Storia dell’Unione Europea, 2016-2026. II Parte: la Babele dell’immigrazione
di PIER PAOLO DAL MONTE
A questo punto, prima di dare conto degli avvenimenti successivi, vorremmo fornire al lettore un quadro, seppure conciso, della situazione dell’epoca, onde evitare ch’egli si trovi a leggere di eventi i cui motivi non sono stati sufficientemente chiariti. È passato solo un decennio dagli avvenimenti che ci apprestiamo a descrivere, un periodo troppo breve affinché ve ne possa essere un’accurata documentazione storica, scevra dai pregiudizi dovuti alla faziosità della cronaca del tempo che, con le loro morchie, possono corrompere anche lo strumento della memoria impedendo un corretto sguardo a ritroso ( sguardo che, per altro, non può essere dato ai più giovani).
È bene, quindi, soffermarsi su un altro fattore che, quantunque presente in ogni epoca della storia, assunse, in quel periodo proporzioni e caratteristiche paradossali. Stiamo parlando di quella che, all’epoca, venne definita come “crisi dei migranti”[1], termine che, nella neolingua del tempo, non indicava le specie di uccelli non stanziali, e neppure le mandrie di zebre e gnu che, periodicamente, si spostano tra Serengeti e Masaai Mara, bensì gli immigrati che dall’Africa, dal Medio Oriente, e da alcuni paesi asiatici si riversavano, in grande copia, nei paesi europei attraverso le frontiere esterne dell’Unione, ovvero l’Italia, la Grecia e i Balcani. Per cercare di spiegare questa crisi, dobbiamo però fare alcuni ulteriori passi indietro.
Il fenomeno dell’immigrazione, pur se riconducibile, in parte (soprattutto nella sua fase acuta), alla strategia di “caos sistemico”[2] perseguita dalla potenza egemone declinante, gli Stati Uniti, con la complicità dei suoi lacchè, i paesi della NATO, non può essere ridotta soltanto a questo aspetto. A volte è necessario smussare un poco il rasoio di Ockham e scrutare gli eventi con uno sguardo un po’ più ampio, se se ne vuole chiarire anche l’aspetto “strutturale”.
È difficile ritenere che l’immigrazione avrebbe raggiunto le proporzioni drammatiche che assunse all’epoca, se non fossero stati presenti altri fattori causali, acuti e cronici che riassumeremo brevemente. Il più evidente, tra quelli cronici, è stato lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali dei paesi di origine degli immigrati da parte delle potenze “neocoloniali” che, nella loro opera di dominio, avevano sostituito la supremazia militare (naturalmente non del tutto, come si è visto in Iraq o in Afghanistan) con quella economica, affiancata dalla capacità di controllare le istituzioni che governavano la politica e l’economia internazionale[3].
Inoltre, nel corso degli anni, in gran parte dei “paesi in via di sviluppo” (sappiamo bene che è un eufemismo ma, a tutt’oggi, è la definizione più usata), le medesime “potenze dominanti” avevano promosso l’ascesa al potere di classi dirigenti corrotte e compiacenti, ostacolando qualsiasi alternativa politica che potesse intralciare i loro propri interessi[4]. Oltre a ciò avevano imposto, a livello mondiale, un unico modello economico – questo è il succo di ciò che viene definito “globalizzazione”- che aveva distrutto il tessuto sociale delle nazioni più “arretrate” e più deboli, nonché le economie “vernacolari” locali che garantivano almeno la sussistenza.
Così, tutto il mondo era divenuto un immenso percorso di “migrazione di massa”: dalle campagne alle città, dai paesi poveri a quelli ricchi (o che venivano percepiti come tali). D’altra parte, questo fenomeno era del tutto ortodosso – e alquanto opportuno – secondo i canoni di un certo tipo di religione, la più diffusa e totalitaria dei nostri tempi, ovvero il moderno culto del capitale[5] (definito “capitalismo”). Secondo quest’ultimo, lo scopo ultimo dell’essere umano è quello di trasformare, nel modo più efficiente e rapido, tutto ciò che esiste, in profitto per qualcun altro e, per fare ciò, trasformare tutto l’esistente in valore di scambio[6]. Sotto quest’aspetto, le “migrazioni” non erano altro che l’ “import-export” di un particolare tipo di “merci”.
Per i seguaci della religione del capitalismo (e la gran parte del mondo lo è), quella descritta sopra era una situazione senza lati negativi, che comportava solo vantaggi: una “win-win situation”, come direbbero gli anglofoni.
Il primo vantaggio (il primo win dell’equazione) consisteva nel fatto che, i paesi poveri e le loro genti, – a parte uno sparuto ceto politico-imprenditoriale locale “di rapina (i moderni “robber barons”)- venivano fatti oggetto di quella che David Harvey ha definito “accumulazione per espropriazione”[7], da parte delle entità economiche dei paesi ricchi ed egemoni (ricchi in quanto egemoni ed egemoni in quanto ricchi).
