Alcune osservazioni sulla scuola italiana
L’istruzione si articola in quattro momenti: innanzitutto la lezione, che fornisce all’alunno l’impulso ad acquisire le conoscenze e le competenze – essa implica che l’insegnante abbia la loro completa padronanza, quindi sia anche capace di affascinare con il suo virtuosismo; poi l’esercitazione, in cui l’insegnamento diventa apprendimento: l’alunno vi arriva a interiorizzare le conoscenze, a capire i problemi e a possederne le tecniche di soluzione – essa è la vera quintessenza dell’istruzione, e se inizia sotto la guida dell’insegnante deve in ogni caso finire con il lavoro autonomo dell’alunno; poi la verifica, in cui l’alunno dimostra di avere appreso: di padroneggiare le conoscenze, di saper risolvere da solo i problemi – la verifica implica nell’insegnante l’attenzione all’espressività particolare delle prove e l’accuratezza della correzione in vista del progresso complessivo dell’alunno. Infine, nella valutazione delle verifiche, l’insegnante dichiara pubblicamente l’avvenuto apprendimento.
Dal punto di vista interno al processo didattico, la valutazione è il momento meno importante – sebbene pochi riescano a restare indifferenti al vanto del bel voto; da quello esterno essa resta il condensato ufficiale della didattica: dichiara ai genitori e alla società in generale che il discente ha raggiunto un determinato livello di apprendimento, che lo rende idoneo a svolgere determinati ruoli sociali. Per la società è dunque essenziale che la correttezza della valutazione sia garantita da un controllo a più livelli. Essa è controllata dal basso da alunni e genitori così che gli insegnanti si attengano a criteri oggettivi e dichiarati. Essa è controllata anche dal lato: forti differenze di valutazione tra i diversi insegnanti sono indice di errore e tendono ad essere corrette dal cosiddetto voto di consiglio. A entrambi questi controlli manca però la possibilità di rilevare se il lavoro didattico ha esposto i contenuti nella loro pregnanza o se si è tenuto sulla superficie, se l’insegnante si sia limitato a leggere i titoli o sia sceso al “perché”; infatti gli alunni, non avendo possibilità di confronto tra diversi insegnanti della stessa disciplina, identificano questa a quelli, dicono di solito che una certa disciplina è noiosa o interessante, non, come sarebbe più corretto, che l’insegnante è noioso o interessante; da parte loro, i genitori e i colleghi insegnanti non sono presenti all’azione didattica, non hanno elementi per giudicare ed è sufficiente la valutazione positiva a rassicurarli (solo pochi genitori eroici si allarmano perché il figlio non studia mai). Affinché la valutazione non sia strutturalmente scorretta così da portare a un sistema scolastico fallimentare, in cui si insegna ma non si apprende, è dunque necessario anche il controllo dall’alto del lavoro didattico; solo esso può accertare se l’alunno abbia effettivamente conseguito gli obiettivi dichiarati, come dichiara la valutazione positiva, o soltanto la loro apparenza.
La scuola gentiliana effettuava questa valutazione in due modi: quantitativo, cioè se il programma fosse stato completato, e qualitativo, attraverso l’esame di stato. Se il primo modo è chiaramente insufficiente, perché fare tutto il programma non vuol dire farlo bene, nel secondo si manifesta l’inaccettabilità di quella didattica – e che l’esame di stato, tra ordini e contrordini, resista ancora oggi, per quanto annacquato in dosi omeopatiche, è indice della profonda confusione di quanto è stato fatto nella scuola italiana negli ultimi venti anni. Con la sua riforma Gentile introduce l’esame finale basato su prove scritte elaborate dal Ministero della pubblica istruzione, e su una commissione esterna che valuta le prove scritte e orali degli alunni. Poiché gli alunni sono ammessi all’esame solo in quanto il precedente scrutinio degli insegnanti interni li ha valutati almeno sufficienti, la valutazione negativa del candidato da parte della commissione esterna, di insufficienza o comunque inferiore a quella d’ammissione, può soltanto significare una doppia valutazione negativa del lavoro degli insegnanti interni: questi non avrebbero consolidato e approfondito abbastanza i contenuti didattici e inoltre avrebbero dato una valutazione esagerata del profitto dei loro alunni. Solo che a pagare questo doppio errore, vero o presunto che sia, non sono gli insegnanti interni, ma gli alunni. L’irrazionalità di questa prassi è manifesta dalla regola vigente fino a non molto tempo fa, quando l’esame aveva ancora pretese di serietà, di non esporre i tabelloni dei risultati prima che tutti i membri della commissione avessero abbandonato i locali della sede d’esame – si temevano reazioni scomposte. Se l’esame di stato ancora oggi fa notizia sui giornali, nonostante si sia trasformato in una commedia, è perché nella sua essenza contiene un’offesa elementare al senso di giustizia e alla logica della didattica, che solo il buon senso (purtroppo non così diffuso come pensava Cartesio) dei commissari impedisce che si trasformi in una vessazione gratuita.
