Trump bombarda la Siria: neanche 100 giorni per essere fagocitato dal sistema
di FEDERICO DEZZANI
Nella notte tra il 6 ed il 7 aprile è finita l’effimera parabola del presidente “populista” Donald Trump, fagocitato dallo stesso establishment che diceva di voler combattere: con 59 missili da crociera lanciati su una base aerea siriana, il neo-inquilino della Casa Bianca ha punito “il regime di Assad” per l’attacco chimico di Idlib dello scorso 4 aprile, un’evidente orchestrazione ad hoc. È superficiale affermare che Trump sia succube di Israele o degli alleati sunniti: il raid sulla Siria è una vera e propria resa all’establishment atlantico, ossessionato dal rinnovato attivismo di Mosca in Europa e Medio Oriente. Gli attacchi interni e le faide contro l’amministrazione Trump cesseranno, ma con essi muore anche la distensione con Mosca e le vaghe promesse di neo-isolazionismo. Le elezioni francesi si svolgeranno in un clima di fibrillazione internazionale ed il loro valore aumenta ancora.
L’establishment ha già riconquistato la Casa Bianca
La lotta tra il “populista” Donald Trump e l’establishment atlantico, liberal e finanziario, quello che poggia sull’asse City-Wall Street, non è durata neppure tre mesi: il 20 gennaio scorso il neo-presidente si è insediato alla Casa Bianca e dopo solo dieci settimane, appestate dalla diffusione di dossier, agguati al Congresso, insinuazioni sui suoi rapporti con la Russia, colpi bassi dei servizi segreti, Trump ha infine capitolato.
Tra un combattimento all’arma bianca e la resa, l’immobiliarista di New York ha scelto la seconda strada, chinando il capo ed adeguandosi alle direttive dell’oligarchia. Il gesto di riconciliazione con l’élite atlantica è coinciso col bombardamento della base aerea siriana di Shayrat nella notte tra il 6 ed il 7 aprile, motivato dal precedente attacco chimico su Idlib che gli angloamericani avevano orchestrato ad hoc: 59 missili Tomahawk con cui il neo-presidente ha cestinato la campagna elettorale, le sue promesse di distensione con la Russia ed il vagheggiato neo-isolazionismo, per ricevere il battesimo dell’establishment. Ora Trump è parte integrante del sistema: gli attacchi della stampa cesseranno, il partito repubblicano si acquieterà, la CIA smetterà di produrre scomodi dossier ed il Dipartimento di Stato si allineerà allo Studio ovale.
Poche mosse in rapida successione sono state sufficienti per piegare un presidente che aveva suscitato grandi speranza negli Stati Uniti e all’estero per la sua carica anti-sistema, ma all’atto pratico ha dimostrato di non possedere né la fibra, né l’esperienza, né la forza politica, per imporre la sua linea e liberare la nazione americana dall’élite mondialista. Il 24 marzo l’ammutinamento del partito repubblicano impedisce l’abolizione dell’Obamacare; il 31 marzo l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn si dice pronto a testimoniare davanti alla commissione del Congresso che indaga sul “Russiangate” in cambio dell’immunità; il 4 aprile si consuma nella provincia di Idlib l’attacco chimico imputato al regime di Assad e realizzato dai “White Helmets” finanziati dagli angloamericani. La strage siriana è il test decisivo per Trump: o si piega alla volontà dell’establishment o sarà estromesso. Trump getta la spugna: il 5 aprile, Stephen Bannon, l’anima “populista” della campagna elettorale, è allontanato dal Consiglio per la Sicurezza nazionale per la gioia del Pentagono. Il 6 aprile la Casa Bianca ribalta di 180 gradi la strategia sinora seguita sulla Siria: il Segretario di Stato Rex Tillerson sostiene che Bashar Assad deve essere rimosso e nelle prime ore del 7 aprile, è sferrato il blitz sulla base aerea di Shayrat, da dove sarebbe partiti i fantomatici caccia per gasare Idlib.
