L’emergenza, la pace
di IL PEDANTE
Sul tema delle ONG umanitarie, al netto di quelle semisconosciute oggi giustamente sotto processo, in linea di principio non esulto quando soggetti non governativi operano in settori strategici e vitali. Ma è pur vero che se i governi non si attivano in quei settori o se ne ritirano adducendo i pretesti più penosi, è un bene che quegli spazi siano occupati da organizzazioni motivate e senza scopo di lucro piuttosto che dai “mercati” o da nessuno. Evidentemente chi si ammala, muore di fame o è in pericolo non può attendere che la politica si faccia più umana.
Emergency è una delle più importanti ONG umanitarie in Italia. Opera in Afghanistan, Iraq, Italia, Repubblica Centroafricana, Sierra Leone e Sudan. Dal 1994 è intervenuta in 17 paesi con progetti di assistenza alle vittime della guerra e della povertà. Secondo quanto riportato sul sito ufficiale, dalla sua fondazione ha erogato cure a più di 8 milioni di persone. A partire dal 2006 è attiva anche nel nostro Paese con poliambulatori, ambulatori, unità mobili e altre iniziative di assistenza socio-sanitaria a tutti e di primo soccorso agli immigrati che sbarcano in Sicilia. Nel 2015 (ultimo bilancio pubblicato) impiegava circa 3000 dipendenti di cui il 90% locali e 261 in missione, e 3500 volontari sparsi nel mondo. I ricavi, pari circa 52 milioni di euro, provenivano principalmente dal 5 per mille e da donazioni private (20 milioni).
Lo ripeto: non è buona notizia quando si affidano la salute e la vita degli ultimi all’elemosina dei benestanti. Di ciò non si può però fare una colpa a Emergency: che è la toppa, non il buco. Quando denuncia la sproporzione oscena tra le spese militari dei governi e i loro investimenti in salute, Gino Strada ha ragione da vendere e dimostra di conoscere bene il problema.
Ciò detto, è necessario interrogarsi sulle dinamiche che producono l’emergenza, lo shock kleiniano e, quindi, l’ultima spiaggia del capitalismo compassionevole. Se papà Strada se la prende giustamente con le bombe, il pensiero successivo è che le bombe si fabbricano, si acquistano e si sganciano perché ci sono i conflitti. E sua figlia Cecilla, oggi presidente di Emergency, si trovava in questi giorni in mezzo al fuoco incrociato di un conflitto virtuale certo non mortifero come quelli in cui opera d’abitudine, ma le cui cause e conseguenze minano il consenso e il tessuto economico da cui dipendono anche le ONG. Alcuni giorni fa scriveva su Twitter: “La migrazione dell’uomo: inizia nella preistoria. Lo Stato nazione: nel XIX secolo. La natura mi sembra più vicina al migrare che ai confini“. Mah. A noi invece consta che gli individui non migrino per seguire il richiamo della natura, ma per sottrarsi a un bisogno e a una sofferenza quasi mai naturali. E che i confini non nascano con “lo Stato nazione” del XIX secolo, ma con le prime comunità organizzate e stanziali, cioè con la civiltà. A meno di credere che la Grande Muraglia fosse l’installazione di un artista Ming, o i fossati medioevali acquari ante litteram.
Alla boutade di quel tweet seguiva il finimondo: una catena di reazioni violente e in certi casi ignobili da entrambe le parti, sia di chi insultava la nostra sul piano personale accusandola di finanziamenti occulti e di intelligenza con i trafficanti di uomini e i “terroristi”, sia di chi la difendeva aggredendo i primi e finendo con l’evergreen antifascista (sic) di sopprimere fisicamente i critici dell’immigrazione. Cecilia non si sottraeva alla pugna, e a chi le ricordava i costi dei salvataggi e dell’accoglienza ribatteva che: 1) “gli stranieri regolari danno il 10% del PIL” e 2) i fondi per l’accoglienza dei richiedenti asilo sono “soldi dell’Unione europea che non sarebbero disponibili altrimenti“. Al che chi scrive è saltato sulla sedia.
