Franco CFA: tutto quello che avreste sempre voluto sapere e non avete mai osato chiedere
di THOMAS FAZI
Franco CFA. Fino a poco tempo fa queste due parole non avrebbero significato un granché per la maggior parte degli italiani. Oggi, invece, il termine è entrato nel dibattito pubblico anche da noi, grazie alle dichiarazioni di alcuni noti politici italiani, che hanno scatenato un’aspra crisi diplomatica tra Roma e Parigi. Dunque, chi segue la cronaca politica sa probabilmente che il franco CFA è una valuta utilizzata da una serie di paesi africani e soggetta alla tutela più o meno esplicita e più o meno disinteressata – a seconda dello schieramento del dibattito a cui si è scelto di credere – della Francia. Tuttavia per i più la questione rimane a dir poco fumosa. Vediamo dunque di fare chiarezza una volta per tutte.
Tanto per cominciare, quando parliamo di franco CFA, parliamo in realtà di due unioni monetarie: la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC), di cui fanno parte il Camerun, il Gabon, il Ciad, la Guinea Equatoriale, la Repubblica Centrafricana e la Repubblica del Congo; e l’Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA), che comprende il Benin, il Burkina Faso, la Costa d’Avorio, la Guinea-Bissau, il Mali, il Niger, il Senegal e il Togo.
Queste due unioni monetarie usano due franchi CFA distinti, che però condividono lo stesso acronimo: per il franco della zona CEMAC, CFA sta per “Cooperazione finanziaria in Africa centrale”, mentre per il franco dell’EUMOA sta per “Comunità finanziaria africana”. Ad ogni modo, questi due franchi CFA funzionano esattamente alla stessa maniera e sono ancorati all’euro con la stessa parità di cambio. Insieme a un quindicesimo Stato – l’Unione delle Comore, che usa un franco distinto ma soggetto alle stesse regole – formano la cosiddetta “zona del franco”. Complessivamente, più di centosessantadue milioni di persone usano i due franchi CFA (più il franco delle Comore), secondo i dati ONU del 2015.
Occultato per lungo tempo dal dibattito pubblico – anche in Francia e persino nei paesi africani interessati – il franco CFA è da qualche tempo al centro di un dibattito sempre più vivace, anche grazie a libri come L’arma segreta della Francia in Africa. Una storia del franco CFA, della giornalista francese Fanny Pigeaud e dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylla, pubblicato l’anno scorso in Francia e uscito da poco anche in Italia. Scrivono gli autori:
Per molto tempo, è stato fatto di tutto per mantenere il tema del franco CFA e le questioni che lo circondano lontano dal dibattito pubblico, in Francia come in Africa. Male o poco informati, i cittadini non avevano dunque gli strumenti per mettere in discussione il sistema. Tuttavia, da qualche anno a questa parte, il franco CFA ha smesso di essere una questione dibattuta unicamente dagli esperti: è uscito dai corridoi delle istituzioni finanziarie per affacciarsi sulle strade e sulle piazze. Oggi è oggetto di articoli, manifestazioni, spettacoli televisivi e conferenze nel continente africano e in Francia.
Secondo il governo francese, il franco CFA è un fattore di integrazione economica e di stabilità monetaria e finanziaria. Per contro, secondo gli oppositori della moneta – che include numerosissimi economisti e intellettuali africani (e non solo) – essa rappresenta a tutti gli effetti una forma di “schiavitù valutaria” che impedisce lo sviluppo delle economie africane e le tiene asservite agli interessi francesi. Come notano Pigeaud e Sylla, «negli ultimi anni si sono moltiplicate le voci – in strada, sui social network, nei circoli intellettuali o artistici – che chiedono la fine del franco CFA».
Una storia di repressione e violenza
Per districarsi in questo complesso dibattito – e prima di passare ad analizzare il funzionamento del sistema CFA – è necessario partire dalle origini. Il franco CFA – che originariamente significava “franco delle colonie francesi d’Africa” – nasce nel 1945, quando divenne la valuta ufficiale delle colonie francesi in Africa, che fino a quel momento avevano utilizzato il franco francese. In seguito alla guerra, infatti, Parigi fu costretta ad allentare la presa sulle sue colonie africane, che avevano giocato un ruolo decisivo nello sforzo bellico. Secondo le dichiarazioni degli ufficiali francesi, la fine dell’unicità monetaria tra la Francia e i suoi territori africani segnava la «fine del patto coloniale». In verità, scrivono Pigeaud e Sylla, «[l]ungi dal segnare la fine del “patto coloniale”, la nascita del franco CFA favorì il ripristino di relazioni commerciali molto vantaggiose per la Francia». Il franco CFA, infatti, era a tutti gli effetti una creatura francese, emessa e controllata dal ministero delle Finanze francese: la Francia poteva così decidere il valore esterno della valuta – la sua parità di cambio rispetto al franco francese – secondo i propri bisogni. E lo dimostrò fin da subito, imponendo alle colonie un tasso di cambio fortemente sopravvalutato. Il perché è ben spiegato dagli autori:
L’economia francese, fortemente indebolita dalla guerra, aveva bisogno di recuperare la sua quota di mercato e di assicurarsi nuovamente la fornitura di materie prime. In questo contesto, un franco CFA sopravvalutato era perfettamente funzionale agli interessi di Parigi. Il fatto che il suo valore fosse superiore a quello del franco metropolitano, infatti, rendeva i prodotti della metropoli più economici. Questo avrebbe dunque incoraggiato le colonie ad aumentare le loro importazioni dalla Francia continentale. Allo stesso tempo, un franco CFA forte avrebbe avuto l’effetto di aumentare i prezzi dei prodotti delle colonie destinati alle esportazioni e dunque di renderli più costosi rispetto a quelli dei loro concorrenti in Asia e in America Latina. Dunque, per sbarazzarsi della produzione in eccesso, le colonie avrebbero dovuto rivolgersi alla metropoli. I flussi commerciali delle colonie si sarebbero dunque riorientati a favore della metropoli, che ci avrebbe guadagnato sia in termini di esportazioni che di importazioni, senza dover toccare le proprie riserve valutarie.
