di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Giulia Corrado)
Ieri mattina, alle undici (ora locale) due diverse azioni terroristiche sono state messe a segno al Majlès (il parlamento iraniano) e al mausoleo di Khomeini: un duplice attacco che colpisce i simboli della duplice natura dello stato iraniano, articolato attorno al doppio binario civile e religioso. Le cronache e le agenzie riportano la morte di una guardia e di circa dieci civili, oltre ad un gran numero di feriti, mentre si ignora (al momento) se vi siano ostaggi. Le dinamiche lasciano intendere chiaramente la matrice terroristica dell’attacco: un commando armato di circa quattro persone ha assaltato la sede del Parlamento aprendo il fuoco; uno degli assalitori è riuscito a fuggire, mentre tre sono rimasti uccisi. Negli stessi minuti, un altro nucleo armato ha preso d’assalto il mausoleo dedicato a Khomeini, aprendo il fuoco sulla folla e culminando in un attacco dinamitardo suicida da parte di uno degli attentatori, probabilmente una donna. Già da qualche mese i servizi per la sicurezza iraniani avevano diffuso notizie su attentati sventati nell’ultimo anno, di impronta terroristica e riconducibili all’ISIS e, mentre si riunisce il gabinetto governativo per la sicurezza, in Iran c’è già chi vede l’ombra dell’Arabia Saudita dietro questi attentati, e degli Stati Uniti dietro di lei. I commenti a caldo degli iraniani non sono del tutto irragionevoli se si ripercorre il filo degli eventi politici e diplomatici delle ultime settimane: dalle elezioni iraniane del 19 maggio che hanno riconfermato Rohani alla guida dell’esecutivo, più di un’occasione ha rivelato le trame di una crescente convergenza regionale e internazionale in funzione anti-iraniana.
Ma procediamo con ordine, partendo proprio dal risultato elettorale del 19 maggio: con un’affluenza di oltre il 70% che ha ribaltato le stime di un alto astensionismo e un doppio rinvio della chiusura dei seggi a causa della massiccia partecipazione, Hassan Rouhani è stato rieletto per il secondo mandato con il 57% delle preferenze. Una conferma che rappresenta anche la volontà iraniana di proseguire il percorso di normalizzazione già avviato durante il primo mandato di Rouhani, testimoniato dal successo del raggiungimento di un accordo sul nucleare e del processo di dialogo con l’Occidente che lo ha reso possibile. Il risultato elettorale non era scontato: l’ottimismo dilagante tra molti osservatori non era completamente giustificato, alla luce dell’inasprirsi delle relazioni con i vicini del Golfo e con gli Stati Uniti, che potevano rappresentare frecce all’arco del conservatorismo sciita e del suo candidato, Raisi. La scelta del popolo iraniano si legge ancora di più come una scelta di campo anche nella gestione delle relazioni internazionali del paese, più orientato alla distensione che alla contrapposizione. Questo non è bastato a Donald Trump e ai suoi alleati del Golfo per abbassare il livello della tensione nella regione. La visita di Trump in Medio Oriente appena pochi giorni dopo le elezioni iraniane ha anzi rimarcato che le intenzioni americane anche dopo l’esito elettorale non sono affatto cambiate nei confronti di Teheran; le tappe stesse del viaggio del presidente americano lo evidenziano: Ryiad e poi Gerusalemme, messaggio di una triangolazione rafforzata in funzione anti-iraniana a cui hanno fatto seguito le esplicite dichiarazioni di Trump e delle rappresentanze israeliane e saudite sulle volontà di isolare Teheran, accusata di finanziare il terrorismo e di costituire una minaccia per la sicurezza internazionale, anche a causa dell’accordo sul nucleare.
L’intensificarsi dell’asse americano, saudita e israeliano ridefinisce anche le coordinate dello scontro regionale in Medio Oriente: Trump mostra di accordare preferenza alla componente sunnita, approfondendo il solco di uno scontro che, seppure interno all’Islam, ha molto di politico e assai poco di religioso; mentre pare che il mondo arabo moderato veda sempre meno Israele e sempre più l’Iran come il problema e il nemico numero uno, riscrivendo una parte degli equilibri della regione alla luce di questo cambio di focus. Lo scacchiere è il Golfo, e il Medio Oriente in senso più ampio; e qualunque partita a scacchi si basa sulla strategia. Alla luce di questa consapevolezza si può interpretare la recente azione congiunta di Arabia Saudita, Yemen, Emirati Arabi, Bahrain, Maldive ed Egitto di chiudere frontiere e rapporti diplomatici con il Qatar, accusato di finanziare il terrorismo. Un messaggio indiretto per Teheran, che rappresenta un passo ulteriore nell’approfondirsi di una crisi già aperta dal viaggio in Medio Oriente del presidente americano, che non fa mistero di aver avuto un’influenza nella decisione di questi sei paesi, definendola il primo risultato del rafforzamento delle relazioni con i partner mediorientali e del Golfo dopo la visita di due settimane fa. Con uno sguardo alle vicende politiche internazionali delle ultime tre settimane, gli attentati a Teheran assumono una luce diversa, dietro cui si staglia l’ombra delle tensioni diplomatiche sempre più forti con i paesi vicini e con gli Stati Uniti. La matrice dell’attentato, riconducibile a ISIS, alimenta i sospetti di un coinvolgimento del wahabismo saudita che evidenzia l’ironia delle accuse mosse ai danni del Qatar. Se questi sospetti fossero confermati, da qui in poi le speranze della tenuta del dialogo contro una irreparabile deriva delle relazioni nel Golfo e in Medio Oriente appaiono sempre più sulle spalle di Teheran e della moderazione del gruppo dirigente riformista.
fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/bombe-politiche-a-teheran/
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