Delegazione e Rappresentazione: la sovranità come problema della politica contemporanea (1a parte)
di EMILIO DI SOMMA (FSI Napoli)
Quando si parla di “sovranità”, specialmente a persone di tendenza “europeista”, la prima critica che viene rivolta ad un sovranista è il voler tornare ai “nazionalismi” moderni che hanno condotto alla Prima e Seconda guerra mondiale.
A parte il fatto che una simile lettura della storia e degli stati-nazione è estremamente semplicistica ed esposta a critiche di diverso tipo, che per ragione di spazio non verranno qui presentate, vi è, in aggiunta, in una simile lettura una incomprensione di fondo del sovranismo che, sebbene si appoggi sicuramente ad uno spirito patriottico, non si fonda, nella sua essenza teorica e politica, sul feticcio dello stato-nazione, tipico dei nazionalismi.
Il sovranismo, invece, affronta il tema della sovranità da un punto di vista molto più serio, legato innanzitutto alla legittimità del potere politico ed alle sue influenze sulla vita della cittadinanza; sono questi, innanzitutto, i temi che vorrei chiarire con il seguente articolo, ovvero “sovranità” come legittimità e “sovranità” come campo d’azione della politica nella vita dei cittadini.
Incominciamo, quindi, con dire che “sovrano è chi decide dello stato di eccezione”. Qualunque giurista, filosofo del diritto, politico, o studioso di storia del diritto, che voglia affrontare il problema della sovranità, non può prescindere da questa dichiarazione di Carl Schmitt, ed in questa dichiarazione sta, oggi, l’essenza della democrazia rappresentativa come problema della politica contemporanea.
Uso il termine “problema” non per riferire alla democrazia o alla sovranità in quanto tali, bensì per riferire alla loro comprensione ed utilizzo nel linguaggio politico e giuridico contemporaneo, che il più delle volte mostra una confusione di fondo, quando non una malafede dettata da interessi politici immediati e di scarso respiro (pensiamo ai sovranisti dell’ultima ora, ai Salvini, alle Meloni, etc…).
Cosa si intende quindi con “sovranità” ed “eccezione”? L’eccezione non è altro che il “limite” della pratica politica e giuridica. L’eccezione giuridica, affermando ciò che è “al di fuori” del diritto e della politica, riafferma, al tempo stesso, ciò che è “valido e duraturo” nel diritto stesso.
Possiamo trovare un chiaro riferimento all’eccezione giuridica e la sua esecuzione sovrana nella pratica dell’ostracismo, tipica delle democrazie dell’antica Grecia. L’ostracismo era un istituto giuridico attraverso cui la cittadinanza greca, tramite il voto, esiliava dalla città elementi ritenuti pericolosi per l’ordine politico e giuridico. Contrariamente a quanto si pensa, l’ostracismo non comportava una esclusione permanente dalla cittadinanza, o una perdita dei diritti politici. L’ostracizzato manteneva la sua qualifica di cittadino, così come le sue proprietà e diritti politici, gli era semplicemente interdetto l’accesso allo spazio cittadino ed ai pubblici uffici per una durata di dieci anni.
Nell’ostracismo, quindi, vediamo realizzarsi significativamente la realtà dell’eccezione giuridica, così come della sovranità politica. I cittadini, avendo riscontrato un elemento che rischia di perturbare l’andamento quotidiano della prassi politica e giuridica, decidono di escludere temporaneamente l’elemento disturbante da tali prassi, a tutela della prassi stessa.
Le intenzioni dell’individuo ostracizzato rivestono, in questa procedura, un secondo piano. Ciò che contava era la sua pericolosità potenziale, i suoi “eccessi”, anche in atteggiamenti che possiamo considerare positivi, che minavano la stabilità della pratica politica. Per esempio, Plutarco racconta che perfino Aristide, uomo politico greco correttissimo, al punto da essere soprannominato “il giusto”, fu a sua volta ostracizzato dalla città di Atene, quando i cittadini si preoccuparono dei suoi interventi deleteri sulla stabilità delle istituzioni.
L’eccezione, quindi, lo ripeto, rappresenta il limite dell’applicazione giuridica. E’ il riconoscimento di quei campi dove il diritto normale “non può più intervenire”, tale limite, tuttavia, non fa altro che riaffermare la struttura ordinaria del diritto. Il buon sovrano ha ben presente tale distinzione e fa in modo che l’eccezione giuridica non diventi mai “arbitrio”, cioè non vada mai a rompere quello che è l’ordinamento quotidiano della prassi politica, ma sempre, invece, a rinforzarla.
Ovviamente, questo apre un altro ordine di problemi nel momento in cui andiamo a valutare le nostre “democrazie rappresentative” contemporanee. Personalmente, sono sempre stato critico, in passato, del concetto di “democrazia rappresentativa”, proprio perché essa costituisce un problema di sovranità. Se la sovranità la si può solo eseguire in atto, come nel caso dell’ostracismo nell’antica Grecia, allora non può esistere in “potenza”. Cioè, un popolo che è tagliato fuori dalla prassi politica, come nel caso delle democrazie contemporanee, non possiede, di fatto, alcuna sovranità.
Tuttavia, sono stato costretto a rivedere tale convinzione nel momento in cui mi sono reso conto di una disonestà di fondo insita nel dibattito politico contemporaneo, a tutto vantaggio dei governanti e di cui i governati non sembrano essersi resi ancora conto. Si tende oggi a confondere la “rappresentatività” degli ordinamenti politici con un atto di “delegazione”. I due atti, in realtà, non potrebbero essere più differenti.
[continua]
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