Pareggio di bilancio, libertà di circolazione dei capitali e Costituzione (ovvero, dei limiti)
di STEFANO ROSATI (FSI Rieti)
Si dice spesso che il principio del pareggio di bilancio e la disciplina sul limite legale del debito pubblico (fiscal comapct) siano strumento di azzeramento dei diritti sociali costituzionali, di annichilimento sociale, di disinnescamento delle Costituzioni del secondo dopoguerra.
Si confonde però l’effetto con il fine; il che impedisce di analizzare e comprendere qual è la logica del sistema. E, a volte, stende una patina di ‘complottismo’ sul ragionamento che rende meno credibili le analisi che faticosamente svolgiamo.
Ancora una volta la risposta sul perché del vincolo del pareggio di bilancio e sulle limitazioni al debito pubblico è nella libertà di circolazione dei capitali, essenziale all’economia ‘globalizzata’.
La libertà di commercio internazionale, a cui il grande capitale aspira, porta alla specializzazione produttiva, al regionalismo produttivo (i vari ‘pezzi’ del processo produttivo vengono svolti in Paesi diversi anche molto distanti tra loro).
Questo modello di produzione non è funzionale a maggiori volumi di prodotto ma alla riduzione dei costi (salariali, principalmente).
Per finanziare il fabbisogno finanziario delle imprese globalizzate è necessario impedire che gli Stati assorbano la finanza disponibile sul mercato dei capitali per coprire il disavanzo pubblico creato per erogare servizi e fare redistribuzione.
Il pareggio di bilancio è quindi fondamentale, nell’economia globalizzata, per consentire alle imprese di delocalizzare pezzi di produzione (sempre più ‘elementari’) dove è più conveniente: in altre parole, il principio di bilancio serve alle multinazionali per fare maggiori profitti.
Gli effetti di questa scelta sono la deflazione salariale e il crollo dei mercati interni.
In questo modello, il rapporto tra banche, Stato e debito pubblico si declina secondo il paradigma dello Stato minimo, ossia della soddisfazione minima dei bisogni collettivi tramite il bilancio pubblico, ben riassunto nel principio del pareggio di bilancio.
Il rapporto tra banche (moneta), Stato e debito pubblico è un dato di fatto: la banca, nella sua configurazione moderna, si sviluppa come strumento di finanziamento del fabbisogno del sovrano (normalmente guerre ma anche ferrovie o altre opere di ‘unificazione’ del territorio).
Le modalità di restituzione del debito (contratto dal) sovrano individuano il passaggio alla collettività del debito: celebre è la vicenda degli ‘assegnati’ del periodo pre rivoluzionario francese (è sintomatico che i primi casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo siano stati creati proprio per gestire il contenzioso tra assegnatari coatti del debito e il Governo e che la teoria dell’atto amministrativo italiano trovi il suo capostipite nel famoso caso “Bogliasco” in cu si vendette all’asta un bene pubblico per fare fronte al debito pubblico, v. le “Insitituzioni” di G. Romagnosi).
La stessa banca centrale nasce come istituto di emissione di biglietti di banca a cui viene accordato dal sovrano il beneficio del corso forzoso quale contropartita dei finanziamenti ricevuti (questo è successo per la Banca d’Italia ma simili sviluppi hanno caratterizzato molti altri istituti di emissione europei).
È evidente il nesso genetico della ‘banca’ con le vicende del debito pubblico ma, soprattutto, è evidente la destinazione del debito pubblico al soddisfacimento di interessi della collettività (difesa ma anche infrastrutture e grandi opere pubbliche).
Risulta pure – si tratta di un corollario – la necessità di una forte presenza pubblica nel settore bancario, proprio per garantire la destinazione dei capitali raccolti al soddisfacimento dei bisogni della collettività.
È questo, con tutta evidenza, un modello antitetico a quello necessario per garantire il funzionamento della grande impresa multinazionale.
In altre parole; la limitazione legale del debito pubblico e il pareggio di bilancio, in quanto funzionali al finanziamento delle grandi imprese, sottraggono risorse destinate al soddisfacimento dei bisogni della popolazione.
Per dirla con Marx, “L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo si indebita”.
È altrettanto evidente, quindi, che non si può tenere insieme libertà di circolazione dei capitali e diritti sociali, perché questi ultimi richiedono un confine, uno spazio delimitato all’interno del quale il potere sovrano si occupi dei bisogni dei suoi cittadini.
I diritti sociali postulano una disciplina nazionale del debito pubblico, postulano vincoli nazionali alla circolazione dei capitali.
Postulano un ‘nomos della terra’.
Postulano il confine, il ‘limes’.
Risulta allora evidente che dietro alle dispute sul debito pubblico travestite da efficientismo e mistica della sostenibilità si cela una feroce battaglia sulla redistribuzione della ricchezza.
Rinunciare alla sovranità nazionale, al limite nazionale, al confine in favore del limite al debito pubblico, del limite alla Costituzione vuol dire, quindi, rinunciare al perseguimento dell’uguaglianza sostanziale tra i cittadini. Tema, infatti, assente nei trattati europei e nel dibattito politico europeo.
Si tratta di due disegni alternativi. Non c’è spazio per analisi sull’efficienza di questo o di quell’altro modello.
Si tratta di scelte, queste sì, irrevocabili.
Per tornare al discorso iniziale, devono essere chiari i fenomeni ma deve essere incrollabile la volontà politica di realizzare un progetto di pace e giustizia sociale perché la scienza economica non potrà mai essere la fonte del sapere ‘veritativo’, la scienza che può dire se un strada va perseguita o meno.
Questo spetta agli uomini. È un loro ‘limite’.
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