La stessa storia della riforma Gentile conferma la natura impropria dell’esame di stato. Fu voluto con poca carità cristiana dal Partito Popolare e dai cattolici perché anche le scuole pubbliche soffrissero gli svantaggi della commissione esterna che le scuole private cattoliche dovevano accettare a fine corso affinché il loro titolo di studio avesse valore legale. Gentile li accontentò perché era suo obiettivo la formazione di una scuola severa, anzi, più che severa, esclusiva, che riservasse a un ceto ristretto il Liceo classico e i posti più elevati dell’amministrazione statale a cui quel liceo avviava. Negli anni ’20 l’Italia delle caste sociali era in pericolo: il suffragio universale concesso da Giolitti nel 1913 e ancor più il sistema proporzionale introdotto da Nitti nel 1919 avevano gremito la Camera di socialisti e di popolari; come il fascismo neutralizzò per un ventennio il parlamento, così la riforma di Gentile impedì per molto più di un ventennio che la scuola favorisse la mobilità sociale, che aprendo il mondo a chi non fosse un figlio di papà permettesse l’evoluzione della società di casta in quella di classe.
Nonostante il grave difetto di valutare il lavoro degli insegnanti valutando i loro alunni, gli esami di stato gentiliani costituivano comunque un controllo indiretto dall’alto del lavoro degli insegnanti: per anni questi si sono in genere preoccupati dei risultati dei loro alunni all’esame, sia in senso costruttivo, cercando di fare bene tutto il programma, che in senso deteriore: il membro o i membri interni hanno spesso suggerito, a volte distribuito i fogli con le soluzioni, e spesso in commissione ci sono state tensioni, addirittura colluttazioni, anche collassi. Con le riforme da Berlinguer in poi si è fatto un enorme passo indietro. Il loro presupposto socio-economico è che il settore economico privato funzioni, quello pubblico sia inefficienza e corruzione; il loro fine ultimo è distruggere la scuola pubblica per privatizzarla; il loro fine intermedio è diffondere nella scuola pubblica le pratiche proprie delle imprese private trasformando i presidi in dirigenti, gli insegnanti in animatori e gli alunni in clienti[1]. Se il compito degli insegnanti è diventato divertire, la loro valutazione non riguarda più le conoscenze e le competenze acquisite dagli alunni, ma si riduce a un attestato di partecipazione dei clienti alle attività ricreative, e per la loro maggiore soddisfazione vige la prassi che i voti salgano fino al 10 e non scendano sotto il 6. Nonostante l’apparenza, il collasso della didattica non nasce dagli insegnanti, che certo restano colpevoli di mancata reazione, ma dai ministri riformatori, proprio da quelli che ora si attribuiscono poteri dittatoriali. Agendo dietro la cortina della ribellione sessantottina alle vessazioni della scuola gentiliana, ma in realtà sulla base dei desiderata dei gruppi finanziari impegnati nella distruzione del welfare state, essi hanno spinto la scuola italiana a sostituire la didattica curricolare con l’intrattenimento extracurricolare, la grammatica e la matematica con il giornalino e l’uscita scolastica, nell’ipotesi, caldeggiata da una nuova generazione di pedagogisti, che gli alunni potessero acquisire competenze senza accorgersene, giocando. Per anni i ministri riformatori hanno voluto che gli insegnanti non insegnassero. Quanto all’esame di stato, i riformatori non sono arrivati ad abolirlo sia perché indifferenti alla sua problematicità pedagogica sia perché l’eliminazione di quello che sembrava l’ultimo presidio del rigore avrebbe gettato una luce troppo cruda sul progetto di privatizzazione della scuola; anzi da una parte hanno dato l’apparenza di renderlo più severo imponendo che la prova orale riguardasse tutte le materie, dall’altra lo hanno reso innocuo con i bizantinismi della valutazione e raccomandando ai commissari di valorizzare quello che i candidati possiedono e di ignorare quello che questi ignorano. Nella prassi effettiva esso si è così trasformato in una commedia in cui le parti sono invertite: ora i commissari esterni, preoccupati di eventuali ricorsi, gonfiano i voti, trovando qualche debole ostacolo negli interni, timorosi di fare torto agli alunni più studiosi. In ogni caso è venuto a mancare qualunque controllo dall‘alto delle valutazioni: con questo esame di stato è possibile, e tanto più probabile quanto più è debole il senso civico degli insegnanti, conseguire diplomi con valutazioni anche elevate, senza possedere né conoscenze né abilità.
