Crisi e fine del capitalismo
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Riccardo Sasso)
La caduta tendenziale del saggio del profitto, evento che secondo Marx avrebbe dovuto condurre all’esplosione delle contraddizioni dell’economia di mercato, ponendo le condizioni per l’avvento della rivoluzione globale del proletariato, non si è verificata. La crisi del 1929, per prima, aveva fatto pensare a un tracollo irreversibile del capitalismo che, però, non avvenne. Ci fu poi la Grande Recessione del 2008 che convinse molti, marxisti e non, della capitolazione del capitalismo. Ancora una volta le previsioni furono smentite. Nonostante la sua longevità, però, è evidente che il capitalismo stia mostrando una crisi sempre più profonda, una crisi non necessariamente vincolata alle grandi recessioni economiche, ma pur sempre una crisi sostanziale. Nel seguente articolo cercheremo di approfondire le caratteristiche salienti di questa crisi.
Per tracciare le caratteristiche principali della crisi del capitalismo è indispensabile, preliminarmente, capire che cosa s’intenda con il termine “capitalismo”. La definizione più propria per comprendere l’essenza dell’economia di mercato, e che può essere universalmente accettata, è la formula adottata da Marx di «D – M – D’». Questa formula significa che il capitalismo è un sistema fondato sull’investimento di una certa quantità di denaro (capitale) e che viene orientato alla produzione di una specifica merce, la quale sarà poi messa sul mercato al fine di acquisire una quantità di denaro superiore a quella investita (profitto). Questo sistema economico, poi, per poter funzionare, abbisogna della proprietà privata dei mezzi di produzione e della concorrenza tra gli individui (e le attività economiche) che li detengono. La storia del capitalismo può essere suddivisa in tre macro periodi: il primo è quello del mercantilismo tardo medievale e moderno, Il secondo, che iniziò ad affermarsi a partire dalle due rivoluzioni industriali, prende il nome di capitalismo industriale. Il terzo, invece, è nominato con la locuzione anglofona late capitalism (tardo capitalismo). Questa, considerata da molti l’ultima fase del capitalismo, è il capitalismo finanziario, delle grandi corporazioni, delle piattaforme (reti sociali, piattaforme di streaming ecc.), della moneta virtuale. Quest’ultima fase incomincia con la fine della Seconda Guerra Mondiale e raggiunge il suo apogeo nel nuovo millennio.
Una volta indicate le principali tappe della storia del capitalismo è giunto il momento di comprendere la radice della crisi di questo sistema economico. È indiscutibile che il capitalismo abbia portato a notevoli innovazioni tecnologiche e culturali. Si pensi, solo per fare un esempio, alla diffusione delle nuove idee e prospettive che, in epoca mercantile, contrassegnarono la nuova filosofia della modernità. Pensiamo poi alle innovazioni apportate dalle rivoluzioni industriali e da quelle politiche (francese e americana). Per finire, poi, non possiamo dimenticare i recenti sviluppi della robotica. Sono questi solo alcuni esempi dei grandi progressi apportati dal capitalismo. Tuttavia, questo è solamente un lato della medaglia. Vi è poi l’altra faccia, quella nascosta e che porta con sé i gli aspetti più oscuri e cinici. La prima questione è che, tutte queste innovazioni, apportate dal capitalismo, non vengono all’essere direttamente per migliorare la vita degli individui e, in generale, migliorare il mondo. Esse nascono per un solo ed un unico scopo, l’accumulo indiscriminato di profitto. Come scrive il politologo canadese Nick Srnicek: «Nuove tecnologie, nuove forme organizzative, nuove forme di sfruttamento, nuove professioni e nuovi mercati emergono per creare nuove modalità di accumulo del profitto» (Platform captalism). I sostenitori dell’economia capitalista, a questo punto, potrebbero rifarsi alle idee di Adam Smith, il quale sosteneva che è proprio dall’egoismo individuale dei produttori che scaturisce la qualità della merce: una buona merce è più profittevole di una merce scadente. Questa posizione, però, tiene conto solamente di un aspetto, e cioè, la convinzione che sia la merce venduta dalle aziende a migliorare la vita degli individui. Spieghiamoci con un esempio: i combustibili fossili, monopolizzati da colossi corporativi, sono utili per cose come i trasporti e, sotto questo punto di vista, migliorano la vita degli individui. Tuttavia, essi sono anche particolarmente inquinanti e stanno contribuendo significativamente a rendere il nostro pianeta inabitabile. Questo, dunque, rappresenta un notevole svantaggio per la società umana. Nonostante ciò, si rimarca sul fatto che i combustibili fossili sono particolarmente profittevoli e, dunque, non possono essere dismessi. L’ambiente ne sarà devastato, tuttavia, il profitto sarà notevole. Come emerge da questo semplice esempio, il benessere degli individui e l’egoismo dei produttori non sono due cose legate, né tantomeno vicendevolmente implicate.