La conseguenza inevitabile di quest’azione predatoria, era che le popolazioni locali venivano impoverite e private del loro habitat . E, per la più parte, costoro non riuscivano nemmeno a comprendere che, quello che subivano, non era semplicemente un destino cieco e crudele, ma il risultato di azioni volontarie e coscienti, il cui fine era solamente quello di ottenere un profitto dalle risorse presenti nei luoghi nei quali vivevano (e, eventualmente, dalla loro forza-lavoro resa disponibile sul mercato). In un certo senso, quella sorte poteva paragonarsi ad un destino cieco. In questo caso, la mano invisibile del Dio di Agostino si era trasmutata nella mano invisibile del mercato con i suoi imperscrutabili disegni, secondo i quali, le popolazioni erano semplicemente l’ultimo anello di una catena di eventi che si dipanavano attraverso la “macina satanica”[8] dell’economia globalizzata.
Così, alle vittime di questo processo, spesso non rimaneva altra “soluzione che quella di cercare altrove i mezzi di sussistenza che erano negati in loco. Il primo passo di costoro, in genere, era quello di emigrare verso le disastrate megalopoli dei propri paesi, attirati dal miraggio di opulenza che esse esibivano, nella speranza di ricevere qualche briciola di quell’immaginaria abbondanza. In realtà, dietro a quel illusione, si nascondeva una realtà assai meno edificante: la maggior parte di quei poveretti finiva il proprio viaggio nelle discariche umane delle periferie delle suddette megalopoli, i famigerati slums che, in tutto il mondo, crescevano e si moltiplicavano a dismisura. Alcuni, quelli che potevano permetterselo[9] ( e, quindi, in genere, non erano né i più poveri, né i più sfruttati), si mettevano nelle mani dei trafficanti di carne umana (scafisti e simili), che ricavavano immensi profitti dal recapitare la loro merce nei paesi ricchi (profitti che rimanevano immutati anche quando, per disgrazia, le loro merci non arrivavano a destinazione).
Qui arriviamo al secondo vantaggio, per i “volonterosi carnefici del capitalismo” o, anglofonicamente, il secondo “win” dell’equazione. Giunte a destinazione, nei paesi della (un tempo) opulenta Europa, quelle che, nel corso del viaggio, erano umane merci, diventavano “risorse umane” (sia dannato per l’eternità colui che ha coniato questa locuzione), per i datori di lavoro (soprattutto quelli dell’ancora opulenta Germania), i quali, per assicurarsi un congruo profitto, hanno costantemente bisogno di un “esercito industriale di riserva” (Karl Marx) da mettere in concorrenza con i lavoratori autoctoni, allo scopo di evitare che questi ultimi, troppo viziati dallo ”stato sociale” che si era affermato nell’Europa del dopoguerra (e che le regole dell’Unione Europea stavano rapidamente smantellando) potessero pretendere salari troppo esosi, che avrebbero compromesso i profitti di azionisti e fondi pensione (che avevano preso il posto di coloro che, un tempo, venivano chiamati “padroni”). Certo che, se ad una bella crisi economica, si aggiunge l’opportunità di disporre di milioni di braccia disposte a lavorare per un tozzo di pane, è molto più facile fare strame i diritti acquisiti dai lavoratori in decenni di lotte.
Come scrive David Harvey in “The enigma of capital”:
«Se si osservano gli anni ’60, una delle maggiori barriere all’accumulazione di capitale e al consolidamento del potere della classe capitalistica, fu il lavoro. Vi era scarsità di lavoro, sia in Europa che negli Stati Uniti. I lavoratori erano ben organizzati, ben pagati e godevano di un certo potere politico. Tuttavia, il capitale aveva bisogno di una manodopera più conveniente e più docile. Vi sono diversi modi per ottenere questo. Uno era quello di incoraggiare l’immigrazione. L’Immigration and Nationality Act del 1965, che abolì le quote per-nazione-di-provenienza, consentì al capitale statunitense di avere accesso al “surplus” di popolazione globale (prima erano privilegiati gli europei e i bianchi in genere). Verso la fine degli anni ’60 il governo francese sussidiava l’”importazione di lavoro” dal Nord Africa, i tedeschi importavano i turchi, gli svedesi gli yugoslavi e i britannici potevano contare sulle popolazioni del loro passato impero»[10].
Quest’opera di “importazione” di truppe nelle file dell’”esercito industriale di riserva” era favorita da numerosi fiancheggiatori, come le varie ONG, le società e le cooperative che gestivano gli immigrati per conto dei governi, nonché le numerose “charities” che prosperano in tempi di crisi ed di “compressione” del settore pubblico. Queste entità avevano tutto l’interesse a promuovere i fenomeni migratori, dal momento che molti dei loro introiti derivano proprio dalla gestione di questo tipo di “emergenze”[11].