Poi si sono diffuse le prove INVALSI: si tratta di uno strumento esplicito di controllo dall’alto del lavoro didattico, che ha permesso di scoprire la situazione della scuola italiana: in generale poco lusinghiera, disastrosa nel Sud. Così il ministero e con lui i dirigenti scolastici sono stati posti di fronte al problema dei RISULTATI della didattica che avevano raccomandato. Si è però passati non alla consapevolezza di come sia didatticamente aberrante trasformare il preside in manager, l’insegnante in animatore e l’alunno in cliente: ogni ideologia cerca di conservarsi attribuendo il proprio fallimento all’inettitudine degli esecutori e all’incompletezza della propria realizzazione. Così, dopo aver implicitamente imputato alla scuola il disastro economico provocato della moneta unica europea, l’attuale governo addebita il fallimento della privatizzazione incipiente della scuola agli insegnanti, colpisce la loro indipendenza professionale degradandoli a organico funzionale e, in quanto la libertà dell’insegnamento della scienza è garantita dall’articolo 33 della Costituzione, tenta l’eversione della Costituzione. Gli insegnanti diventano dipendenti dei dirigenti ed è loro attribuito un compito impossibile. Infatti ciò che si richiede loro non è più soltanto l’obiettivo di Berlinguer, di assecondare l’estro creativo dei “giovani di oggi” assottigliando fino alla trasparenza lo spessore scientifico del loro lavoro, ma ANCHE quello di farlo così che non ne sia compromesso il raggiungimento delle competenze. Prima si chiedeva di non insegnare ma soltanto divertire, ora si chiede di non insegnare, certo, ma ANCHE di insegnare. Le chiacchiere sulla meritocrazia da parte di una ceto politico di cooptati servono dunque a insinuare negli Italiani la rassegnazione alla società neoliberista di casta, senza mobilità sociale, quale è nelle visioni dei grandi gruppi finanziari; inoltre esse coprono le responsabilità di chi, dal ministro Berlinguer in poi, ha sostenuto l’incompatibilità tra “i giovani di oggi” e lo studio severo e ha fatto della scuola un luna-park; infine trasfigurano la contraddizione del non insegnare insegnando nell’ideale del super-docente meritevole, che con la potente magia dello strumento tecnologico e della continua innovazione didattica, in uno sforzo infinito, crea competenze senza lo studio e l‘esercitazione degli alunni, ex nihilo; viceversa, l’irraggiungibilità effettiva di quell’ideale giustifica l’umiliazione professionale ed economica degli insegnanti normali, la miseria crescente e la soppressione finale della scuola pubblica.
