Hier trägst du mit
di IL PEDANTE
Su questo blog si è spesso documentato come la comunicazione politica dei nostri tempi radichi le sue retoriche nell’odio sociale. Chi sta (ancora) un po’ meglio vive sulle spalle di chi sta peggio. In una «economia sociale di mercato fortemente competitiva» il vantaggio dell’uno è la rovina dell’altro. E anche il debole è un nemico: nell’eterna rincorsa di un equilibrio economico che non torna mai, i suoi bisogni non sono sostenibili né giustificati dal contributo produttivo che apporta. Sicché è colpevole: sia perché non coglie le opportunità di un sistema che premia chi si impegna, sia perché intralcia quel sistema rivendicando diritti che non merita.
Un sistema radicato nell’odio produce odio. Molti amici si sono indignati nel leggere i contenuti della pagina Facebook «Vecchi di merda» dove si insultano gli anziani che percepiscono una pensione maturata con il metodo retributivo. Alla notizia (vera) di un centro anziani il cui personale percuoteva i degenti, gli amministratori della pagina commentavano che «picchiare un retributivo non è reato».
Non sappiamo quanto siano veri o fake gli autori di questa iniziativa, ma il punto è un altro: che ciò che scrivono è perfettamente in linea con il sentire politico dominante e con chi se ne fa latore nell’accademia e sui giornali. Ingiurie a parte, le rivendicazioni di VdM sviluppano il senso economico di tanti titoli degli ultimi anni:
Da tempo ci ripetono che i vecchi rubano il futuro ai giovani. Che «hanno fatto il debito pubblico». E che se i figli vogliono stare meglio i padri devono stare peggio. Senza scomodare la psicopatologia edipica, sono tutti corollari del teorema della scarsità: «Scannatevi, perché non ce n’è per tutti». O di quello del potere: se i poveri si accapigliano nelle fogne, è meno probabile che azzannino le caviglie dei ricchi. Se l’invidia sociale è vecchia quanto la società, la prevalenza del giovane sul vecchio, cioè del forte sul debole, va ancora più indietro: al mondo delle bestie da cui ci siamo evoluti. Sicché sarebbe uno spreco non fare di questo patrimonio ancestrale uno strumento di dominio politico e di controllo del malcontento popolare:
In queste retoriche cova spesso la fregola di mandare al macero la democraziae di sopprimere i diritti degli avversari e dei diversi (pardon, dei competitors) escludendoli dalle decisioni comuni. Così accadeva all’indomani del voto inglese sull’uscita dall’Unione, con un rito rabbioso e «paidocratico» celebrato a stampa unita. In un precedente articolo dedicato a quella vicenda osservammo che:
In questa dialettica, anziani e giovani non sono altro che dramatis personae per indicare il vecchio e il nuovo, e quest’ultimo non è altro che l’agenda governativa in corso. Agli anziani tutti metaforici di questa mitografia si attribuisce la «paura del cambiamento» e l’attaccamento «antistorico» alle certezze del passato, «dall’alto delle loro pensioni, dei loro ricordi di gioventù e dai cuscini di un divano al di fuori del mondo e del futuro» (Federica Bianchi, L’Espresso). […] il vecchiume a cui si allude è […] il retaggio di sicurezze lavorative, sociali e patrimoniali che hanno effettivamente caratterizzato le gioventù degli elettori più stagionati e il periodo economicamente più florido del nostro continente. Non contenti di averle ampiamente smantellate nei fatti, i governi […] puntano oggi a squalificarle anche nell’immaginario associandole ai volti bavosi e sdentati degli orchi e delle streghe che, come nelle fiabe, divorano i bimbi rubando loro il futuro.
Con l’ovvio epilogo:
La vicenda, già in sé squallida, potrebbe chiudersi qui […] Se non fosse che la fantasiosa crociata contro il voto degli anziani si è subito trasformata in un attacco reale al diritto di voto degli anziani, e quindi al suffragio universale, aprendo scorci inquietanti sugli umori antidemocratici che covano tra chi nell’establishment.