Il vantaggio più evidente del franco CFA per la Francia, tuttavia, era un altro: poiché la valuta era emessa dalla Francia, quest’ultima godeva di un «privilegio esorbitante», secondo la famosa definizione usata nel 1964 da Valéry Giscard d’Estaing, l’allora ministro delle Finanze francese, per stigmatizzare l’egemonia del dollaro americano: la possibilità di continuare ad approvvigionarsi delle preziosissime risorse delle colonie a costo zero, di fatto, esattamente come faceva quando le colonie utilizzavano il franco francese. Le finalità del franco CFA, dunque, erano piuttosto diverse da quelle reclamizzate dalla propaganda coloniale francese, rilevano Pigeaud e Sylla, ossia «garantirsi attraverso di esso il controllo economico dei territori conquistati e facilitare il drenaggio delle loro ricchezze» verso la Francia.
Fin qui, comunque, nulla di particolarmente fuori dall’ordinario: al tempo era prassi comune per le potenze coloniali imporre alle proprie colonie forme più o meno esplicite di sudditanza monetaria. Il vero colpo da maestro la Francia lo realizzò a partire dalla fine degli anni Cinquanta, cioè da quando prese il via il processo di decolonizzazione del continente africano, che preannunciava la graduale disintegrazione degli imperi coloniali di Gran Bretagna, Belgio, Spagna, Portogallo e Francia e delle loro rispettive aree valutarie. E infatti così fu per quasi tutti gli imperi in questione: man mano che le loro ex colonie divennero indipendenti, infatti, queste adottarono tutte delle valute nazionali.
L’unica eccezione alla regola fu l’impero coloniale francese: la Francia, infatti, è l’unica ex potenza coloniale ad essere riuscita a mantenere intatta la sua zona monetaria in Africa anche in seguito al processo di decolonizzazione, cioè alla conquista ufficiale da parte dei paesi africani della loro indipendenza formale (fatta eccezione per il Marocco, la Tunisia e l’Algeria, che si dotarono subito di una loro moneta nazionale). E lo ha fatto ricorrendo a tutti gli strumenti di pressione a sua disposizione: dalla diplomazia alla corruzione, dalla destabilizzazione economica alla violenza.
Il primo passo fu costringere i futuri Stati a firmare una lunga lista di cosiddetti “accordi di cooperazione” prima di concedere loro “l’indipendenza”. In base a questi accordi, i nuovi Stati furono obbligati ad affidare allo Stato francese la gestione di praticamente tutti i settori chiave dell’economia (e non solo): la politica estera, la difesa, il commercio e lo sfruttamento di materie prime e prodotti strategici, la valuta, la finanza, l’istruzione superiore, la marina mercantile, l’aviazione civile ecc. In questo modo, scrivono Pigeaud e Sylla, «la Francia si garantiva la perpetuazione del suo “diritto naturale” sulle ex colonie e sulle loro risorse». Pierre Villon, deputato comunista francese, notò come nel campo economico, monetario e finanziario gli accordi tendessero «a limitare nella pratica una sovranità riconosciuta dalla legge». Il cuore di questo dispositivo – fondato sul riconoscimento alle ex colonie di diritti formali di cui gli veniva impedito di godere nella pratica – era la moneta. Tutti gli accordi in questione, infatti, confermavano l’appartenenza dei nuovi Stati all’unione monetaria della zona del franco.
Per capire perché i neonati Stati africani accettarono delle limitazioni così pesanti alla sovranità appena conquistata, è necessario comprendere il rapporto di sudditanza – innanzitutto psicologica – nei confronti della Francia instauratosi nel corso di decenni di “tutela” coloniale e di gestione eterodiretta dei loro affari. È perfettamente comprensibile che uno Stato che emerga da una situazione di questo tipo ritenga di non essere in grado di gestire autonomamente i propri affari. Se oggi, dopo vent’anni di moneta unica, osserviamo una dinamica di questo tipo persino in un paese come l’Italia – una delle prime dieci economie al mondo –, figurarsi in degli Stati agricoli o comunque estremamente sottosviluppati quali erano le ex colonie in questione all’indomani dell’indipendenza.
