto alla malattia o alle ferie, telecontrollabile, demansionabile, ricattabile, sottopagabile, a cottimo – e licenziabile a uzzolo.
Prima hanno svuotato il lavoro della dignità. Ora ci spiegano che il reddito minimo non si può fare perché è il lavoro a dare dignità.
Difficile capirli, onestamente.
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/03/01/un-pezzo-di-jobs-act/
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