Atteso che parlare degli esseri umani in termini di “PIL” è uno dei tanti obbrobri a cui ci ha abituato lo Zeitgeist, che senso ha tirare in ballo gli stranieri regolari quando si parla di irregolari? Che c’entrano calciatori, amministratori delegati e top model con una massa che in più di sei casi su dieci non potrà neanche mai lavorare, se non nell’invisibilità del crimine e dello sfruttamento? In quanto al contributo dei restanti, l’ultimo Documento Programmatico di Bilancio ci informa che:
A fronte del costo sostenuto nel breve termine per la sorveglianza della frontiera comune europea e alla primissima accoglienza, il nostro Paese rimane prevalentemente un’area di transito per i rifugiati. Questo riduce le potenzialità di un beneficio economico di medio-lungo periodo derivante dell’integrazione dei migranti nel tessuto produttivo, che sarà invece valorizzato nei vari paesi di destinazione finale.
Passando al secondo punto, che l’accoglienza degli aspiranti rifugiati sia finanziata dall’Unione Europea sembra invece essere una credenza molto diffusa su internet. Eppure il Governo non ha mai fatto segreto dei numeri. Qui il citato DPB:
Considerando lo scenario più prudente, i contributi europei corrispondono al 3,2% della spesa stimata nel 2016 e al 2,2% (due virgola due per cento) di quella prevista per il 2017. Se si limita la proporzione alle sole spese di accoglienza, la percentuale sale rispettivamente al 5,6% e al 3,4% (tre virgola quattro per cento). Quindi: sì, quei 3,8 miliardi sono tolti all’assistenza sanitaria e sociale degli italiani; sì, sono tolti alle famiglie italiane che mettono al mondo figli; sì, sono tolti all’impiego pubblico, alle infrastrutture, alla messa in sicurezza del territorio, ai musei, agli asili, ai tribunali.
Sciaguratamente sì. Quelle sviste non rimandano a dettagli tecnici, ma alla radice del problema. L’obbligo di chiudere in pareggio il bilancio dello Stato, la rinuncia a una politica monetaria propria, la supina subordinazione agli interessi dei paesi della cosiddetta “Unione” per i quali recuperiamo, manteniamo, selezioniamo e all’occorrenza formiamo gratuitamente il futuro proletariato, trasformano la solidarietà in privazione, fanno sì che ciò che è dato alla povertà degli alloctoni sia tolto alla povertà degli autoctoni. Ai quali si può certo spiegare che si tratta di un misero 0,2% del PIL e che quelle regole dementi ci impoverirebbero anche senza immigrati, e che anche senza immigrati quei soldi se li mangerebbero in pochi anni gli interessi sul debito. Mentre oggi entrano nel circuito economico nazionale creando un indotto, ammesso che possa dirsi “produttiva” una spesa che genera indirettamente morti in mare, segregazione, sfruttamento, crimine e tensioni. Insomma gli si può spiegare tutto, ma non li si può liquidare con informazioni scorrette o irrilevanti e poi stupirsi se se la prendono, se si insoppettiscono.
Come scienziata sociale, la dott.ssa Strada sa che i conflitti nascono perché gruppi e individui si contendono una risorsa scarsa. E nel nostro Paese la scarsità economica e lavorativa è indotta ma reale. È reale ma indotta. Sicché è prevedibile che i nuovi arrivati siano visti come bocche da sfamare a un desco sempre più misero. E che non gli si possa offrire una dignità e un lavoro già negati a quasi la metà dei nostri giovani, e che li si consegni così alla miseria e agli espedienti. Quello tra poveri e impoveriti lo si può chiamare conflitto tra italiani e stranieri, xenofobi e altruisti, ignoranti e sapienti, destra e sinistra. Ma così facendo se ne mascherano le cause e, quindi, lo si esaspera rilanciandolo nelle tifoserie politiche.
Come ha dimostrato anche questa querelle, si tratta di un conflitto già pericolosamente maturo, per certi versi già fuori controllo. Se non si può chiedere a tutti di documentarsi su dati e contesto per risalire alle sue cause strutturali, si auspica che chi presiede un’organizzazione così importante e così avvezza a operare sulle macerie dei fallimenti politici lo sappia fare, lo faccia con urgenza. Metterebbe il suo seguito e la sua autorità al servizio non solo di chi subisce la guerra all’estero, ma anche di chi auspica in patria le condizioni della pace.
fonte: http://ilpedante.org/post/l-emergenza-e-la-pace
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