La fine della nazione è la fine della critica (e viceversa)
Tramonto e resistenza della critica (Quodlibet, 2013, pp. 249, 22 euro) è l’ultima raccolta di saggi di Romano Luperini, nato nel 1940, uno dei più noti esponenti della “nuova critica marxista” del secondo Novecento. L’ultima nel senso che, come l’autore stesso dichiara introducendo il volume, non sarà seguita da altre, in parte per motivi anagrafici, in parte per ragioni culturali e politiche. Luperini è infatti convinto che oggi non vale più la pena scrivere critica, perché si viene letti soltanto da una cerchia ristrettissima di specialisti che, si direbbe, vagano come larve in una terra desolata di rovine: quelle della scuola, dell’università, dell’ambiente letterario e, più in generale, della “civiltà italiana”.
Questo snodo cruciale della riflessione di Luperini merita di essere approfondito e discusso.
L’età della globalizzazione, sostiene il critico, “rende sempre meno praticabili punti di vista nazionali”. In tale contesto la critica ha perso il ruolo di “traduzione, trasmissione, trapianto sia orizzontale (al presente, fra lettori e gruppi diversi e anche fra nazioni diverse) sia verticale (dal passato al futuro)” di un patrimonio inestimabile di valori non soltanto estetici ma anche etici. Dunque il destino di questa disciplina sembra intimamente legato al tramonto della nazione, soprattutto in un paese come l’Italia in cui il nesso fra letteratura, identità e storia risulta da sempre molto stretto: e oggi, infatti, “siamo senza racconto, senza mito e senza identità”. Ma dal momento che il ritorno a De Sanctis e al Risorgimento rappresenterebbe un’anacronistica battaglia di retroguardia, Luperini si sente vicino alla posizione di Auerbach, secondo il quale “la nostra casa filologica è la terra, non può più essere la nazione”. Il racconto critico, dice Luperini, dovrà essere “planetario”. Il suo mandato sociale consisterà nel dare voce alla moltitudine dei “marginali”, dei moderni ‘Ntoni Malavoglia di tutto il mondo: una moltitudine della quale il critico stesso fa parte in quanto intellettuale. Non a caso, per Luperini il paradigma del nuovo intellettuale-marginale è incarnato dal primo Saviano, l’outsider precario e privo di reti di protezione, “il ricercatore che si muove in scooter” nelle periferie degradate.
Alla prospettiva di Luperini si possono opporre due obiezioni.
La prima è che la moltitudine cosmopolita, proprio perché spogliata di ogni appartenenza particolare, finisce facilmente per essere inghiottita dalla Megamacchina mondiale dell’omologazione economica e tecnoscientifica: è, come riconosce Luperini stesso (si veda l’intervista rilasciata sul “Corriere della sera” il 20.8.2014), la sorte toccata a Saviano, ormai diventato uno dei vari miti televisivi d’oggi.
In secondo luogo, va obiettato che, come la massima parte della cultura contemporanea, Luperini ha il torto di dare per scontato quello che non lo è affatto, cioè il compiuto trionfo della globalizzazione e la fine delle nazioni. Nell’abbandono semi-ipnotico al fatalismo il critico neo-marxista appare maledettamente simile ai teorici tardo-novecenteschi del pensiero debole e del postmoderno da lui così aborriti.
Muovo una contro-obiezione: la mossa di Luperini non è un abbandono al fatalismo, ma semplicemente una triste rinuncia non tanto per sopraggiunta età (non ci sono limiti necessari) quanto per sorpasso della storia. “La mia generazione ha perso”, diceva Giorgio Gaber, di un solo anno più vecchio di Luperini. Hanno vinto loro: i post-moderni, post-umani, post-umanisti. Ormai sono loro che ricevono credito e spazio. I giovani si adeguano, sperando di fare carriera. I vecchi sorridono, perché ormai pensano alla pensione (se arriva) e chi come me è tra le due categorie non sa che (gli) succederà, ma ha rinunciato alle battaglie.
Mai rinunciare alla lotta. “La storia non procede né recede”, dice Montale, che come maitre a penser preferisco di gran lunga a Gaber: chi appariva sconfitto e defenitivamente sorpassato cinquant’anni fa, ora domina.