La decadenza della scuola italiana si è insinuata tra la fine della pedagogia vessatoria gentiliana e l’inizio della pedagogia ricreativa berlingueriana, attraverso la breccia formatasi tra lo svanire di ogni forma di controllo dall’alto della didattica e l’introduzione delle prove INVALSI. Il disegno di legge derivato dalla “buona scuola” di Renzi contiene misure da una parte anti-costituzionali, in quanto consistono nell’attribuire ai dirigenti scolastici le scelte didattiche e il potere di espellere gli insegnanti dall’istituto, come se la loro docilità alle indicazioni dei ministri riformatori non avesse fatto già abbastanza danni; dall’altra irrazionali e anti-liberali, in quanto intendono non migliorare ma cambiare la scuola – come pure l’Italia. Cambiare è distruggere l’esistente e sostituirlo. La razionalità rifugge non solo dal gesto di rifiuto nei confronti dell’esistente, ma anche dall’affidare un compito sociale alla buona volontà di individui o di gruppi; essa realizza i miglioramenti valorizzando istituzionalmente le interdipendenze già presenti nella compagine sociale. Nel caso del controllo dall’alto della didattica di cui la scuola italiana è priva da Berlinguer in poi, è notevole come gli improvvisati riformatori, che siano consapevoli o meno della portata distruttiva del piano che hanno scelto di servire, trascurino il fatto che questo controllo esiste già da sempre, che non c’è affatto bisogno di novità (neppure dei test dell’INVALSI con i loro corollari indesiderabili: l’incompletezza delle discipline coinvolte, la spesa, il rischio che i quiz monopolizzino la didattica), che basta istituzionalizzarlo perché diventi efficace nella vita della scuola. Questa, infatti, si articola in fasi e ogni fase successiva esercita un controllo naturale sul lavoro svolto nella fase precedente: le scuole medie valutano il lavoro svolto dalle scuole elementari, se necessario lo precisano e lo completano, e in modo analogo si rapportano il biennio superiore alle medie, il triennio al biennio, l’università e il mondo del lavoro al triennio superiore. Questa valutazione esiste ovunque da sempre, per lo meno in forma di mormorazione contro i colleghi, raramente come ringraziamento per il buon lavoro svolto, mai come critica aperta; in generale neanche i colleghi di biennio e triennio dello stesso istituto si parlano, presentano le esigenze, lamentano gli errori. Sarebbe sufficiente che gli insegnanti dei gradi inferiori fossero informati sistematicamente dei successi e delle difficoltà dei loro ex-alunni e fossero impegnati a tenerne conto nella loro didattica, perché sia affrontato con efficacia il difetto più grave della scuola italiana. Il primo timido passo in questo senso è stato già fatto dall’indagine “Eduscopio” resa disponibile dalla Fondazione Agnelli, che ha assegnato agli istituti secondari un punteggio calcolato sui risultati nel primo anno di università degli alunni che essi hanno diplomato. Questo controllo dall’alto del lavoro didattico va però in senso contrario a tutto ciò che la scuola da Berlinguer in poi è diventata; implica infatti che non ci si limiti a pascolare gli alunni tra gli ozi extra-curricolari, ma li si impegni in un lavoro verso il loro futuro didattico ben determinato, che si rafforzi la responsabilità degli insegnanti e li si renda protagonisti, anziché abbandonarli all’indifferenza pedagogica dei manager scolastici, che gli istituti scolastici collaborino, anziché degradarsi nella reciproca concorrenza mercantile. Quando sarà esaurito il tempo di quelli che vogliono cambiare l’Italia, verrà il momento di proporre la questione.
[1] L’improprietà di questa trasformazione è evidente dal fatto che un buon venditore suscita nel cliente dipendenza, un buon educatore aiuta l’allievo a diventare autonomo.
Ottimo articolo.
Dietro l’azione dei vari governi sta a mio avviso la consapevolezza che tutti sono d’accordo su un punto: la scuola NON deve insegnare. Per i ragazzi perché è più comodo (in realtà istintivamente cercano e apprezzano le figure sapienti ed autoritarie, perché nel giovane gl’istinti vitali non hanno avuto il tempo di essere soppressi), per i genitori pure, per le aziende perché non vogliono lavoratori consapevoli e per il regime perché ha il terrore delle masse pensanti.
Il resto viene di conseguenza, perfino la privatizzazione. Il liberismo non è tanto la radice quanto l’espressione della decadenza.