Sebbene Mosca disponga di mezzi idonei a neutralizzare l’attacco (i sistemi S-300 e S-400), non si registra nessuna reazione da parte russa: il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, dirà che il personale della base è stato evacuato dopo l’avviso americano dell’imminente raid.
È da notare la tempistica dell’attacco: poche ore prima che il presidente Trump incontri in Florida il leader cinese Xi Jinping e a distanza di pochi giorni dalla visita del Segretario di Stato Tillerson in Russia, l’11 e 12 aprile1. Il blitz statunitense è un monito che la “nuova” Casa Bianca, quella del rinato Donald Trump, lancia al resto del mondo: nessun isolazionismo, nessuna distensione, nessuna divisione del mondo in sfere d’influenza. L’impero angloamericano è vivo ed è pronto alla guerra per difendere la sua egemonia mondiale: esattamente l’opposto di quanto aveva promesso Trump in campagna elettorale, delineando uno scenario di progressivo ritiro degli USA. Smantellamento della NATO, ritiro dal Giappone, fine delle interferenze in Medio Oriente, etc. etc.
C’è chi dice che il bombardando dell’installazione militare siriana sia la prova della dipendenza di Trump dal Likud e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu; altri dicono che, oltre a Tel Aviv, il presidente americano abbia voluto rinsaldare i legami con le potenze sunnite regionali, Turchia ed Arabia Saudita in testa. Non sono affermazione errate, ma parziali: quelli israeliani, turchi e sauditi sono pur sempre piccolo o medi nazionalismi.
L’azione di Trump deve essere letta considerando cosa è oggi il Medio Oriente: una grande scacchiera dove il declinante impero angloamericano si confronta con la rinnovata potenza mondiale russa. L’intervento in Siria è prima di tutto una vittoria dell’establishment atlantico, atterrito dai progetti neo-isolazionisti del primo Trump: Washington e Londra sono ancora in Medio Oriente e sono pronte a “contenere” la Russia in qualsiasi quadrante. Nessun Levante in mano ai russi, nessun smantellamento della NATO, nessun attacco al suo corrispettivo politico, l’Unione Europea: è questo il nuovo corso del Donald Trump “normalizzato”.
Sono sintomatici, a questo proposito, gli editoriali della stampa liberal, la stessa che fino al 5 aprile braccava Trump con le accuse di connivenza con Mosca: ora che il presidente si è piegato alla linea “russofobica”, ora che è disposto a combattere l’esuberanza russa in Medio Oriente, ora che la distensione, mai decollata, è morta del tutto, è un fiorire di elogi e ripensamenti.
“Striking at Assad Carries Opportunities, and Risks, for Trump2” scrive il New York Times, asserendo che il blitz militare è un’occasione per “raddrizzare” la sua amministrazione allo sbando, riaffermando l’autorità americana nei confronti di Mosca. “A president who launches missiles into Syria is a president these GOP Trump skeptics can get behind” titola il Washington Post, assicurando che le fratture dentro il partito repubblicano si riassorbiranno presto, ora che Trump si è adagiato alla linea dei vari neocon. “Trump Shows He Is Willing to Act Forcefully, Quickly” gioisce il Wall Street Journal, cantando le lodi del marziale Trump, vero “commander in chief”.
