Mélenchon: Il movimento rivoluzionario in giallo
di JEAN-LUC MÉLENCHON
Traduzione a cura di Sergio Giraldo (FSI Monza)
17 e 18 novembre: queste due date hanno segnato la transizione di un’epoca. Ci sono stati il movimento di giubbotti gialli e anche i primi incontri nazionali dei quartieri della classe operaia. E, naturalmente, il braccio di ferro elettorale nel collegio elettorale di Valls. Dirò la mia su questi argomenti nelle prossime ore. Qui discuto l’azione dei gilets jaunes. Dopo essersi sviluppata e messa in atto per più di una quindicina di giorni, si è estesa dal giorno successivo, 18, e nulla dice, al momento in cui scrivo, che non si estenderà ulteriormente sul terreno.
Il radicamento del movimento è ovviamente avvenuto nelle cosiddette aree extra-urbane, ovunque il trasporto automobilistico rimanga senza alternative e dove quindi l’aumento della tassa sui carburanti colpisce senza possibilità di sfuggirle. Ma abbiamo visto che, inaspettatamente, anche i centri cittadini sono stati spesso coinvolti nelle mobilitazioni che lì si andavano radunando.
Poco importa. Questo movimento è diverso da qualsiasi cosa abbiamo visto finora. A mio avviso, ha tutte le caratteristiche dei fatti che la teoria contenuta ne L’era del popolo annuncia. È per l’accesso a un bisogno indotto direttamente dall’organizzazione dello spazio di vita dell’epoca urbana che si crea la cristallizzazione della rabbia e dell’azione. Essa esprime con immediatezza un malessere molto più ampio di quanto si dica. Quante volte le persone, interrogate sul carburante, rispondono con l’aumento della contribuzione sociale generalizzata (CSG)? O ancora più ampiamente dicendo “non ce la facciamo più”. Tutto un mondo è in gioco in questa azione.
La forma dell’azione è tipica dell’era del popolo. Abbiamo visto una volta di più come funzionano i social network, pur senza trascurare il numero di assemblee cittadine di massa che si sono tenute. Gli uni e le altre sono state le strutture spontanee di base riconosciute da tutti come ovvie e legittime.
Infine, l’apertura totale dell’azione a coloro che lo desideravano senza distinzione di opinioni politiche o altro, è una caratteristica dei veri movimenti popolari di massa. Ciò esprime una realtà sociale globale, vale a dire che proviene da tutti, parla a tutti e dove l’azione è il principio unificante. Pertanto, se crediamo, come nel nostro caso, che le rivoluzioni dei cittadini siano processi costruiti nel tempo e non solo “grandi notti”, questi due giorni sono solo un inizio.
Le persone hanno imparato ad agire insieme e hanno fiducia in loro stesse. Hanno scoperto la copertura mediatica ostile nel corso del tempo ed è un altro insegnamento molto utile per la maturazione delle coscienze. Si sono sentiti forti per il loro numero, la loro diversità, la loro efficacia. Ma hanno visto un muro di fronte a loro mentre governo e mass media tiravano i fili cui forse loro stessi avevano creduto nel passato: sottostima del numero dei partecipanti, continua drammatizzazione degli incidenti, moltiplicazione della violenza delle “forze dell’ordine’.
Vediamo ancora come la lotta rimane la migliore scuola di formazione di massa. Per noi che non abbiamo l’obiettivo di costruire un partito rivoluzionario, ma piuttosto di vedere auto-costruire un popolo capace di esserlo, tale apprendimento di massa è tanto più gradito perché è raro nei tempi ordinari. Dimostrazione che noi oggi non viviamo un momento “ordinario”.
Di fatto, la storia del dégagisme riprende il suo corso dopo essere stata distratta dall’episodio allucinogeno di Macron-Giove. Una mobilitazione di massa avente come punto di riferimento una messa in discussione delle scelte di bilancio globali del governo è fuori dall’ordinario. Pochi ancora lo comprendono nel campo politico tradizionale. L’intervento di Edouard Phillipe domenica sera lo attesta. In vecchio stile, ha parlato per non dire nulla, mentre gli elementi del linguaggio rimanevano “nessun cambiamento di rotta”.
Quindi, alla vecchia maniera, il governo conta sull’usura delle persone in azione. Potrebbe raggiungere il suo obiettivo a breve termine. Ma è impossibile per esso riavvolgere la pellicola che è stata proiettata davanti agli occhi di così tante persone. L’autocoscienza acquisita non si ritrarrà così facilmente. E la designazione dei macronisti come avversari non sparirà. Certamente, non sappiamo quali modi troverà per farsi strada, ma la pressione non cesserà.
Più deplorevole è la cecità del mondo tradizionale della “sinistra”. Alcuni ascrivono il movimento all’estrema destra, il che equivale ad attribuirne la direzione proprio a questa, anche se il movimento cerca di sfuggire ad ogni controllo. Altri fanno il gioco del governo attribuendo ai gilets jaunes un presunto sentimento anti-ecologista. Si iscrive in quest’area l’ex ministro socialista Delphine Batho quando twitta che il movimento è una “azione di solidarietà con la lobby del petrolio”. Neppure Benoît Hamon è rimasto indietro in questa corsa quando ha fatto un appello alla calma indirizzato ai gilets jaunes, mentre è proprio una persona che portava quel gilet ad essere appena stata uccisa.
Dal punto di vista sindacale, a dispetto dell’evidenza che si tratti di una lotta per il potere d’acquisto dei salari, la presa di distanze, o peggio, è la regola. Certamente, i sindacati dipartimentali, compresa la CGT, qua e là, e Solidaires, a modo suo, avevano un atteggiamento più attivo. Ma nel complesso, c’è stata piuttosto la chiusura e il rifiuto, come mostra tragicamente l’intervento radiofonico di Phillippe Martinez. Non si potrebbe fare di peggio. Non per il risultato concreto.
In effetti, il movimento è simile a una forma insurrezionale, ed è quindi di natura e ampiezza non alla portata delle organizzazioni tradizionali. Ma è un divorzio incomprensibile tra forze sociali che sono in gran parte costituite dalle stesse persone. Tutto sommato, dice molto sul modo con cui il paese si riorganizza.
La France insoumise, che vuole contendere all’estrema destra ora dominante la rappresentazione politica del “popolo-popolare”, si è direttamente legata al movimento nel massimo rispetto delle sue caratteristiche di autonomia e auto-governo. Ovunque, le persone coinvolte nei nostri gruppi di azione si sono messe al servizio delle iniziative del movimento. Quasi tutti i nostri deputati hanno partecipato personalmente agli eventi nella loro regione senza cercare alcuna visibilità particolare. Come me, molti in precedenza si erano espressi in questo senso in video o con discorsi all’assemblea, come quello di Mathilde Pannot visto da tre milioni di persone.
In complesso, noi non volevamo il divorzio proposto da così tante persone che non accettavano la natura di questo tipo di evento “fuori controllo”, ma invece volevamo essere come pesci nell’acqua. Cosa che è stata fatta.
Perché la nostra ragione di essere non è iniettare coscienza, ma illuminare l’azione, essere un detonatore quando è possibile e, in ogni circostanza, presentarsi al fianco di quelli che chiamiamo “i nostri” quando questi difendono il loro diritto all’esistenza. E perché identifichiamo questo movimento come la forma più avanzata di azione popolare di massa nel nostro paese, aprendo la strada alla sua generalizzazione che chiamiamo rivoluzione dei cittadini.
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