Tuttavia, le ribellioni nei confronti del sistema CFA non si fecero attendere. E neanche le rappresaglie della Francia. Negli anni successivi all’indipendenza – soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta –, diversi paesi tentarono di abbandonare il sistema CFA, ma in pochi ce la fecero. Come scrivono Pigeaud e Sylla, la Francia «fece di tutto per scoraggiare quegli Stati che intendevano uscire dal CFA. Intimidazioni, operazioni di destabilizzazione e perfino assassinii e colpi di Stato contraddistinsero questo periodo, a testimonianza dei rapporti di forza permanenti e diseguali su cui si basavano – e si basano tutt’oggi – le relazioni tra la Francia e i suoi “partner” in Africa».
Il caso della Guinea è esemplare. L’1 marzo del 1960, di fronte all’indisponibilità di Parigi di allentare le regole del sistema CFA, la Guinea – che aveva preparato tutta l’operazione in segreto – lanciò una propria moneta nazionale, il franco guineano, e abbandonò la zona del franco. Poco tempo prima, Ahmed Sékou Touré, deputato dell’Assemblea nazionale francese e vicepresidente del Consiglio governativo della Guinea, si era espresso così di fronte a nientedimeno che il generale De Gaulle: «Noi non ci arrenderemo e non rinunceremo mai al nostro diritto legittimo e naturale all’indipendenza. Preferiamo essere poveri in libertà che ricchi nella schiavitù».
La reazione di Parigi alla fuoriuscita della Guinea dal sistema CFA ha dell’incredibile. Nei mesi successivi, la Francia fece di tutto per isolare e destabilizzare la Guinea e per rendere Sékou Touré «vulnerabile» e «impopolare». L’operazione fu orchestrata dal Servizio di documentazione estera e di controspionaggio (SDECE), con la complicità attiva dei presidenti del Senegal e della Costa d’Avorio, Léopold Sédar Senghor e Félix Houphouët-Boigny. Come avrebbe raccontato qualche decennio più tardi Maurice Robert, direttore della sezione africana dello SDECE, la Francia lanciò una serie di operazioni armate sfruttando mercenari locali, «con l’obiettivo di sviluppare un clima di insicurezza e, se possibile, rovesciare Sékou Touré».
Lo SDECE lanciò anche una serie di attacchi economici contro il paese. Uno di questi, che faceva parte di un’operazione di destabilizzazione nota come “Persil”, fu particolarmente perverso: esso consistette nella produzione, per mezzo delle tipografie dello SDECE, di banconote guineane false, che furono poi riversate in massa nel paese. Il risultato fu un drammatico aumento dell’inflazione e il crollo dell’economia guineana. Nonostante i vari tentativi di destabilizzazione da parte della Francia, però, la Guinea mantenne comunque la sua moneta e tutt’ora rimane al di fuori della zona del franco. La Francia riuscì comunque nel suo intento: trasformare la Guinea in uno “Stato fallito” che fungesse da spauracchio agli occhi degli altri paesi che avessero accarezzato l’idea di abbandonare il franco CFA.
Una sorte simile toccò al Mali. Anch’esso, dopo che le sue richieste di riforma del sistema CFA rimasero inascoltate, abbandonò la zona del franco nel 1962. Successivamente al lancio del franco maliano, la Francia fece pressione sugli altri Stati membri dell’UMOA – l’unione monetaria di cui faceva parte il Mali – perché adottassero subito una serie di misure per limitare il commercio con il Mali, un paese senza sbocchi sul mare, il che contribuì a deprezzarne fortemente la moneta. Il paese si trovò rapidamente in difficoltà. Nel 1967, il Mali si vide costretto a rientrare nella zona del franco. L’anno successivo, un colpo di Stato militare guidato da un ex legionario francese rovesciò il governo in carica. Fine della storia.
Come detto, la Francia non si limitò a ricorrere a forme di pressione economica e diplomatica. Il 12 dicembre del 1962, il neoeletto presidente del Togo, Sylvanus Olympio, promulgò una legge che annunciava l’imminente lancio di una moneta nazionale, il franco togolese. Ma questo non avrebbe mai visto la luce: il 13 gennaio del 1963, Sylvanus Olympio venne ucciso a colpi di arma da fuoco, in circostanze mai chiarite. Pochi giorni dopo, il suo posto fu preso da un fedele alleato della Francia, che in poco tempo firmò otto “accordi di cooperazione” con la Francia, incluso un “accordo di cooperazione in materia economica, monetaria e finanziaria” che stabiliva che il Togo sarebbe rimasto nella zona del franco e avrebbe mantenuto il franco CFA. Fine della storia.
La stessa sorte toccò negli anni Ottana al famoso rivoluzionario burkinabé Thomas Sankara, salito al potere nell’allora Alto Volta (ribattezzato Burkina Faso) nel 1983. Anche lui era determinato ad ottenere l’indipendenza monetaria per il suo paese. Nel 1985 dichiarò: «Possiamo affermare che il franco CFA, poiché è legato al sistema monetario francese, è un’arma per la dominazione degli africani. L’economia francese, e dunque la borghesia mercantile capitalista francese, ha costruito la sua fortuna sulle spalle dei nostri popoli attraverso questo legame, questo monopolio monetario. Questo è il motivo per cui il Burkina si sta battendo per porre fine a questa situazione attraverso la lotta del nostro popolo per costruire un’economia indipendente e autosufficiente». Come Sylvanus Olympio vent’anni prima, però, neanche Thomas Sankara fu in grado di completare il suo progetto: venne assassinato il 15 ottobre del 1987. Uno dei principali sospettati di questo omicidio – per il quale non si è mai svolto alcun processo – è il suo successore ed ex compagno d’armi Blaise Compaoré. Quest’ultimo, che sarebbe rimasto al potere fino al 2014, non ha mai contestato l’esistenza del franco CFA e ha mantenuto legami molto stretti con la Francia.