“La chance di Trump e la credibilità persa da Obama” è il significativo articolo di Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, il tempio statunitense dell’oligarchia atlantica. Afferma l’autore3:
È raro che la storia offra una seconda possibilità (dopo il mancato bombardamento di Obama dell’agosto 2013, Ndr), ma gli Stati Uniti e gli altri Paesi si trovano precisamente in questa situazione. (…) Un’opzione è attaccare le posizioni siriane, soprattutto i campi d’aviazione e gli aerei associati con le armi chimiche. (…). Un’azione militare russa, tuttavia, non è da considerarsi scontata. Il presidente Vladimir Putin potrebbe esitare prima di rischiare e adottare un atteggiamento di sfida, considerando le difficoltà economiche e il riaccendersi delle proteste politiche in patria. (…) Un altro approccio sarebbe quello di fornire attrezzature di difesa antiaerea ai curdi siriani e a gruppi sunniti dell’opposizione ben selezionati. (…). Vale la pena sottolineare che nei prossimi mesi bisognerà fare di più per rafforzare i sunniti locali, che devono poter garantire la sicurezza in quelle aree della Siria che devono essere liberate dai gruppi terroristi. (…). Trump ha l’opportunità di marcare le distanze rispetto al suo predecessore e dimostrare che c’è un nuovo sceriffo in città; Theresa May, la premier britannica, ha un’opportunità analoga. È raro che la storia offra una seconda possibilità: stavolta non va sprecata.”
Ecco qual è la missione del nuovo Trump “addomesticato”: portare a compimento il piano di balcanizzazione del Medio Oriente iniziato nel 2014 con l’improvviso scatenarsi dello Stato Islamico, ritagliando tra Siria ed Iraq un “Sunnistan” ed un Kurdistan, due nuove entità legate agli angloamericani ed agli israeliani. È superfluo dire che tale strategia è inconciliabile con la difesa dell’integrità nazionale degli Stati sostenuto da Mosca ed appoggiata da Teheran.
Lo stesso bombardamento aereo del 6 aprile si inserisce in questa logica di balcanizzazione della regione: nessun jet siriano è partito dalla base siriana di Shayrat per “gasare” i ribelli, ma l’installazione, situata nella provincia di Homs e aperta ai russi nel dicembre 2015, è di strategica importanza per contenere l’ISIS nell’est e nel sud della Siria, le stesse zone in cui dovrebbe nascere il Califfato islamico protetto dagli angloamericani. Non è certamente casuale che i miliziani islamisti abbiamo prontamente sfruttato il blitz aereo di Trump per riprendere l’iniziativa contro le postazioni dell’Esercito Arabo Siriano4.
Gli effetti di una Casa Bianca “rimessa in riga”, superano però i confini del Medio Oriente ed hanno profonde ripercussioni anche nell’Unione Europea, dove, dopo l’elezione di Trump, i movimenti populistici avevano potuto contare sulla sponda americana e su quella russa.
Il voltafaccia di Trump priva i nazionalisti europei del supporto statunitense, in coincidenza per di più di un appuntamento elettorale decisivo per le sorti della UE/NATO: le imminenti elezioni presidenziali francesi. Anziché avvalersi di una cooperazione tra Putin e Trump in chiave anti-Bruxelles, la candidata del Front National affronterà le elezioni in un clima di tensione internazionale e forte polarizzazione, utile ai suoi detrattori per dipingerla come la “quinta colonna”di Putin in Francia.
Constata la conversione di Trump ed il deterioramento sempre più preoccupante della situazione internazionale, la vittoria di Marine Le Pen riveste un ruolo ancora più importante: solo svincolandosi da Bruxelles, che è sinonimo di Unione Europea ma anche di NATO, sarà possibile per i Paesi europei evitare di essere trascinati nel conflitto tra angloamericani e potenze euroasiatiche che si va delineando all’orizzonte, giorno dopo giorno. Poco importa se a iniziarlo sarà Trump o qualsiasi altro burattino dell’establishment atlantico.
1http://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-syria-russia-usa-idUSKBN1771V6
2https://www.nytimes.com/2017/04/07/world/middleeast/airstikes-syria-trump-russia.html
3http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-04-07/la-chance-trump-e-credibilita-persa-obama–134537.shtml?uuid=AEJKBQ1
4https://sputniknews.com/world/201704071052396619-russian-mod-us-attack-syria-terrorists-offensive/
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