Necessità del Mediterraneo
di FRANCO CASSANO
Il discorso sul Mediterraneo continua ad andare avanti. Lo fa con fatica, scivolando talvolta nella retorica, registrando passi indietro, oscillando fra la depressione e la rabbia di fronte alla cattiva infinità delle stragi e all’arroganza di uno strapotere militare che mente senza scrupoli. Continuare a parlare di Mediterraneo nonostante tutte queste battute d’arresto è difficile, e sembra che lo si possa fare solo aggrappandosi a un sogno, all’illusione di ridare centralità a un’area geografica e culturale decaduta da mezzo millennio.
Eppure questo discorso, così contrastato e contraddittorio, continua ad andare avanti, si arricchisce ogni giorno del contributo di nuove intelligenze sull’una e sull’altra sponda. Esso accusa i colpi, talvolta viene risucchiato da pratiche trasformistiche, ma accumula anche nuove ragioni, vede crescere, sia pure in modo carsico e disperso, la convinzione che la partita del Mediterraneo ha un valore globale e non limitato ai soli popoli che abitano sulle sue sponde.
La questione mediterranea, indatti, non è una specialità regionale, una fantasia consolatoria per figure marginali, ma è invece una questione cruciale del nostro tempo. Ridurla a una dimensione locale è solo un espediente per derubricarne il valore teorico, una mediocre astuzia per bruciare ogni alternativa allo stato di cose esistente. In un mondo che sembra risucchiato dallo scontro tra McWorld e Jihad, il Mediterraneo ha, infatti, il merito di indicare una prospettiva forte, l’impudenza di pensare il futuro e di parlare senza reticenze anche all’Europa, indicando a essa non solo i suoi limiti, ma anche una prospettiva per uscire dalle secche in cui sembra essersi arenata.
Se gli europei vorranno pensare il proprio futuro, dovranno cessare di pensarsi come il fianco orientale dell’impero atlantico. Ma per fare questo devono pensare in modo del tutto nuovo il proprio rapporto con il Mediterraneo, imparare a pensare non da soli, ma insieme a tutti gli altri soggetti che si affacciano sulle rive di questo mare. Certo, non si può negare che qualcosa sia stato fatto, ma è del tutto evidente la sproporzione tra i passi compiuti e quelli ancora da compiere.
Per pensare il Mediterraneo è necessario andare oltre gli idilli turistici, le collane di struggenti poesie, le litanie sugli ulivi, la commozione di fronte ai tanti tratti comuni, dalla grammatica dei gesti e dei corpi a quella delle musiche. Non perché il riconoscimento di questi tratti comuni non sia la premessa necessaria di quel discorso, la spinta che lo alimenta e lo fa andare lontano, ma perché la dolcezza del clima e le somiglianze non sono mai state, da sole, capaci di evitare le stragi e raramente sono riuscite a fermare una mano omicida.
Se la somiglianza, da sola, producesse amicizia, se i colori del cielo e del mare unificassero i popoli, il Mediterraneo e le guerre non si sarebbero mai incontrati. E sappiamo bene che non è stato così. Se è vero, come dice Hegel, con un’espressione splendida e terribile, che gli anni di pace sono le pagine vuote del libro della storia, è anche vero che il Mediterraneo di pagine vuote non ne ha conosciute molte, sia quando era il centro della storia, sia quando è retrocesso nella periferia.
Per parlare del Mediterraneo bisogna quindi scartare in partenza l’idillio e guardare in un’altra direzione, quella della lotta incessante tra conflitto e mediazione, tra la forza delle ragioni divergenti e contrapposte e la saggezza della misura, tra le verità divise e contrapposte della tragedia e la necessità di mediare che è consegnata nel nome di questo mare, medi-terraneo. Parlare oggi del Mediterraneo significa in primo luogo decostruire con lucidità e determinazione la prospettiva dello scontro tra le civiltà, fare di questa lotta l’obiettivo di un’intera opera storica.
[da Necessità del Mediterraneo in AA.VV. L’alternativa mediterranea, ed. Feltrinelli 2007]
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