Questa lunga di scia di violenza e repressione ci aiuta a capire come la Francia sia «l’unico paese al mondo a essere riuscito nella straordinaria impresa di far circolare la sua moneta, e solo la sua moneta, in paesi politicamente liberi», come osservò l’economista camerunense Joseph Tchundjang Pouemi nel 1980. Fatta questa necessaria disamina storica – utile a comprendere come l’adesione “volontaria” degli Stati africani al sistema CFA poi così volontaria non sia – possiamo ora passare ad analizzare il “meccanismo diabolico” che sottende il franco CFA.
Il “meccanismo diabolico” del franco CFA
Oggi Parigi afferma che il franco CFA è diventato una “moneta africana” gestita dagli africani. Verso la fine degli anni Settanta, infatti, in un processo che assunse il nome di “africanizzazione” della zona del franco, i quartieri generali delle banche centrali delle due unioni monetarie – la BEAC (Banca degli Stati dell’Africa centrale), l’istituto di emissione dell’UEMOA, e la BCEAO (Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale), l’istituto di emissione della CEMAC – furono trasferiti nel continente africano. Inoltre, la rappresentanza francese nei consigli d’amministrazione delle banche centrali fu rivista al ribasso. Come notano Pigeaud e Sylla, però, a prescindere da questi cambiamenti di facciata, «[i]l sistema è cambiato così poco che all’“unicità monetaria” prevalente durante il periodo coloniale se ne è semplicemente sostituita un’altra»: i cosiddetti quattro princìpi fondamentali della zona del franco, che permettono ancora oggi alla Francia di esercitare un controllo pressoché assoluto sul sistema CFA, sebbene il paese non possieda più il franco francese da vent’anni: in occasione dell’adozione dell’euro, infatti, la Francia diede un’altra grande prova di abilità diplomatica, riuscendo a ottenere che la gestione del sistema CFA rimanesse di sua competenza esclusiva, senza che l’Unione europea e gli altri Stati membri potessero esercitare alcun diritto di controllo. Il risultato è che «[l]o spirito e la funzione del dispositivo su cui poggia questa creazione coloniale rimangono gli stessi di quando fu creato nel 1945».
I quattro princìpi in questione sono il cambio fisso (cioè l’ancoraggio dei franci CFA prima al franco francese e oggi all’euro); la libertà di movimento dei capitali, in particolare tra i paesi africani e la Francia; la convertibilità illimitata dei franchi CFA con l’euro ma non con le altre valute, per cui ogni pagamento estero effettuato in franchi CFA deve essere prima convertito in euro passando per Parigi; e, in ultimo, la centralizzazione delle riserve valutarie. I vantaggi che la Francia ricava dai quattro princìpi alla base del sistema CFA sono innumerevoli. «Più che una semplice moneta», scrivono gli autori, «il franco CFA consente alla Francia di gestire i suoi rapporti economici, monetari, finanziari e politici con alcune delle sue ex colonie secondo una logica funzionale ai suoi interessi». Nei fatti, per esempio, in virtù del suo ancoraggio nelle istituzioni della zona del franco, è Parigi a determinare il valore esterno dei franchi CFA, cioè il loro tasso di cambio, «spesso senza nemmeno informare preventivamente gli Stati interessati». Era il 1994 quando la Francia decise, contro la volontà degli Stati africani, di svalutare del 50 per cento i franchi CFA. Lo stesso accadde con la transizione dal franco francese all’euro, avvenuta l’1 gennaio del 1999. Inoltre, grazie al libero movimento dei capitali, le imprese francesi possono “privatizzare” i profitti realizzati in Africa rimpatriandoli in Francia piuttosto che investirli nello sviluppo locale.
Ma la vera chiave di volta del sistema CFA è rappresentata dalla centralizzazione delle riserve valutarie: le banche centrali della zona del franco – la BEAC e la BCEAO – devono depositare una parte delle loro riserve in valuta estera in Francia, in dei cosiddetti “conti operativi” che detengono presso il Tesoro francese. All’indomani dell’indipendenza, questo obbligo riguardava la quasi totalità delle loro riserve valutarie; oggi questa percentuale è stata ridotta al 50 per cento per la BEAC e al 65 per cento per la BCEAO. Questi conti operativi sono dei conti correnti denominati in euro. Sono regolarmente accreditati e addebitati in base ai flussi in entrata e in uscita dei paesi africani che appartengono alla zona del franco. Il meccanismo di fondo del sistema è relativamente semplice: se l’economia ivoriana esporta in Francia cacao per un valore di 400 milioni di euro, questa somma viene accreditata sul conto operativo della BCEAO: «+400 milioni di euro». Per contro, se importa dall’area euro attrezzature per un valore di 400 milioni di euro, il conto operativo viene addebitato per il medesimo importo: «-400 milioni di euro».
