Tradizione e innovazione in Bartók
di GABRIELE TOMA
La figura del compositore ungherese Béla Bartók (Nágyszentmiklós, 1881 – New York, 1945) è il perfetto esempio di come l’amore per la propria terra, per la propria patria, per la cultura della propria nazione non escluda il rispetto per le altrui terre, patrie e culture ma al contrario lo rafforzi.
Annoverato a lungo dalla critica tra i “nazionalismi musicali” per aver concentrato i propri studi sulla musica popolare ungherese, Bartók ha in realtà sempre lottato per la definizione di un’indagine etnomusicologica al fine di abbattere il dogma classista – vigente nel XIX secolo nelle grandi accademie mitteleuropee – che vedeva nella musica popolare una musica “bassa”, non degna di entrare nel “repertorio” ufficiale. Un nazionalista non avrebbe contribuito alla nascita dell’etnomusicologia, scienza che studia proprio i rapporti tra la vita dei popoli e la loro musica.
Bartók ci ha insegnato che la musica popolare ungherese è frutto di numerose contaminazioni musicali tra etnie differenti ed ha a sua volta contaminato la propria musica con gli insegnamenti della grande tradizione occidentale (Bach, Beethoven, Stauss, Debussy…): questo semplice fatto smentisce ogni possibile accusa di nazionalismo inteso come supremazia di un’etnia sulle altre.
La lotta di Bartók per la valorizzazione della propria cultura nazionale va inoltre contestualizzata: l’Ungheria – così come anche la Polonia, la Boemia e la Moravia – si trovava intorno alla fine dell’Ottocento in una posizione subalterna e periferica rispetto ai grandi centri di potere come il Reich tedesco, la Russia, l’Impero asburgico, tanto politicamente quanto culturalmente. Di conseguenza:
“La vita culturale di questi paesi fu animata, tra la seconda metà del secolo XIX ed il primo ventennio di quello successivo, dal sorgere di movimenti progressisti che esprimevano sostanzialmente una duplice aspirazione: la nascita di una cultura che traesse origine dalla linfa vitale della nazione, nel rifiuto delle categorie spirituali e formali delle culture egemoni, e la necessità di inserire questi paesi nel vivo della cultura europea contemporanea per superare il provincialismo e l’arretratezza cui erano costretti” (Gianfranco Vinay, Il Novecento nell’Europa orientale e negli Stati Uniti, Torino, ed. 1991 [Storia della Musica a cura della Società Italiana di Musicologia], p. 4).
Bartók non era un fervente religioso, ma doveva amare la Natura “in tutte le sue manifestazioni” – come testimoniano le memorie di suo figlio – se arriva a farsi vanto di comporre “secondo Natura”. Forse è anche da questo che muove la sua indagine etnomusicologica, l’esplorazione cioè delle produzioni musicali di quei popoli contadini, profondamente radicati nel territorio e dunque in armonia con la Natura: sappiamo che Bartók viaggiò molto per reperire in loco canti ungheresi, slovacchi, romeni, ruteni, serbi, bulgari, zingari.
Secondo Bartók il canto popolare era un “fatto di natura”, e conteneva “tesori spirituali quasi inaccessibili all’uomo civilizzato”. Questa concezione è frutto di un’impostazione “che oggi appare quasi ingenua” alla studiosa Maria Grazia Sità (Maria Grazia Sità, Bela Bartok, Palermo, L’Epos, 2008, p. 419), ma spesso sono proprio i concetti più semplici, quelli che appaiono quasi ingenui, a celare importanti verità: oggi, nell’epoca della società “liquida” nella quale viviamo, in cui la logica del capitalismo globalizzato produce estrema mobilità sociale e finanziaria, impone ritmi di vita frenetici e causa profonda alienazione individuale, il tutto spacciato come “civiltà” e “progresso” dagli operatori della “videosfera”, la presa di posizione bartokiana appare tutt’altro che ingenua.
Appare, al contrario, profetica e di un’attualità disarmante sia che per “civilizzato” si intenda il semplice cittadino occidentale immerso nelle condizioni di cui sopra, sia che si intenda – come purtroppo spesso si intende, anzi si sottintende – l’occidentale etnocentrico e snob nei confronti di ciò che attiene ai “popoli”.
Ebbene sì, determinati tesori spirituali risultano quasi inaccessibili tanto ai primi, per le condizioni di alienazione cui loro malgrado sono sottoposti, tanto ai secondi, semplicemente perché non hanno alcun interesse ad accedervi. Quest’ultimo è poi il tipico atteggiamento delle élite che, chiuse in sé stesse, determinano nei propri alti consessi cosa debba essere “ufficiale” e cosa no, tanto da giungere, oggi più che mai, a demonizzare il popolo e ogni sua forma di espressione. Proprio contro questa mentalità ha avuto a suo tempo la meglio il nostro Bartók, che pure fu a lungo osteggiato dai rappresentanti della musica “colta” di tradizione occidentale.
La figura di Bartók ha saputo coniugare la tradizione colta e quella popolare. Interprete di un nuovo classicismo, Bartók – proprio come Beethoven – vede nel musicista un individuo eticamente impegnato, realizzatore di un contenuto morale di interesse sociale, che esprime con sincerità i propri sentimenti e i propri ideali.
Pur incasellato sbrigativamente nell’etichetta di “nazionalista” per aver promosso la musica ungherese, Bartók ha in realtà lottato sempre per abbattere i pregiudizi razzisti legati al concetto di “etnia” e quelli classisti legati al concetto di “popolo”, tanto da portare all’attenzione del mondo una scienza, l’etnomusicologia, tesa a scandagliare e comprendere le connessioni che sussistono tra i diversi popoli e le rispettive musiche. Perché è nell’espressione artistica di sé che l’essere umano conosce la più alta forma di vita e trova il proprio posto nell’universo della Natura.
fonte: quinteparallele.net
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