Anche l’Olanda rottama la Terza via
di CARLO CLERICETTI
Fuori un altro. Anche in Olanda gli elettori hanno rottamato un partito socialista ormai tale solo di nome: basti pensare che è quello di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo e falco delle politiche di austerità. Il PvdA (“Partito del lavoro”) ha subito il maggior crollo della sua storia, passando dal 24,8 al 6% e da 38 a 9 seggi in Parlamento. Continua così la serie di sconfitte dei partiti socialisti e socialdemocratici ( o magari comunisti, come fu il Pci) che, seguendo la cosiddetta “Terza via” lanciata da Tony Blair, sono passati armi e bagagli sotto le bandiere liberiste. Per un po’ hanno retto, ma la gestione della crisi – o co-gestione insieme ai partiti conservatori, e comunque sposando le politiche da quelli sostenute – li hanno distrutti o stanno distruggendoli.
Il primo a subire un tracollo fatale fu il greco Pasok, passato dal 43% dei voti nel 2009 al 12,3 del 2012 al 4,7% del 2015. Poi è stata la volta del Psoe, il partito socialista spagnolo, che nel 2008 aveva raggiunto il 43,9% e nelle due elezioni successive del 2015 e 2016 è crollato intorno al 22. L’ala destra del partito ha impedito al segretario Pedro Sanchez (che poi si è dimesso) di formare un governo con Podemos e ha permesso la nascita di un nuovo governo conservatore guidato da Mariano Rajoy: non ci sarà da stupirsi se alla prossima prova elettorale il Psoe farà la fine degli omologhi greco e olandese.
In Francia Francois Hollande ha vinto le scorse presidenziali con un programma progressista, e poi si è appiattito sulle posizioni tedesche scomparendo come protagonista. In seguito ai sondaggi che gli attribuivano un gradimento del 4%, il più basso mai visto per un presidente francese, ha rinunciato a correre per il secondo mandato. Il vincitore delle primarie, Benoit Hamon, passa per un radicale a causa della sua proposta di reddito di cittadinanza, ma è su posizioni nettamente europeiste e gli attuali sondaggi sul primo turno delle presidenziali gli attribuiscono un 14%, al quarto posto con distacco dopo Le Pen, Macron e Fillon.
I laburisti inglesi, finita l’era di Blair (con la breve appendice da primo ministro del suo sodale Gordon Brown), non sono riusciti a seppellirla. I parlamentari sono ancora quasi tutti blairiani e ignorano pervicacemente i segnali che vengono dalla base, che ha eletto alla segreteria prima Ed Miliband, preferendolo al blairiano fratello David, e poi – per due volte e con oltre il 60% dei consensi – Jeremy Corbyn, che è ancora più a sinistra. A Corbyn continuano a fare la guerra, accusandolo di portare il Labour su una linea perdente. Ma probabilmente quella linea lo ha finora salvato dal destino delle altre formazioni (ex) socialdemocratiche di cui abbiamo parlato: il Labour ha subito una débâcle in Scozia, ad opera del partito indipendentista (che è ancora più a sinistra), ma in termini di voti ha retto bene, e anzi alle ultime elezioni ha ottenuto un piccolo progresso, nonostante la perdita di seggi (soprattutto in Scozia, appunto) dovuta anche ai meccanismi elettorali inglesi.
Reggono ancora i socialdemocratici tedeschi, che comunque non esprimono un cancelliere da 12 anni. Hanno evitato la debacle, nonostante la sudditanza al partito di Angela Merkel, grazie al buon andamento dell’economia tedesca, aiutata dall’euro e da un’egemonia sull’Europa esercitata in modo spregiudicato. Ciò nonostante, il segretario e ministro degli Esteri dell’attuale governo, Sigmar Gabriel, ha deciso (o gli hanno fatto decidere) di rinunciare a guidare il partito per le prossime elezioni di settembre: pare che i sondaggi dessero responsi pessimi, tanto da spingere la Spd a cambiare cavallo puntando su Martin Schulz, uno che ha fatto la sua carriera essenzialmente nelle istituzioni europee piuttosto che in patria, e dunque relativamente “vergine” da quel punto di vista. Sembra che la scelta sia stata azzeccata, visto che i sondaggi lo danno testa a testa con la Merkel: vedremo se saranno confermati dal voto. Fatto sta che la Spd, nonostante che in Germania la crisi sia stata superata senza drammi, è dovuta ricorrere a una sorta di “Papa straniero”.
In questo panorama desolante fa eccezione il Portogallo, dove il leader socialista Antonio Costa ha vinto le elezioni grazie ad una campagna anti-austerity e poi è riuscito nel miracolo di ottenere l’appoggio degli altri partiti di sinistra, ottenendo la guida del governo nonostante la strenua resistenza dell’ex presidente Anibal Cavaco Silva. Costa, pur nei limiti stretti imposti dall’Europa, ha corretto le decisioni più scandalose prese dal precedente governo conservatore e operato una redistribuzione fiscale a vantaggio dei più deboli. Scrivono i giornali portoghesi che la popolarità del governo è in forte ascesa.