In teoria, la centralizzazione delle riserve sarebbe la contropartita della garanzia di convertibilità illimitata offerta – sulla carta – dalla Francia ai paesi della zona del franco. Questa garanzia prevede che in caso di carenza di valuta estera, il Tesoro francese è tenuto a concedere un anticipo alle banche centrali della zona del franco per evitare una svalutazione dei franchi CFA. Ma si tratta di una garanzia perlopiù fasulla. Parigi, infatti, ha introdotto delle regole stringenti che rendono improbabile l’insorgere di una situazione da “zero riserve valutarie” (tra cui una serie di meccanismi automatici che scattano in caso di scarsità di riserve). A ben vedere, come notano Pigeaud e Sylla, non è la Francia a garantire la convertibilità; sono piuttosto le riserve dei grandi paesi esportatori, come la Costa d’Avorio e il Camerun, a compensare la scarsità di riserve di paesi come la Repubblica Centrafricana e il Togo, che hanno meno risorse.
Non a caso, i conti operativi delle banche centrali della zona del franco sono in attivo praticamente da sempre (a parte un breve periodo in cui sono andati a debito tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta). Come se non bastasse, se è vero che quando i conti sono in attivo il Tesoro francese versa degli interessi alle banche centrali della zona del franco, è altrettanto vero che parliamo di tassi irrisori. Al punto che tra il 2010 e il 2013 queste hanno ricevuto dal Tesoro francese interessi reali negativi, essendo il tasso di prestito marginale della BCE, nello stesso periodo, inferiore al tasso di inflazione nell’area dell’euro. Ciò significa che hanno perso denaro e che anzi «hanno pagato il Tesoro francese per tenere le loro “valute”», come disse Joseph Tchundjang Pouemi. Oltre al danno la beffa.
Ma il vero “privilegio esorbitante” che la Francia trae dal sistema dei conti operativi è un altro. Grazie ad esso, come spiegano Pigeaud e Sylla, «la Banca di Francia non ha bisogno di reperire dollari quando un importatore francese acquista del cotone burkinabé del valore, per esempio, di 1 milione di dollari. Piuttosto, attraverso una semplice scrittura contabile, si limita ad accreditare l’equivalente in euro di questo milione di dollari sul conto operativo della BCEAO. Questo offre alla Francia un grande privilegio: quello di pagare le proprie importazioni dalla zona del franco con la propria moneta (prima il franco, ora l’euro), senza avere bisogno di passare per altre valute». Stiamo parlando di un ampio ventaglio di risorse agricole, forestali, minerarie ed energetiche, tra cui l’uranio, di cruciale importanza per l’economia francese. In breve, scrivono gli autori, «il franco CFA continua la sua missione originaria, cioè quella di servire gli interessi economici della Francia. Ciò non dovrebbe sorprendere: esso è stato creato per questo scopo e dalla sua nascita non ha mai subìto modifiche sostanziali. I due principali beneficiari continuano a essere lo Stato francese e le multinazionali francesi, i cui interessi sono strettamente legati».
Un ostacolo allo sviluppo
E che dire dei presunti benefici che il sistema CFA arrecherebbe agli Stati africani che ne fanno parte? Secondo i suoi difensori, il franco CFA avrebbe favorito lo sviluppo economico dei paesi che ne fanno parte, facilitando «l’integrazione economica regionale» e offrendo una «stabilità macroeconomica» che ne favorisce l’attrattività. In realtà, scrivono Pigeaud e Sylla, il sistema CFA infligge «quattro importanti handicap» ai paesi che ne fanno parte.
I primi due handicap sono ovviamente, il tasso di cambio fisso e l’ancoraggio delle valute locali all’euro. Come è noto, un paese che ancóra la propria moneta a un’altra non può avere una politica monetaria autonoma. L’UEMOA e la CEMAC, due unioni valutarie composte principalmente da paesi poveri, sono di fatto subordinate alla politica monetaria di un’altra unione valutaria, la zona euro, che riunisce paesi ricchi con priorità e bisogni totalmente diversi. Le conseguenze di ciò sono state ben spiegate dal premio Nobel per l’economia Robert Mundell nel 1997:
Se un piccolo paese fissa unilateralmente la propria valuta a un vicino più grande, in realtà sta trasferendo la propria sovranità in termini di politica economica a quel vicino più grande. Questo paese perde la propria sovranità perché non controlla più il proprio destino monetario; il paese più grande, invece, guadagna sovranità perché gestisce un’area valutaria più ampia e guadagna un maggiore “peso” nel sistema monetario internazionale.
Inoltre, come nell’eurozona sappiamo fin troppo bene, il cambio fisso significa che
i quindici paesi membri della zona del franco, presi individualmente, non hanno la possibilità di utilizzare il tasso di cambio per ammortizzare gli shock che colpiscono l’economia o per migliorare la competitività di prezzo dei prodotti locali. E questo in un continente in cui gli shock – politici (colpi di Stato, guerre, tensioni sociali ecc.), climatici (variazioni pluviometriche, siccità, inondazioni ecc.) ed economici (volatilità dei prezzi dei prodotti primari, dei tassi di interesse del debito estero, dei flussi di capitale ecc.) – sono all’ordine del giorno. Per far fronte a degli shock avversi, dunque, i paesi del franco hanno un’unica soluzione, in assenza di trasferimenti di bilancio: la “svalutazione interna”, cioè un adeguamento dei prezzi interni che passa attraverso la riduzione dei redditi da lavoro e della spesa pubblica, l’aumento delle imposte e infine il declino dell’attività economica.