L’accumulo indiscriminato di denaro, dunque, è l’unica cosa che conta nell’economia capitalistica. Non è bene ciò che migliora la vita degli individui, ma è bene ciò che garantisce un maggior guadagno. Ecco dunque emergere il primo aspetto della crisi del capitalismo: esso si propone come mezzo d’incremento del benessere, tuttavia, il suo scopo primario è l’incremento del profitto; il benessere è qualcosa di secondario. Questo fatto è vero se la si guarda dal lato dei consumatori, ma anche dal lato dei produttori. Come ha affermato il filosofo italiano Emanuele Severino:
« (U)n industriale può servirsi dei propri guadagni per divertirsi. Il divertimento può stare in cima ai suoi pensieri, ma non è lo scopo oggettivo della sua attività economica, perché uno scopo siffatto è quello che determina il modo in cui sono organizzati i mezzi per realizzarlo, e a determinare l’attività imprenditoriale non è la volontà di divertirsi, ma è la volontà di incrementare il profitto, ossia è l’efficienza ». (Il dito e la luna)
Da ciò emerge con grande chiarezza che lo scopo ultimo del capitalismo non è mai il benessere individuale, l’edonismo o il divertimento. Tutti questi sono stratagemmi orientati al solo ed unico accumulo di profitto. Ecco dunque comparire il secondo punto fondamentale della crisi del capitalismo: l’organizzazione di tutti gli apparati sociali in funzione del denaro.
Il capitalismo non è solamente un sistema economico, esso è anche un sistema sociale. Per questa ragione, oggi si tende a parlare sempre di più di società di mercato e, sempre meno, di economia di mercato. Il denaro, nel capitalismo, è l’unica cosa importante. Come osserva il filosofo statunitense Micheal Sandel:
«Se il solo vantaggio della ricchezza fosse la possibilità di comprarsi yacht, auto sportive e vacanze esclusive, le disuguaglianze di reddito e di ricchezza non importerebbero molto. Man mano però che il denaro arriva a comprare sempre più cose – l’influenza politica, una buona assistenza sanitaria, una casa in un quartiere sicuro, l’accesso a scuole d’élite – la distribuzione del reddito e della ricchezza assume un ruolo sempre maggiore. Laddove tutte le cose sono comprate e vendute, avere i soldi fa la differenza» (Quello che i soldi non possono comprare-i limiti morali del mercato).
Si presti molta attenzione all’espressione usata da Sandel «avere i soldi fa la differenza». Cosa significa quest’espressione in termini filosofici? Significa che il criterio di discernimento di una cosa dall’altra – nel capitalismo – diventa il denaro e, di conseguenza, sarà il coefficiente sociale che genera tutti i valori. Se si pensa che la formula troneggiante sul dollaro americano “In God we trust” (noi crediamo in Dio) rappresenti la devozione religiosa di un popolo, si pensa male. Come vedremo a breve il vero significato di quell’espressione è qualcosa di molto più oscuro e malato.
«Avete mai udito di quel pazzo che accese una lanterna di pieno mattino, e corse al mercato gridando incessantemente “Cerco Dio! Cerco Dio!” […] “Dio è morto! Dio continua ad esser morto! E noi l’abbiamo ucciso» (La gaia scienza). Così scriveva il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche in una delle sue opere più conosciute. Molto interessante, come osservato dal filosofo italiano Massimo Cacciari, dove quest’annuncio dell’uomo folle sia fatto: in un mercato. Il mercato è il luogo in cui tutto è in vendita, dove si vende e si acquista la merce. La nostra società è detta di mercato perché tutto è in vendita, gli esseri umani sono di volta in volta produttori e consumatori e, oltre a ciò, sono anche merce come forza lavoro. Qui tutto è in vendita e ciò che genera valore è il denaro.
Il denaro è la divinità spasmodicamente ricercata e venerata nel capitalismo. Nel capitalismo, la carità, il bene e la giustizia, che religione e filosofia sono solite chiamare Dio, non contano più nulla. Nel capitalismo vige la regola del mors tua vita mea. Devo eliminarti per poter vivere, perché la mia vita è determinata dalla quantità di denaro che possiedo: il denaro che tu possiedi è qualcosa di tolto a me. Tu devi soccombere perché io viva. Ecco come il denaro diventa la fonte generatrice di tutti i valori e non può esistere altro che questo. Perché l’uomo che cerca Dio al mercato è deriso? Perché l’idea di Dio, al mercato, è un’idea ridicola, dove tutto è messo in vendita, ciò che si venera è il denaro: “In God we trust“. Oggi il denaro sta diventando sempre di più una realtà virtuale, impalpabile, incommensurabile. Il processo di divinizzazione del denaro è sempre più rapido, un “Grande Fratello” di orwelliana memoria raccoglie tutte le nostre informazioni e diventa pervasivo e onnipresente in ogni anfratto della nostra vita, con pubblicità; creazione di bisogni e nuova merce da acquistare. Gli oracoli del signore, che nel capitalismo sono i mercati, dettano la linea politica e sociale a tutto il mondo, ci dicono cosa si può fare e cosa no, diventano pervasivi nelle nostre vite.
