Marx risponde a Briatore
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Matteo Volpe)
“I poveri non hanno mai creato lavoro, ben vengano un po’ di ricchi” ha detto l’imprenditore. Cosa si cela dietro questa frase?
Con la legge di bilancio è stata approvata la cosiddetta “flat tax”, l’imposta fissa per i grandi patrimoni, allo scopo di attrarre ricchi nel nostro paese. A quale scopo? Per comprendere il modo di pensare che ispira questa norma bisogna ascoltare le parole di Flavio Briatore, il quale ha commentato “Finalmente una legge che serve a fare arrivare in Italia un po’ di gente ricca. Farà girare soldi e lavoro”. Il milionario aggiunge sprezzantemente: “in Italia di poveri ce ne sono già abbastanza e a quanto mi risulta non hanno mai creato lavoro”. Ovviamente egli non è certo un giudice imparziale sul tema, tuttavia non ha fatto che esprimere in modo forse un po’ più urtante ciò che viene spacciato dagli opinionisti dei quotidiani e dai media come verità indiscutibile. L’idea, cioè, che il capitalista “crei lavoro”. È un’idea che ha avuto particolare successo in Italia dall’inizio della carriera politica di Berlusconi, i cui sostenitori, per giustificarla, solevano dire: “ha creato milioni di posti di lavoro” in contrapposizione a una “casta” politica descritta come parassitaria. Questa idea era alla base anche delle privatizzazioni dei governi di centrosinistra e della precarizzazione del lavoro, che avrebbe dovuto, a loro dire, indurre ad assumere e attrarre i capitali esteri. Eppure, nonostante tutte queste norme a favore dei “creatori di lavoro”, la disoccupazione in questi anni è aumentata, registrando il suo massimo storico per quella giovanile.
Certo, pensare al lavoro come a un “posto”, quasi si trattasse di una poltroncina di un teatro, non aiuta un corretto modo di intenderlo. Induce a credere, quasi inconsciamente, che il lavoro sia un luogo fisico, che quindi possa essere “costruito” come una cosa: eppure il lavoro non è una cosa, ma una attività umana, ovvero una relazione tra cose; però non una relazione qualsiasi, bensì tale da essere predisposta secondo scopi umani. È una differenza ontologica non secondaria. Perché se il lavoro è una relazione e non una cosa la sua esistenza dipende da un certo contesto preordinato e da un certo interagire tra gli individui prolungato nel tempo. Se uno di questi fattori muta o scompare è possibile che il lavoro come attività cessi di esistere, mentre le cose una volta create continuano ad esserci indipendentemente da tutto il resto (a meno che un agente esterno deliberatamente non le distrugga).
Se dovessimo considerare una concezione del lavoro che possa piacere a Briatore e ai suoi simili, quella liberale, il lavoro è il risultato dell’incontro di due variabili: la domanda (quella dell’imprenditore) e l’offerta (quella del lavoratore). L’imprenditore mette a disposizione del lavoratore i mezzi per produrre e gli corrisponde un salario, in cambio terrà per sé una parte del ricavato (profitto). Come si può facilmente notare non c’è in questa concezione, la più favorevole a quelli come Briatore, niente che possa far pensare al capitalista come a un “creatore” di lavoro. Per la stessa ragione per cui l’acquirente di un paio di scarpe o di un chilo di pane non è il creatore delle scarpe o del pane. Dal punto di vista fisico e materiale, in base a questa interpretazione, il creatore del lavoro è il lavoratore stesso. Ma volendo estendere la definizione di “creare” a un significato più sociologico, si potrebbe dire che il lavoro sia il risultato dell’incontro di domanda e offerta. Ma anche in questo caso l’imprenditore non crea alcunché, il lavoro è l’intersezione di due interessi diversi e convergenti.