Sono le stesse statistiche dell’FMI a confermare come il tasso di cambio fisso si sia rivelata una scelta funesta per i paesi africani: dal 2000, i paesi dell’Africa subsahariana che operano in un regime di cambio fisso hanno registrato una crescita economica che va da 1 a 2 punti in meno rispetto ai paesi con un tasso di cambio flessibile. Questo scarto è dovuto in particolare «alla minore crescita dei paesi membri della zona del franco», afferma il Fondo monetario.
Da questi primi due handicap discende il terzo handicap della zona del franco: il sottofinanziamento delle economie della zona del franco. Al fine di evitare una caduta duratura del livello delle loro attività estere, che metterebbe a repentaglio la parità fissa, le banche centrali della zona del franco devono infatti limitare la crescita del credito interno (il volume di prestiti bancari messi a disposizione di governi, imprese e famiglie). Inoltre, dal 1999, i paesi della zona del franco sono soggetti agli stessi vincoli di bilancio dei paesi dell’eurozona in termini di deficit e di debito pubblico, nonché, ovviamente, al divieto di finanziamento monetario degli Stati.
«Il franco CFA svolge unicamente una funzione di stabilizzazione e non svolge alcun ruolo attivo nell’economia», ha osservato l’economista Makhtar Diouf nel 2002. Una delle conseguenze è che i paesi africani devono rivolgersi all’estero – spesso e volentieri alla Francia stessa – se vogliono finanziare il proprio sviluppo, contraendo prestiti in valuta estera a tassi molto onerosi. Il meccanismo, dunque, non fa che stringere il cappio del debito estero che attanaglia i paesi africani, con tutto il dramma umano che ne consegue. Come riportano Pigeaud e Sylla, «ogni dollaro speso in Africa per il servizio del debito si traduce in una riduzione del 29 per cento del bilancio sanitario (che, in termini più tragici, può essere tradotto economicamente come segue: ogni 140.000 dollari destinati al servizio del debito, un bambino muore)».
Questo debole finanziamento delle economie penalizza chiaramente la crescita economica, cosa che ammettono anche economisti favorevoli al franco CFA come Sylviane Guillaumont Jeanneney: «La debole crescita dell’UEMOA è in parte spiegata da un tasso di investimento inferiore rispetto ad altre regioni dell’Africa». L’economista senegalese Demba Moussa Dembélé, critico del sistema CFA, è più severo. A causa della parità fissa e della politica restrittiva della BCEAO, spiega, «siamo soggetti agli imperativi della Banca centrale europea, che è ossessionata dalla disciplina fiscale e dalla lotta contro l’inflazione, mentre le priorità dei nostri paesi sottosviluppati dovrebbero essere l’occupazione, gli investimenti in capacità produttiva, la creazione di infrastrutture. Ciò implica una maggiore distribuzione del credito al settore privato e al settore pubblico». L’economista togolese Kako Nubukpo condivide questo punto di vista: «Non può esserci sviluppo senza credito, e una maggiore inflazione incoraggerebbe gli investimenti. C’è una contraddizione tra il discorso sullo sviluppo, che richiede finanziamenti significativi, e il sistema del franco CFA. Le nostre politiche monetarie non tengono conto dell’obiettivo di crescita».
Questa politica estremamente restrittiva viene spesso giustificata col fatto che la creazione di moneta nei paesi poveri che importano quasi tutto dall’estero rischia di esaurire le loro riserve valutarie e quindi di ridurre ulteriormente il valore delle loro valute. Ma la realtà, notano gli autori, è che molti paesi africani importano grandi quantità di prodotti alimentari che potrebbero produrre localmente. Quello che manca, il più delle volte, sono i mezzi finanziari per sviluppare i loro sistemi agricoli e la protezione commerciale contro le importazioni straniere. In questo senso, se i paesi africani finanziassero lo sviluppo della propria agricoltura, non ridurrebbero le loro riserve valutarie, ma, al contrario, risparmierebbero denaro. Purtroppo il sistema CFA impedisce qualunque politica di mobilitazione delle risorse interne.
Infine, l’ultimo handicap: la libertà di movimento di movimento dei capitali. Si tratta, scrivono Pigeaud e Sylla, di «un fattore che ostacola considerevolmente lo sviluppo dei paesi interessati, traducendosi il più delle volte in un dissanguamento finanziario che, per certi versi, ricorda quello dell’economia della tratta degli schiavi. Quando settori economici fondamentali sono sotto il controllo del capitale straniero, come è il caso nella maggior parte dei paesi della zona del franco, la libertà di movimento dei capitali agisce come un meccanismo di drenaggio delle risorse africane verso il resto del mondo: un’autorizzazione al saccheggio». Questo fenomeno è osservabile soprattutto nei paesi maggiormente dotati di risorse naturali: Costa d’Avorio, Camerun, Congo, Gabon e Guinea Equatoriale. Basti pensare che tra il 2000 e il 2009 i trasferimenti netti di reddito verso il resto del mondo – che includono i profitti e i dividendi delle multinazionali operanti in quei paesi – ammontavano all’incirca al 43 per cento del PIL per la Guinea Equatoriale e al 30 per cento del PIL per il Congo.