L’eccezione conferma la regola: i partiti socialisti e socialdemocratici che hanno scelto la Terza via sono destinati prima o poi a scomparire o quasi. Le politiche dei governi europei variano solo sulle diverse gradazioni della destra, e partiti che si dicono di sinistra – o, più pudicamente, di centro-sinistra – ma appoggiano quelle politiche, non rappresentano più un’alternativa. Così, chi ritiene quelle politiche corrette, o comunque le sole possibili, come afferma la martellante propaganda di anni e anni di “pensiero unico”, preferisce votare i partiti storicamente conservatori. Chi invece vuole esprimere il suo dissenso si rivolge a quelle formazioni che si propongono come alternative, e che spesso purtroppo sono populiste quando non addirittura più o meno razziste.
Le “nuove” sinistre nate in vari casi da scissioni dei “socialisti della Terza via” hanno consistenze che si aggirano tra il 10 e il 20% dei voti: così in Francia il Partito della sinistra di Jean-Luc Mélenchon, nato da una scissione del Psf; così in Germania la Linke, fondata dall’ex leader socialdemocratico Oskar Lafontaine; così in Olanda Sp (nato come maoista e poi diventato socialista) e la Sinistra verde, usciti dalle elezioni con circa il 10% ciascuno, il primo mantenendo più o meno i voti che aveva, il secondo quadruplicandoli. Lo spagnolo Podemos, di sinistra anche se non si qualifica formalmente come tale, è sopra il 20%. Sono dimensioni che non permettono di aspirare a guidare un governo, ma potrebbero permette coalizioni alternative qualora i partiti socialisti tradizionali che hanno ancora una certa consistenza, come in Germania e Spagna (e Francia, almeno finora) decidessero di cambiare le loro linee politiche liberiste. Se non lo faranno, sono destinati con ogni probabilità a un progressivo decadimento.
In questo quadro la situazione italiana è piuttosto particolare. Il partito che si definisce di centro-sinistra, il Pd, sotto la guida di Matteo Renzi ha portato alle estreme conseguenze l’adesione ideologica al pensiero dominante, per di più mancando di coerenza sul piano delle scelte di governo per inseguire un consenso che pensava di poter comprare distribuendo soldi un po’ a casaccio e con una massiccia e martellante propaganda. Le ultime vicende testimoniano chiaramente il fallimento del tentativo di fare del Pd un partito autosufficiente per governare, anche con l’aiuto di una legge elettorale pensata ad hoc – e in parte bocciata dalla Corte Costituzionale – specie dopo il fallimento della riforma istituzionale. Se riesce ancora, secondo i sondaggi, a mantenersi intorno al 30% dei consensi è essenzialmente per la mancanza di alternative credibili. L’ala destra dello schieramento è frammentata e confusa, con una forte componente populista. L’altro partito vicino al 30%, il Movimento 5 stelle, è ideologicamente nebuloso e i dubbi sulla sua capacità di governare sono stati enormemente ampliati dalla prova incredibilmente dilettantesca, confusa e finora inconcludente del governo della capitale. Ci si può semmai sorprendere che mantenga nonostante tutto quelle ragguardevoli dimensioni, indice evidente di un malessere diffuso che non trova uno sbocco più credibile.
A sinistra del Pd c’è uno spazio che anche in questo caso si aggira intorno al 10% dell’elettorato. Ma questa percentuale, già non elevata, è contesa da troppi soggetti: due movimenti ideologicamente assai poco diversi dal Pd, gli scissionisti del Movimento democratici e progressisti e il Campo progressista di Giuliano Pisapia, la cui strategia è una futura alleanza con un Pd non guidato da Renzi, ma che soprattutto – in particolare Mdp – non propongono una visione alternativa della società, ma solo un’accentuazione degli aspetti sociali del paradigma dominante. Sinistra Italiana di Nicola Fratoianni e Stefano Fassina, l’alternativa la propone, ma ha già subito una scissione al momento della sua costituzione e fatica a trovare una linea condivisa su argomenti importanti come l’Europa e l’euro. Poi ci sono altri soggetti di minore consistenza come Rifondazione comunista e Possibile di Pippo Civati (ma ce ne sono anche altri)disponibili ad aggregarsi con Sinistra italiana ma – almeno al momento – senza perdere la loro identità. Se rimarrà una tale frammentazione, è del tutto evidente che quest’area non riuscirà ad esprimere un soggetto politico capace di una qualche influenza.
Cosa concludere da questo giro d’orizzonte? Niente di buono. I partiti che storicamente lavoravano per una maggiore diffusione del benessere e una più equa distribuzione della ricchezza si sono fatti conquistare dalle idee del campo opposto. Questo cambiamento culturale di fondo non è stato percepito subito dall’elettorato, che in una prima fase ha continuato a votarli, specie in quei casi dove l’adesione a questi partiti aveva una forte componente identitaria. Ma la prova della realtà alla fine sta prevalendo, e quei partiti vengono abbandonati. Nel frattempo, però, a causa di questi comportamenti, concetti che esprimevano gli orientamenti politici tradizionali, in particolare quello di “sinistra”, si sono deteriorati e agli occhi degli elettori hanno perso di significato, quando non provocano addirittura una reazione di rigetto. Questo si riverbera in modo negativo sulle limitate forze che quei valori di fondo vorrebbero ancora perseguirli, e la reazione dei danneggiati dal liberismo e dalla globalizzazione si disperde al seguito di capipopolo capaci di suggestione ma privi di una visione organica dell’organizzazione sociale realmente alternativa a quella costruita negli ultimi quarant’anni. La storia ci dice che queste situazioni possono sfociare in disordini che provocano reazioni autoritarie.
fonte: http://clericetti.blogautore.repubblica.it/
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