Sebbene, come abbiamo detto, un ingente flusso di immigrati fosse presente da diversi anni, esso si era esacerbato in quel periodo, in occasione di alcuni eventi cruenti connessi alla strategia di promozione del “caos sistemico” perseguita dalla potenza egemone, gli Stati Uniti e dai suoi lacchè, ovvero i paesi della NATO.
Possiamo, grossomodo, situare l’inizio di questa crisi nel 2011, l’anno in cui si svolsero le cosiddette “primavere arabe” che servirono, in parte, per rovesciare governi invisi alla potenza egemone. In Libia la politica dissennata di “esportazione della democrazia” manu militari (i cui precedenti si erano già apprezzati in Iraq e in Afghanistan) rovesciò il governo di Geddafi (che, a onor del vero, non era un santo) lasciando la più totale anarchia sul territorio libico, che divenne teatro di una guerra per bande e un terreno fertile per terroristi e trafficanti di esseri umani. In Siria, d’altro canto, venne scatenata una guerra civile che durò più di sette anni e creò un abbondante flusso i profughi verso i confini meridionale dell’Unione.
Questo flusso, seppur cospicuo, si intensificò vieppiù nell’estate del 2015, a seguito delle deliranti affermazioni della allora cancelliera del Reich –pardon– della Repubblica Federale Tedesca, che proclamò che il suo paese era ansioso di accogliere chiunque avesse voluto trasferirvisi.
Peccato che l’improvvida (diciamo così) cancelliera non avesse tenuto conto del fatto che la Germania fosse situata al centro dell’Europa e, visto che gli immigrati o i profughi sprovvisti di regolare visto, non sbarcano direttamente dagli aerei in arrivo all’aeroporto di Francoforte o di Monaco di Baviera, chiunque volesse raggiungere il suolo tedesco doveva giocoforza passare attraverso i confini meridionali o orientali dell’Unione Europea.
Pertanto, coloro che, allettati da cotanto invito cancellierale, volevano trasferirsi nel paese dei crauti erano, obbligati a transitare dai paesi del sud, come la Grecia o l’Italia, che, già afflitti da una devastante crisi economica, si trovarono ad affrontare un esorbitante afflusso di immigrati, che si rivelò, ben presto, assolutamente ingestibile. Ma, se i paesi del sud piangevano, quelli del nord non ridevano affatto, anzi, si può dire furono i paesi scandivi che accusarono, più di altri, le conseguenze di quel fenomeno che che, negli anni successivi, avrebbe messo in serio pericolo la tenuta dell’Unione Europea.
Ma, prima di affrontare quest’argomento, faremo una lunga digressione per rendere edotto il lettore circa la situazione geopolitica di quegli anni e, nella fattispecie sui cambiamenti che, in quel fatidico 2016, videro, come protagonista, gli Stati Uniti, e che, come tutto ciò che riguarda la potenza egemone (seppur in declino), non potevano non avere un forte impatto sull’Europa.
(Continua)
[1] Che, con termine del tutto improprio, dal punto di vista del diritto internazionale, venivano chiamati “rifugiati”, la cui definizione, secondo la Convenzione di Ginevra (Art.1, capo A, comma 2), è la seguente:
« Colui che, (…) temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra. »
Testo completo al seguente link:
https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Convenzione_Ginevra_1951.pdf
[2] Cfr: Giovanni Arrighi, Beverly Silver, Chaos and Governance in the Modern World System, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1999
Samir Amin, Empire of Chaos, Monthly Review Press, 1992
[3] ONU, FMI, Banca Mondiale, WTO, ecc
[4] Vedi, tra tutti, gli storici casi di Mussadek in Iran, di Lumumba in Congo (oggi Repubblica democratica del Congo) o di Shankara in Alto Volta (oggi Burkina Faso).
[5] Cfr.: Walter Benjamin, Capitalismo come religione, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2013
[6] Cfr. Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 2000
[7] [7] Cfr. David Harvey, The new imperialism, Oxford University press, 2003
[8] Locuzione utilizzata da Karl Polanyi in La grande trasformazione, cit., tratta dalla poesia di William Blake: Jerusalem
[9] Quel tipo di viaggi aveva un costo che veniva stimato essere piuttosto elevato, dell’ordine di diverse migliaia di dollari.
[10] David Harvey, The Enigma of Capital, Oxford University Press, 2010, p. 14
[11] In più, alcuni paesi, come l’Arabia Saudita favorivano l’afflusso dei loro correligionari che, data la loro lagomorfica fertilità, avrebbe consentito, nel giro di pochi anni, una “invasione demografica” dei paesi “infedeli.”
Commenti recenti