Il risultato di questi “quattro handicap” è che, sebbene alcuni paesi della zona del franco (soprattutto quelli più ricchi di materie prime) abbiano registrato un tasso di crescita annuo del PIL piuttosto poderoso negli ultimi anni, un’analisi delle statistiche a lungo termine dimostra che il PIL reale pro capite – o “reddito medio” – della maggior parte dei paesi della zona del franco è pari o inferiore (in alcuni casi di un terzo o di quarto) a quello registrato negli anni Settanta o Sessanta. Anche un’analisi degli indicatori relativi alla salute e all’istruzione conferma la conclusione secondo cui il progresso socioeconomico nella zona del franco è stato decisamente limitato: 12 dei 15 Stati africani della zona del franco sono classificati tra i “paesi a basso sviluppo umano”, l’ultima categoria dell’indice di sviluppo umano (HDI, Human Development Index) sviluppato dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e basato sul reddito nazionale lordo pro capite, l’aspettativa di vita alla nascita e il livello di scolarizzazione. Nel 2015, gli ultimi quattro posti nella classifica HDI sono andati al Burkina Faso, al Ciad, al Niger e alla Repubblica Centrafricana, tutti paesi che appartengono alla zona del franco. Inoltre, dieci Stati della zona del franco fanno parte di quelli che le Nazioni Unite chiamano i “paesi meno sviluppati”, cioè paesi la cui popolazione è, in linea di principio, inferiore a settantacinque milioni di abitanti, che hanno un reddito nazionale lordo pro capite basso, un basso livello di sviluppo umano e un’elevata vulnerabilità economica.
«Ovviamente, il franco CFA non è l’unica causa di questo sottosviluppo generale e altri paesi africani non se la sono necessariamente “cavata meglio”», notano Pigeaud e Sylla. «Ma è indiscutibile che l’argomento secondo cui il franco CFA abbia “favorito” la crescita e lo sviluppo è falso»:
In tutti i paesi in cui circolano i franchi CFA e delle Comore, il sottosviluppo del potenziale umano e delle capacità produttive è la norma. Il sistema CFA non ha stimolato né l’integrazione commerciale tra i suoi membri, né il loro sviluppo economico, né la loro attrattività economica. Al contrario, ha privato gli Stati interessati della possibilità di condurre una politica monetaria autonoma, ha paralizzato le dinamiche produttive attraverso la limitazione dei crediti bancari, ha penalizzato la competitività dei prezzi delle produzioni locali attraverso tassi di cambio strutturalmente sopravvalutati e ha facilitato forme di dissanguamento finanziario destabilizzanti e molto costose sul piano sociale.
Le conseguenze politiche della privazione di sovranità monetaria
Alla luce di quanto detto fin qui, ci si potrebbe chiedere perché gli Stati della zona del franco non abbandonino il sistema CFA. Una prima risposta è che ancora oggi la Francia non si fa alcuno scrupolo a utilizzare tutti gli strumenti di pressione a sua disposizione contro quei paesi che osino mettere in discussione il sistema CFA. Un esempio particolarmente eclatante di ciò, riportato da Pigeaud e Sylla, si è avuto recentemente in Costa d’Avorio. Tutto ebbe inizio in seguito alle elezioni presidenziali del 2010, quando il paese si ritrovò di fatto con due presidenti. Il primo, Laurent Gbagbo, il presidente uscente, era stato riconosciuto come il legittimo vincitore delle elezioni dal Consiglio costituzionale ivoriano e aveva quindi mantenuto il potere e il controllo dell’amministrazione statale; il secondo, Alassane Ouattara, era invece considerato il vincitore dalla “comunità internazionale”. Volendo vedere Ouattara a capo del paese, il presidente francese Nicolas Sarkozy, suo amico e principale sostenitore, attivò vari dispositivi e in particolare quello della zona del franco. «L’idea delle autorità francesi – scrivono gli autori – era di paralizzare l’amministrazione ivoriana per spingere Gbagbo a dimettersi».
Per prima cosa, su istruzione di Parigi, la BCEAO – cioè la banca centrale della CEMAC, l’unione monetaria di cui fa parte la Costa d’Avorio – iniziò a impedire al governo ivoriano di accedere ai propri conti presso la BCEAO. Inoltre, chiuse le filiali ivoriane della BCEAO. Il governo riuscì però a riaprirle tramite una misura di precettazione del personale; a quel punto, la BCEAO attivò un software per bloccarne il funzionamento. Gli amministratori della banca costrinsero anche il suo governatore a rassegnare le dimissioni, accusandolo di essere troppo compiacente con le autorità ivoriane. Poi, nel febbraio del 2011, di fronte al rifiuto di Gbagbo di cedere alle pressioni internazionali, il ministero dell’Economia e delle Finanze francese chiese alle banche francesi operanti in Costa d’Avorio di cessare di cessare le loro attività nel paese. Allo stesso tempo, la BCEAO minacciò di sanzionare le altre banche se persistevano nel voler collaborare con il governo di Laurent Gbagbo.