A questo punto sorge un altro problema: che cos’è il denaro? Nel precedente paragrafo, si è visto come il denaro sia qualcosa di dato per assodato nella società contemporanea, tuttavia, è doveroso chiedersi di che cosa si tratti sostanzialmente, a che cosa stiamo votando tutta la nostra esistenza? La risposta è che il denaro non è nient’altro che una convenzione sociale. Non ci vuole tanto a capirlo: il denaro non è sempre esistito; non è sempre stato uguale; il calcolo del suo valore economico è stato fatto in modi diversi. Il denaro ha valore in relazione ai rapporti sociali. Questo è il grande dramma della società di mercato, la sottomissione dei consociati a un’invenzione. Se è vero che tutto è messo in vendita, lo è per una decisione arbitraria, per una consuetudine che, nel corso del tempo, è stata data per assodata ed è stata considerata come un dato di fatto. Sempre Nietzsche ha scritto:
«Quell’impulso a formare metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo da cui non si può prescindere neppure per un istante, poiché in tal modo si prescinderebbe dall’uomo stesso, risulta in verità non già represso, ma a stento ammansito, dal fatto che con i suoi prodotti evanescenti, i concetti, sia stato costruito per lui un nuovo mondo, regolare e rigido, come roccaforte» (Su verità e menzogna in senso exstramorale).
Questo discorso può, senza tanti problemi, essere esteso al denaro. Il denaro è solamente un prodotto umano, una realtà concettuale ed evanescente. Esso, con il tempo, si è sedimentato e l’essere umano ha scordato che esso sia una mera invenzione e non ha più osato metterne in discussione l’irrevocabilità. Si potrebbe tentare una migliore comprensione di questo concetto attraverso le seguenti parole del filosofo inglese Mark Fisher: «Inutile dire che quello che sembra “realistico”, quello che sembra plausibile dal punto di vista sociale, è determinato da una serie di decisioni politiche» (Realismo capitalista). Il denaro è qualcosa di questo genere, si tratta di una mera convenzione politica considerata come realistica, plausibile, data per assodata e, infine, necessaria. Una volta che i consociati si saranno dimenticati di aver inventato qualcosa, ecco allora che si verificherà un’alienazione e l’invenzione diventerà una necessità ontologica e deontologica. Il fatto che sia così difficile pensare ad un’alternativa al capitalismo, più difficile che immaginarsi la fine del mondo, è dovuto all’irrevocabilità e alla necessità che è stata attribuita al denaro. Poiché non si riesce a pensare alla propria vita senza un soldo in tasca, non si riesce a pensare a un mondo alternativo al capitalismo.
Il denaro, in ultima analisi, non è altro che un feticcio, una realtà sovraccaricata di significato per una funzione sociale, una convenzione, una metafora, un comune accordo, un gioco. Nella creazione di convenzioni, di per sé, non c’è nulla di male. Il problema del denaro risiede nel fatto che esso stia trascinando tutta la realtà al niente. Che cosa s’intende dire con ciò?
La caduta tendenziale del saggio del profitto non è avvenuta, tuttavia qualcos’altro sta per accadere. Tutta la realtà è orientata verso un inesorabile nulla. L’accrescimento smisurato della povertà, la concentrazione di risorse nelle mani di sempre meno persone, la crisi climatica, la crisi sanitaria, la crisi culturale, la crisi democratica, la crisi educativa e civile sono tutte realtà che contrassegnano un’unica cosa: ci stiamo avviando verso il nulla. Se la realtà è ridotta a merce, funzionale all’arricchimento, essa ha valore solo nella misura in cui riesce ad essere monetizzata. Quando la realtà smette di essere sfruttabile perde il suo valore di mercato e così tutto si logora, tutto si consuma, tutto si riduce al niente. Se l’ente si distacca dall’essere smette di esistere, ma se l’essere diventa il denaro qualora l’ente dovesse smettere di essere mercificabile smetterebbe di essere.
Il desiderio smodato di denaro, la progressiva mercificazione della realtà, lo sfruttamento estremo della natura e degli uomini sono orientati all’accumulo di denaro, ma il consumo sta conducendo la realtà al logoramento. La minaccia dell’estinzione umana e di molte altre speci biologiche è qualcosa d’inscritto in una visione del mondo, quella della religione del denaro, che sta portando le cose al niente. La fine del capitalismo si gioca nel progressivo annichilimento della realtà sociale che impedirà allo stesso capitalismo di esistere. A un tal punto dell’involuzione del mondo civilizzato, le opzioni rimaste all’uomo contemporaneo sono solo due: smantellare il sistema di mercato e deporre i suoi idoli, o lasciare che il nichilismo trionfi definitivamente sulla nostra civiltà. A NOI LA SCELTA!
FONTE:https://www.gazzettafilosofica.net/2023-1/ottobre/crisi-e-fine-del-capitalismo/
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