Che fine ha fatto la scuola pubblica?
di ROBERTO RENZETTI
I marxisti, me compreso, avevano sopravvalutato il capitalismo (l’unico che non aveva fatto un tale errore era Gramsci). Credevano fosse penetrato dovunque e pervaso con la sua ideologia ogni struttura, corrompendola. Sbagliavamo. La scuola era rimasta fuori ed era forse l’unico luogo dove non era potuta penetrare la società dei consumi e del facile successo. Inconsciamente tutte le forze politiche fino al 1968 avevano spinto per una scuola sempre più selettiva.
La protesta studentesca era generica. Le vicende politiche contingenti sviarono l’attenzione dalla scuola alla politica generale. La parte del movimento strettamente politica fu azzittita con le bombe di Piazza Fontana. L’altra, quella che aderiva con motivazioni minimali e comunque non trainante, fu blandita con riforme populistiche che dettero il via al tracollo della scuola pubblica. Siamo stati, per quanto inconsciamente, coloro che hanno aperto la breccia dentro cui si è infilato il capitalismo.
La scuola presessantotto era scuola selettiva certamente, classista in grandissima parte, ma altrettanto certamente garantiva sbocchi universitari con bagagli culturali generalmente adeguati o sbocchi professionali adeguati. Non è un caso che poi, sempre più al passare del tempo dal 1968, si sia radicata (ci abbiano inculcato) una convinzione dal sapore quasi ineluttabile: la scuola di massa ed aperta a tutti è una scuola dequalificata. Ma perché? Perché? La risposta era ed è semplice. E come le cose più semplici è la più difficile da capire.
L’equivoco sta tutto nella non univoca definizione di “scuola di massa”. Se con tale termine si intende una scuola che porti tutti ad acquisire un titolo, hanno ragione coloro che ci hanno inculcato quel concetto. Ma se con quel termine si vuole (e per me si deve) intendere scuola aperta a tutti con identiche possibilità di accesso per tutti, allora l’identità di scuola pubblica con dequalificazione è una sciocchezza madornale.
Christopher Lasch, uno studioso americano, nel suo fondamentale The culture of narcissism (W.W. Norton, 1979) dice cose di estremo interesse. Riporto un brano tanto per iniziare (citato da Michéa): “L’istruzione di massa, che prometteva la democratizzazione della cultura, prima ristretta ai ceti privilegiati, finì per danneggiare gli stessi privilegiati. La società moderna, che ha conseguito un livello di istruzione formale senza precedenti, ha anche dato origine a nuove forma di ignoranza. Alla gente risulta sempre più difficile maneggiare la propria lingua con scioltezza e precisione, ricordare i fatti fondamentali della storia del proprio Paese, realizzare deduzioni logiche o comprendere testi scritti che non siano rudimentali o, addirittura, di comprendere i propri diritti costituzionali“.
Ebbene, Lasch godeva dell’osservatorio privilegiato del suo Paese, del Paese più avanzato del mondo con una scuola che anticipava di almeno 20 anni la nostra. Oggi, come riconosce Michéa per la scuola francese, anche noi in Italia dobbiamo iniziare a preoccuparci fortemente perché siamo entrati quasi completamente nella situazione che denunciava Lasch.
Per realizzare pienamente il MERCATO e far raggiungere all’uomo la felicità, la pace, la prosperità occorre eliminare tutti gli ostacoli che lo impediscono. In una società determinata (da determinismo) in cui tutto debba funzionare meccanicisticamente occorre che gli individui siano come atomi da poter seguire nelle loro traiettorie e non in grado di deciderle.
Ora, vogliono i cittadini comportarsi come unità discrete che si muovono con leggi meccaniche? Questo è il nocciolo del problema che in qualche modo costruisce l’Economia Politica e fa da spartiacque tra l’economia marxista e quella liberale. Oggi dobbiamo considerare SOLO la vertente liberale. In essa si richiede, per l’eliminazione di quegli ostacoli al libero sviluppo del mercato, che il potere politico sia tanto “autorevole” da togliersi di torno ogni problema che la religione, una qualche ideologia, il diritto e le consuetudini pongono.