Dal momento che non era possibile ordinare alle istituzioni finanziarie non francesi di cessare le loro attività, la Francia passò al prossimo stadio. Mobilitò la sua arma invisibile: il conto operativo. Con l’assistenza della BCEAO, il ministero delle Finanze francese sospese le operazioni di pagamento e di cambio della Costa d’Avorio, che dovevano passare attraverso il conto operativo della BCEAO. In questo modo, tutte le transazioni commerciali e finanziarie tra la Costa d’Avorio e il resto del mondo furono bloccate. Le imprese ivoriane si ritrovarono impossibilitate a esportare e a importare. Questo sabotaggio impedì inoltre alle rappresentanze diplomatiche ivoriane di ricevere i loro stanziamenti di bilancio. In questo modo, scrivono Pigeaud e Sylla, «le autorità francesi dimostrarono che il sistema del conto operativo poteva diventare un formidabile strumento di repressione: attraverso di esso, la Francia fu in grado di organizzare un embargo finanziario spaventosamente efficace».
Justin Koné Katinan, il ministro del Bilancio di Laurent Gbagbo durante quella crisi, avrebbe poi raccontato nel 2013: «Ho visto la Franciafrica con i miei occhi. … Ho visto come i nostri sistemi finanziari continuino a essere totalmente sotto il dominio della Francia, nell’interesse esclusivo della Francia. Ho visto come un singolo funzionario in Francia possa bloccare un intero paese».
Di fronte all’embargo finanziario della Francia, l’amministrazione ivoriana cominciò ad organizzarsi per per creare una propria moneta nazionale e portare la Costa d’Avorio fuori dalla zona del franco, l’unico modo per aggirare la trappola della BCEAO. A quel punto la Francia, per evitare di essere battuta sul suo stesso terreno, passò alle maniere forti: utilizzò le proprie forze armate presenti in Costa d’Avorio – così come in molti altri paesi della zona del franco – per rovesciare il governo di Gbagbo. Dopo aver bombardato per diversi giorni le caserme militari, il palazzo presidenziale e la residenza ufficiale del capo dello Stato della Costa d’Avorio, i soldati della base francese di Abidjan lanciarono, l’11 aprile del 2011, un attacco su larga scala contro l’esercito ivoriano. Questa operazione si concluse lo stesso giorno con l’arresto di Laurent Gbagbo. Fine della storia.
Uno status quo insostenibile
L’episodio sopracitato fa intendere quanto sia ridicola l’argomentazione secondo cui i paesi della zona del franco aderirebbero “volontariamente” alla zona del franco e potrebbero andarsene in qualunque momento. Ciò detto, è indubbio che le élite africane della zona del franco sostengano, con poche eccezioni, il sistema CFA. Questo è perfettamente comprensibile. Dopotutto, queste «sono salite al potere – e continuano a esercitarlo – con il sostegno dell’Eliseo», scrivono Pigeaud e Sylla. I dirigenti africani sanno che finché continueranno a facilitare le operazioni dello Stato francese e a non sfidare il franco CFA, godranno, per esempio, di una protezione relativa – anche militare, come abbiamo visto in Costa d’Avorio – contro i loro oppositori. A queste condizioni, è ovvio che non hanno alcun incentivo a migliorare la sorte dei loro concittadini, poiché sanno che rimarranno comunque al potere, con o senza il loro sostegno.
Inoltre, spiegano sempre gli autori, pur essendo architettato per servire gli interessi francesi, il sistema CFA offre certi benefici economici ad alcuni gruppi sociali africani. L’ancoraggio del franco CFA all’euro, una valuta forte, consente agli importatori dei paesi africani, ad esempio, di acquistare a un prezzo vantaggioso prodotti che permettono loro di competere facilmente con le produzioni locali, che spesso non sono molto competitive e godono di una scarsa protezione. Allo stesso tempo, fornisce alle classi medie e benestanti locali un potere d’acquisto internazionale “artificiale” che dà loro l’opportunità di avere accesso agli stessi beni e servizi delle loro controparti occidentali. Infine, la libertà di movimento dei capitali consente alle élite facoltose del posto di investire le loro fortune, più o meno legalmente, in Europa e altrove.
Tuttavia, come detto all’inizio, «da qualche anno a questa parte, il franco CFA ha smesso di essere una questione dibattuta unicamente dagli esperti: è uscito dai corridoi delle istituzioni finanziarie per affacciarsi sulle strade e sulle piazze. Oggi è oggetto di articoli, manifestazioni, spettacoli televisivi e conferenze nel continente africano e in Francia. Le richieste di porre fine al franco CFA si stanno moltiplicando e la pressione sta aumentando». Sono sempre di più gli economisti, gli intellettuali, gli artisti e i movimenti sociali africani che chiedono la fine del colonialismo monetario. Le loro argomentazioni, notano gli autori, «hanno una certa eco nell’opinione pubblica, sempre più consapevole che, senza indipendenza monetaria, gli Stati della zona del franco continueranno a rimanere assoggettati alla Francia».
«Senza conoscere necessariamente tutti i dettagli tecnici del caso – scrivono – un numero crescente di cittadini africani si sta rendendo conto del fatto che sarà impossibile determinare liberamente il proprio destino senza una reale sovranità monetaria». Un monito su cui anche i popoli dell’eurozona farebbero bene a riflettere.
Fonte: sinistrainrete, 18.5.2019
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