Questo secondo l’idea non di chi scrive ma dei liberali. Qualcuno potrebbe obiettare che il lavoratore non potrebbe lavorare senza che il capitalista gli metta a disposizione i mezzi di produzione e un salario per vivere (o per sopravvivere). Ciò è in parte vero, ma non ancora dimostra che sia il capitalista a creare lavoro. Infatti non bisogna confondere la predisposizione delle condizioni per la creazione con la creazione stessa: l’allevatore fa ingrassare l’animale, il macellaio seleziona il taglio, ma è soltanto il cuoco a creare il piatto di bistecca alla fiorentina. Senza la preparazione dell’allevatore e del macellaio quest’ultimo non avrebbe potuto, certo, creare il suo piatto; ma resta il fatto che è lui, e non gli altri, ad averlo creato. Tuttavia, potrebbe insistere il nostro critico, seppure egli non è il creatore autentico, resta il fatto che la sua opera è indispensabile per la creazione stessa, dato che egli mette a disposizione del lavoratore gli strumenti per lavorare. Quindi l’espressione “creare lavoro” potrebbe essere intesa come “creare le condizioni per il lavoro”.
Ma quali sono queste condizioni? I mezzi di produzione e il salario. Cioè, in sostanza, il capitale. A questo punto però, se si vuole essere onesti, bisogna portare l’indagine fino in fondo e domandarsi da dove provenga il capitale. A tale domanda rispose già, nel modo più completo ed elegante, Karl Marx. Marx distingue tra capitale costante, costituito dai mezzi di produzione, e il capitale variabile, cioè i salari. Dato che il capitale costante è, per definizione, costante, l’unico modo per espandere il profitto o plusvalore è ridurre l’incidenza del capitale variabile, cioè, in sintesi, far lavorare più ore il lavoratore o, il che è lo stesso, abbassargli il salario. Al lavoro necessario per produrre il proprio salario, infatti, il lavoratore dovrà aggiungere un pluslavoro per retribuire il capitalista.
Sono i lavoratori stessi a produrre il capitale. Del resto, da cosa sono prodotti i mezzi di produzione se non da altri lavoratori, siano essi tecnici e ingegneri o manodopera? In fin dei conti si può pensare al lavoro senza il capitale, ma non si può pensare al capitale senza il lavoro. Ribaltando la frase di Briatore, perciò, si può dire che non sono i ricchi a creare lavoro, ma è il lavoro a creare i ricchi. E allora perché una tale errata convinzione è così diffusa nella nostra società? A questa domanda risponde sempre Marx ricordandoci che le idee dominanti sono le idee della classe dominante, alla quale appartiene Briatore. La classe dominante ha tutto l’interesse a pensarsi e a farsi pensare come indispensabile e benefica. Essa deve in qualche modo giustificare le immense ricchezze che ha concentrato ed è per questo che asserisce – attraverso i media che possiede – che di una tale concentrazione c’è bisogno per il bene di tutti. E allora ecco che invece di dire che il capitalista si appropria del lavoro, si dirà che egli lo crea! Invece di dire che il lavoratore retribuisce i suoi profitti si dirà che egli retribuisce il lavoratore! Invece di dire che non crea nessuna ricchezza ma la sposta soltanto nelle proprie mani, si dirà che egli la produce! E così i politici ridurranno loro le tasse, perché così, dicono, ci saranno più investimenti, privatizzeranno perché così, assicurano, ci sarà più efficienza, aboliranno le tutele dei lavoratori perché così, promettono, ci sarà più lavoro. E gli elettori ci crederanno, temendo che se non si facesse tutto ciò sarebbe il disastro. “Bisogna attrarre i capitali esteri”: è questa la più comune formulazione della frase di Briatore. Fare dell’Italia un paradiso per ricchi di tutto il mondo non renderà l’Italia ricca. Non è migliorando le finanze già eccellenti dell’1% che si migliorano le condizioni di vita dei suoi cittadini. Esiste solo un mezzo che può essere adatto allo scopo e quel mezzo è lo Stato, lo “spettro” più temuto. Non a caso sentiamo ripetere, da quelli stessi che invocano la venuta dei capitalisti di ogni dove, che di esso ci si deve sbarazzare.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/marx-risponde-a-briatore/
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