Delegazione e Rappresentazione: la sovranità come problema della politica contemporanea (2a parte)
di EMILIO DI SOMMA (FSI Napoli)
Entrambi i concetti di delegazione (delegatio) e rappresentazione (rapresentatio) derivano dal diritto romano e ci sono stati tramandati grazie alla civiltà cristiana, che li ha fatti propri e li ha usati per stabilire gli ordinamenti e strutture della gerarchia ecclesiastica (poi si dice che il Medioevo cristiano è stato un periodo buio; beh, senza tale periodo buio a noi non sarebbero arrivati gli insegnamenti del diritto romano o della filosofia greca).
Cosa intendono questi due concetti? Entrambi sono atti di potere attraverso cui un nominato agisce, tramite le sue attività politiche, “nell’interesse” di una seconda persona o gruppo di persone. Tuttavia, tra i due atti vi è una differenza sostanziale.
La rappresentazione indica l’atto che si svolge per conto di un ente che è “ancora presente” al momento dell’atto. Mentre nella delegazione l’ente che ha conferito la delega è assente. Sebbene possa sembrare superficiale, la differenza è in realtà sostanziale. Colui che rappresenta, proprio perché rappresenta un soggetto che è “presente”, non è libero di agire secondo il proprio arbitrio e volontà, ma deve rispondere ad una determinata struttura, sia giuridica, che valoriale.
Il delegato, invece, proprio perché rappresenta “un’assente”, viene investito anche della sovranità e dell’arbitrio per agire come meglio crede in una situazione che, si presume, egli “conosca meglio”. Il delegato, in sostanza, è un tecnico, chiamato a risolvere una situazione in cui il “sovrano” non è presente e non può intervenire, generando quindi un trasferimento di sovranità nel delegato. Trasferimento che, invece, è assente nel caso della rappresentazione.
Per esempio, quando la teologia cattolica dice che il sacerdote “rappresenta” Dio, al momento della funzione, si intende che Dio è sempre “presente” nelle funzioni ecclesiali. Questo ha una doppia conseguenza sull’attività del sacerdote: primo, il sacerdote non è libero di agire come desidera, ma deve rispondere ad una determinata prassi e ad una determinata struttura di valori stabiliti dalla tradizione; un sacerdote non può corrompere la sua funzione.
Questo ci porta alla seconda conseguenza; il sacerdote deve essere “trasparente” nell’esecuzione delle sue funzioni, non si deve, cioè, poter vedere alcun “interesse personale” del sacerdote nell’esecuzione delle sue funzioni. Ora, si parla tanto dello strapotere della Chiesa nel Medioevo, ma tale potere, era in realtà, estremamente limitato, proprio in virtù di tali assunti circa il ruolo del sacerdote.
Nel momento in cui il popolo percepiva i sacerdoti nell’atto di “rompere” tali principi, cioè di non rappresentare più Dio ma solo se stessi, allora vi potevano essere rivolte e ribellioni. Lutero poté fare la sua riforma solo nel momento in cui nel popolo era ben chiara la percezione che il clero del tempo stesse smettendo di “rappresentare” Dio.
Ora, questo attributo di “rappresentatività” si riflette anche negli ordinamenti giuridici moderni. Il rappresentante del popolo non è “libero” di agire come crede. Non solo deve agire nell’interesse del popolo, ma deve anche agire secondo strutture e regole stabilite dal popolo stesso; egli non possiede l’arbitrarietà per agire come meglio crede.
La rappresentazione, quindi, non si traduce in un trasferimento di “sovranità”; questo perché il rappresentante non può e non deve turbare l’ordine giuridico e politico quotidiano. Specialmente, egli NON PUO’ e NON DEVE mettere il proprio interesse personale al di sopra della stabilità sociale e giuridica ed al di sopra della sovranità popolare; altrimenti il popolo può sentirsi degnamente in diritto di revocare la rappresentatività.
Qui sta la base della confusione moderna riguardo la crisi delle democrazie: i “rappresentanti” del popolo non sono più trattati da “rappresentanti”, ma da “delegati”. L’Unione Europea stessa è un grande meccanismo di “delegazione” attraverso la quale spazi sempre più ampi di sovranità vengono trasferiti in maniera permanente dal popolo ad un gruppo di tecnici ed esperti, che di fatto vanno a concentrare la sovranità nelle proprie mani.
Un esempio storico della perniciosità di tale processo delegatorio possiamo trovarlo nel regno dei Franchi, stabilitosi dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, retto dalla casata dei Merovingi. I Merovingi nominarono la dinastia dei Pipinidi (di cui Carlo Magno e Carlo Martello sarebbero stati discendenti) “Maestri di Palazzo”; ossia maggiordomi reali delegati dal re con ampi poteri. Non ci volle molto affinché i Pipinidi, appropriandosi di una sovranità sempre maggiore, poterono soppiantare la casata dei Merovingi, legittimamente sovrana, senza generare conflitti di rilevante entità e persino col benestare delle altre case regnanti del tempo.
Il che ci porta al nostro problema contemporaneo. Cosa si intende, con l’articolo primo della nostra Costituzione, che la “sovranità appartiene al popolo”? Si intende, né più né meno, che solo il popolo può decidere dei “limiti” della prassi politica e giuridica. Nel senso che solo il popolo può decidere di sospendere le usuali prassi politiche in virtù di una situazione eccezionale che le mette in pericolo.
Nella democrazia rappresentativa, il rappresentante non è investito del potere di decidere dell’eccezione, ma solo di poter stabilire le normali prassi legali. In questo senso, dunque, la sovranità, negli ordinamenti democratici contemporanei, va interpretata come il diritto del popolo a ribellarsi, a scindere il contratto sociale, nel momento in cui le autorità costituite si arrogano il diritto di controllare illegittimamente maggiori spazi di potere.
Tale diritto all’eccezione, che, lo ripeto, pertiene unicamente al popolo sovrano, ha anche la funzione di tutelare il popolo stesso dagli arbitri del potere, una funzione che nella pratica delegatoria è invece assente. In pratica, nel momento tutta la sovranità verrà delegata alla Unione Europea, allora i cittadini saranno aperti a soprusi di ogni tipo. Nel momento essi non controllano più “l’eccezione”, allora ne saranno le vittime, e non ci saranno “diritti” che tengano in quel caso.
Ora, non si vuole delegittimare in toto la pratica delegatoria, che mantiene comunque la propria funzione politica, né si vuole sconfinare nel campo delle utopie o “idealità”; tuttavia, è sempre bene ricordare qual è il fondamento legittimante del potere politico e in che luce va interpretata l’azione dei parlamenti e la loro relazione col popolo. La perdita di questa visione e relazione aprirebbe, di fatto, gli individui a qualunque arbitrio dei potenti, trasformando le società democratiche in vere e proprie situazioni da “leggi della giungla”, ove unicamente i rapporti di forza divengono i fondamenti del diritto e dei valori.
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