Renzi, il figlio illegittimo
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Matteo Volpe)
Uno degli effetti del referendum costituzionale è stato quello di indebolire l’allora segretario del PD. L’opposizione interna si è ricompattata e infine, dopo le dimissioni di Renzi, prima da Capo del Governo e poi da segretario del PD, si è giunti alla scissione. Ma anche tra coloro che restano non c’è grande approvazione per l’ex Presidente del Consiglio, con Emiliano che si candida come il successore che porrebbe fine al renzismo. Tra i membri del PD o degli ex PD c’è stato un disconoscimento di Renzi, considerato un corpo estraneo al partito e al progetto che era alla base del Partito Democratico. Molti, così, hanno attribuito, con troppa facilità, la crisi del PD quasi interamente a Renzi. Si tratta di un’interpretazione riduttiva e del tutto inadeguata a spiegare un processo storico che trae la sua origine diversi anni addietro.
Si può dire, infatti, che il PD sia un partito nato già in crisi, come dimostrò il suo esordio fallimentare sotto la guida di Veltroni, sconfitto da Berlusconi e, poi, con la poco stimata segreteria di Bersani. Da allora fu una continua emorragie di consensi e di iscritti. Anche la conclamata vittoria alle elezioni europee del 2014 con quel famoso 40% è stata molto esagerata. Si trattò, infatti, di un’elezione atipica, cui gran parte dell’elettorato scelse di non partecipare, in particolare quell’elettorato che costituisce il principale avversario del PD, il Movimento Cinque Stelle. Ma anche in quel caso, in voti assoluti il PD ottenne meno consensi di Veltroni nel 2008 contro Berlusconi. Da allora il PD può enumerare solo fallimenti, con la sconfitta alle elezioni amministrative per arrivare alla scissione attuale. Sarebbe quindi decisamente ingiusto attribuire a Renzi tutte quante le colpe dell’incapacità di questo partito di attrarre consensi.
Ma le ragioni del disfacimento del Partito Democratico sono già inscritte nella sua stessa fondazione, ovvero nel tentativo di superare quel po’ che era rimasto della tradizione politica della Prima Repubblica, abolendo la contrapposizione ideologica in nome dell’unico comandamento della “modernizzazione”, con cui è da intendersi l’adeguamento della politica e della società alle esigenze del mercato. Renzi, da questo punto di vista, è stato perfettamente coerente con la nascita del suo partito. Egli intendeva “rottamare” quanto era rimasto della tradizione della sinistra, anche se sopravviveva stentatamente soltanto sul piano simbolico (essendo già nei fatti abolito nella pratica politica). Renzi voleva liquidare questa nostalgia, abbracciando con entusiasmo la conversione neoliberale dell’ex sinistra, e tutto questo passava anche per un diverso lessico e un diverso modo di comunicare, oltre che per un rapporto più spregiudicato con le altre forze politiche (si pensi al “Patto del Nazareno”).
È vero che nel PD ci sono sempre stati dei malumori intorno a Renzi, non è mai stato riconosciuto da tutti come riferimento di uno stesso sistema valoriale, come al contrario è stato per altri. Eppure, egli non ha fatto che condurre alle estreme conseguenze le premesse esplicite dei fondatori.
Il Partito Democratico nasceva da un calco del suo omonimo americano, nel tentativo di riunire quella parte del ceto politico che proveniva da una tradizione progressista, ma che con più urgenza di altri si era incaricato del ruolo di intermediario tra le oligarchie neoliberali e la società. Questo ruolo era stato già svolto con un certo successo per circa un quindicennio, ma da linee dirigenti politicamente frammentate, seppure ideologicamente omogenee. Tale ceto politico postmoderno si rappresentava – e in questo si rappresenta tutt’ora – come post-ideologico, definizione che può essere accettata solo se la si intende come fine delle differenze ideologiche tra le parti politiche e unificazione sotto l’unica ideologia liberale (seppure di un liberalismo postmoderno, che si concepisce come assoluto, inconfutabile e “naturale”) e globalista.
Il progetto del Partito Democratico, quindi, riprendeva il progetto del centrosinistra della Seconda Repubblica, ma cercava di fare a meno di labili alleanze traballanti, per unificare anche politicamente un ceto politico ideologicamente omogeneo e referente delle oligarchie e in questo modo riunire e raccogliere il consenso popolare. Il progetto era quello del bipartitismo completo, di cui il bipolarismo imperfetto della Seconda Repubblica doveva essere il tramite. Le cose, come sappiamo, andarono diversamente. Questo perché la narrazione neoliberista a un certo punto non fu più capace di sedurre, come aveva fatto per tre decenni, e non fu più possibile veicolare il consenso delle masse in tal senso. Il Partito Democratico, quindi, era un progetto già superato sin dalla sua nascita. Nasceva, infatti, proprio nel momento in cui il discorso neoliberale entrava in crisi, soprattutto a causa di due eventi traumatici: la crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti e trasferitasi poi in Europa, e, qualche anno dopo, il collasso economico della Grecia. Questi due eventi assestarono un colpo micidiale all’egemonia culturale neoliberale (che, in perfetta dialettica storica, li aveva provocati). Il PD vide l’alba proprio in tale contesto storico, profondamente mutato rispetto a quello nel quale erano maturati i propositi dei suoi fondatori. Ecco perché la sua crisi era inscritta nel suo stesso codice genetico e non poteva essere evitata.
Si potrebbe rintracciarla, portando in fondo questa analisi e andando ancora a ritroso, nelle intenzioni che portarono alla fondazione del PD, ovvero nell’Ulivo degli anni Novanta, primo progetto compiuto di unificazione politica del ceto politico “progressista” ma neoliberale, e ancora indietro nello scioglimento del PCI, con la rinuncia ufficiale della sinistra alla costruzione di una società non capitalistica, e quindi il ripudio di ogni ideologia che non fosse compatibile col capitalismo. Si potrebbero individuare alcuni germogli addirittura nel berlinguerismo, come si è già mostrato altrove. Di conseguenza, non si può affatto considerare Renzi la causa del problema, essendone egli, piuttosto, l’effetto. Inutile quindi, lamentarsi oggi dei voucher o del Jobs Act, tutto questo non sarebbe esistito senza anni di liberalizzazioni dei mercati, privatizzazioni e aggressioni alle tutele del lavoro promosse principalmente dal centrosinistra, si chiami esso PDS, Ulivo, o PD.
Molti vedono in Berlusconi il vero padre di Renzi. Ma se così, ne è soltanto il padre putativo; i padri naturali, invece, loro malgrado, sono i vari D’Alema, Prodi, Bersani, che ora si rifiutano di riconoscere colui che porta il loro identico corredo genetico. La polemica contro Renzi di questi padri naturali non è, quindi, che un alibi verso se stessi, volto alla rimozione del passato recente e all’autoassoluzione, in modo da permetter loro di “riciclarsi” e accreditarsi nuovamente, sotto un altro vessillo, di fronte alle masse deluse ed evitare così di disperdere ulteriore consenso. Operazione che, con ogni probabilità, fallirà, e che potrà rivelarsi un enorme regalo per Renzi.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/renzi-il-figlio-illegittimo/
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