La gerontofobia è sdoganata, è normale come il caffè dopo i pasti. Ecco la risposta di Facebook a un lettore che segnalava la pagina VdM come contenuto che incita all’odio:
E in effetti gli standard della comunità Facebook non includono la discriminante dell’età. Che sarà mai, in fondo. Non sono mica donne, ebrei, migranti, maomettani o transomosessuali. Sono solo vecchi. E quella è solo un’opinione, anzi un’opinione in voga. A conferma che la lotta all’hate speech non serve a proteggere le persone ma le idee di chi lo condanna.
Personalmente amo intrattenermi con gli anziani e amo anche le loro debolezze (qui una bella poesia di Claudio Baglioni), sicché non mi costa fatica considerarli una ricchezza. Ma se mi turo il naso potrei persino ringraziare i ragazzi (?) di VdM, perché in poche battute hanno denudato la ferocia di chi pensa e scrive le stesse cose ammantandole di sproloqui contabili e appiccicandosi l’etichetta di moderato. Di chi semina odio in giacca e cravatta nella certezza che saranno altri a raccoglierlo, ma soprattutto a subirlo.
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Ma fingiamo che ci si creda davvero.
Incominciano col dire che il match contributivo-retributivo è una dialettica per criceti. Un sistema di assistenza pubblica deve assistere i cittadini secondo i bisogni di ognuno. Una volta fissato lo standard, gli strumenti sottostanti sono dettati dal fine. Se si accettano le premesse tecniche come finali ci si lascia condurre come le cavie nel labirinto di un laboratorio, fino all’esito stabilito da chi ha imposto quelle premesse. I cervelli adulti ragionano sul sistema, non nel sistema.
È vero che le pensioni di anzianità assorbono una buona parte della spesa dello Stato (circa un quarto). Ma prima di chiederci che cosa si potrebbe fare con quei soldi dovremmo chiederci che cosa ci si stia facendo. I pensionati sono la categoria con più bisogni e più tempo libero. Le loro pensioni le spendono in farmaci e cure mediche, case di riposo (che di solito costano più della pensione, quindi devono dare fondo anche ai risparmi), circoli ricreativi, ristoranti e balere, teatri e alberghi (anche in inverno, anche quando non si va in ferie e i gestori dovrebbero altrimenti chiudere), viaggi, capricci e regali ai nipoti, oltre il resto. A chi danno questi soldi? Ad altri vecchi bavosi? No. A chi lavora, cioè ai giovani: animatori, infermieri, medici, psicologi, fisioterapisti, farmaceutici, camerieri, ristoratori, accompagnatori, commercianti, imprenditori ecc. La spesa pensionistica è, se non l’unico, il principale pilastro su cui ancora insiste lo stimolo pubblico della domanda privata.
Ora facciamo contenti i paidocrati: riduciamo tutte le pensioni. Sì, certo, tra i suddetti lavoratori molti finirebbero licenziati o in rovina per mancanza di clienti, però vuoi mettere? Si liberebbero «risorse» per i giovani. Come? Ad esempio con la riduzione dei contributi assistenziali versati da chi avrà ancora un lavoro. Ma sarà vero? Non ne ha mai parlato nessuno e non è mai successo. Tanto che la riforma Fornero, quella fatta per salvare i conti pubblici e rendere sostenibile il sistema, prevedeva di aumentare l’aliquota delle partite IVA fino al 33%. Senza dire che con l’ulteriore aumento della disoccupazione calerebbe il gettito rendendo ancora più remota l’eventualità di una riduzione fiscale.
È tutta da piangere, insomma. Comunque la si metta, un sistema pensionistico e una spesa pubblica che non possono – cioè non vogliono – fare deficit quando occorre sono un carnaio dove tanti polli si contendono poco becchime e dove, non potendo vincere, ci si impegna affinché perda anche il vicino. È la pena di un’economia ridotta al soldo e non alle cose e ai bisogni, dove per non infliggere qualche zerovirgola di inflazione ai patrimoni di chi non ha proprio bisogno di pensione, è lecita la miseria e la sofferenza di chi ci vive, fossero anche i propri genitori. È la subciviltà del «quanto ci costa», la stessa ritratta nell’immagine che apre la nostra pedanteria: «Anche tu porti il fardello! Un malato alla nascita costa in media 50.000 marchi fino ai 60 anni di età».
Era la Germania del 1940.
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