L’uomo deve essere razionale. Ma con una razionalità postcartesiana, definita bene da Hume: egoismo e calcolo (il regno della borghesia, secondo Engels). Ed il potere politico deve indirizzare il cittadino verso la sua personale utilità, verso il suo egoismo. Oggi, dopo le vicende che più o meno conosciamo, abbiamo di fronte la massima espressione delle aspirazioni liberali. Non sembra vi siano più ostacoli.
La religione dalle parti nostre vive appagata dei suoi privilegi ed è d’aiuto al MERCATO; le consuetudini non esistono più, ormai si va verso il pensiero unico, quello americano; il diritto viene modificato a seconda delle necessità di chi detiene il potere; le ideologie di massa non ci sono più. In definitiva siamo dentro al mondo capitalista dove, l’affermazione dell’egoismo e del calcolo è una negazione di tutti quei valori (anche in senso nietzschiano) che rendono l’uomo non macchina, non atomo: la solidarietà, l’amicizia, l’amore… L’affermazione del capitalismo è quindi la negazione di ciò che costituisce la peculiarità dell’uomo, il suo associarsi in società con regole che vanno al di là dei meri rapporti economici. Di fatto il capitalismo si afferma nelle società in cui vengono meno quei valori per forza economica e potenza comunicativa, dove i vincoli famigliari, religiosi e tribali (se si vuole) sono estremamente affievoliti.
Ma per ottenere ciò servono figure antropologiche che il capitalismo di per sé non può costruire senza negare se stesso: operai con coscienza professionale, giudici incorruttibili, dirigenti rigorosi, insegnanti preparati e dediti alla loro professione. Queste figure sono ereditate da generazioni e stratificazioni precedenti e stanno lì, sempre meno ma sempre vigili. Sono l’impedimento ancora esistente al pieno dispiegarsi del MERCATO.
Dice Michéa: “Ora che sparisce dalla nostra vita, e presto dalla nostra memoria, comprendiamo un poco meglio ciò che il mondo moderno era realmente fino a poco tempo fa. Quello che configurava la sua complessità … era questa contraddizione permanente tra le regole universali del sistema capitalista ed il civismo proprio delle differenti società nelle quali si realizzava. Era un mondo dove il modo di produzione capitalista era molto lontano dalla sua realizzazione pratica“, esistevano gli anticorpi naturali in quelle figure antropologiche di cui prima che resistevano anche in modo completamente naturale e disorganizzato.
Dove intervenire allora per rendere sempre più penetrante l’ideale del MERCATO? E’ evidente, e qui riprendiamo da dove avevamo lasciato: sui giovani e quindi sulla SCUOLA.
Di fatto la conoscenza non serve al futuro lavoratore ed in tal senso il sistema di potere si è accorto che l’impresa scuola è assolutamente dispendiosa e basata su dati ipocriti. Fino a poco tempo addietro si tentava di ammantare gli insuccessi con giustificazioni. Oggi stanno sparendo anche le giustificazioni. Sono pochi quelli che ci interessano per mandare avanti il sistema: non serve mantenere un apparato elefantiaco, li possiamo estrarre con altri metodi da altre situazioni. La descolarizzazione è ciò che serve. Solo pochi che accedono all’istruzione per alimentare le esigenze produttive di tecnici ed operai specializzati; a tutti gli altri l’educazione necessaria sarà trasferita dai mass media che vuol dire, oggi, la TV e la pubblicità. Ed allora, in attesa di una selezione fatta altrove, la scuola funziona come contenitore sempre più vuoto.
Chiacchiere prive di senso, che dovrebbero essere il contenitore (le pseudoscienze), diventano il contenuto. Si discute di come insegnare, di quali sono i caratteri, di come si trasferisce la comunicazione ma non si dice mai qual è l’argomento dell’insegnamento. Non serve più, essendo affidato ai singoli ed all’aiuto che ad essi danno famiglie oculate che hanno già capito e possono permettersi di scappare da questa omogeneizzazione verso la cialtroneria.
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