Perché occuparci della rivoluzione d’ottobre.
di ALDO GIANNULI
Da circa 60 anni si è affermato un curioso modo di fare storia per anniversari: si parla di un determinato argomento nell’anno un cui cade il ventennale, trentennale, cinquantenario o secolo da un certo avvenimento (meno osservate sono le altre decine: quarantesimo, sessantesimo, settantesimo, ottantesimo e novantesimo) ed allora gli editori sfornano in quantità titoli su fenomeno o il personaggio celebrato, gli autori di predispongono da due o tre anni prima alla scadenza, giornali e tv propongono speciali eccetera. Dopo di che, di quell’argomento non si parla più sino al successivo anniversario.
Questa è la regola generale. Poi ci sono le eccezioni: gli anniversari che passano sotto silenzio o in tono minore; questo talvolta dipende da una qualche distrazione o dalla scarsa notorietà del personaggio di cui cade l’anniversario. Ad esempio, in nessuna scadenza si è dedicata attenzione (e lo stesso sarà nel centenario che cade nel 2025) alla ricorrenza della morte di Alexander Helfand (detto Parvus), personaggio storico tutt’altro che marginale, ma conosciuto solo dagli specialisti. Ma ci sono anche altre ragioni che possono indurre al sottotono di una determinata ricorrenza, sono gli “anniversari imbarazzanti” che sono quelli che interessano di più, perché l’imbarazzo dipende dal fatto che essi sono “disturbanti” il che dice che la sua eredità è ancora attuale. Sono i personaggi e gli avvenimenti che “non disturbano” quelli che ricevono la maggior attenzione, perché parlando di qualcosa che è definitivamente assimilato dal presente, omologato e risolto senza strascichi.
E’ accaduto con il centocinquantesimo dell’Unità Nazionale che è stato celebrato decisamente in tono minore: pochi libri (e pochissime opere di valore come il Cavour di Viarengo), un diluvio di noiosissime e vuote celebrazioni istituzionali, un po’ di speciali dei giornali (ma senza esagerare), distratte trasmissioni televisive, ma non un solo vero dibattito storiografico capace di fare un bilancio di 150 anni di vita unitaria.
A dire del livello della discussione sul perché l’unità sia stata un bene, ricordo una frase per la quale “Il Regno di Sardegna o quello delle Due Sicilie non avrebbero vinto il campionato mondiale del calcio”.
Ma come “maneggiare” un argomento così ingombrante mentre la retorica europeista e globalizzante celebra (o auspica) la fine dello stato nazionale ? Si può esaltare l’unità nazionale, a rischio di rafforzare il senso di appartenenza nazionale mentre si celebra la “cittadinanza europea” che quelle identità nazionali vuol sostituire? Molto meglio affogare tutto nelle trombonate del grande oratore di turno e nelle curiosità storiografiche e nel colore (il sito della Presidenza del Consiglio sul tema fu una importante vetrina della gastronomia nazionale).
Questo sta accadendo, almeno sinora, anche per il centenario della rivoluzione russa: pochi libri, almeno sinora, e prevalentemente ripubblicazioni di testi di mezzo secolo fa, come le memorie di Victor Serge, qualche serie di articoli giornalistici (forse solo Repubblica), rare trasmissioni televisive e, soprattutto, nessun vero dibattito storiografico. Dopo la “volgare vulgata” dei vari Conquest, Courtois, Whert ecc., sono comparse opere un po’ più meditate, meno faziose, ma i tentativi di trovare un punto di equilibrio fra riconoscimento e condanna non superano, nella maggior parte dei casi, la riproposizione di vecchi argomenti precedenti la caduta dell’Urss, o semplici constatazione di buon senso che restano ancora decisamente al di sotto della portata del tema che richiede una visione di insieme e di lungo periodo capace di indagare in pieghe sin qui poco osservate, tanto più che abbiamo a disposizione una massa documentaria importante.
Questo accade non tanto perché manchino, a livello mondiale, storici della capacità metodologica o delle conoscenze necessarie, ma perché questo problema storiografico si interseca fatalmente con il dibattito politico attuale, creando non pochi nodi assai ardui da districare. La schiera degli storico comunisti, o comunque, simpatizzanti dell’ottobre russo, si è grandemente assottigliata ed è ormai uno sparuto gruppo residuale, più impegnato nello sforzo di difendere tutto, o quasi, di quella esperienza che di tentare una interpretazione nuova di essa.
Più complesso è il quadro degli storici accademici di altro orientamento socialdemocratico, liberale, cattolico o conservatore. Qui si realizza quell’imbarazzo di cui dicevamo, perché toccare quel tema significa fare contemporaneamente i conti con l’egemonia culturale neo liberista che si è costruita essenzialmente intorno al racconto del fallimento del comunismo. Di fatto, l’egemonia culturale neo liberista è compatibile solo con la versione criminalizzante del comunismo dei vari Courtois, Pipes, Conquest che risentono fortemente della tradizione storiografica che, attraverso Cobb, risale a tutto il filone anti rivoluzionario da Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville e Hippolyte Taine, arriva a Francois Renè de Chateaubriand e Joseph de Maistre sino a Edmund Burke, per i quali è la rivoluzione, a prescindere dai suoi esiti, ad essere un male in sé, perchè sovverte il principio di autorità. Quel che è messa in discussione è la radice rivoluzionaria della modernità. Ed in questo senso, il processo alla rivoluzione russa non è che il punto di arrivo del processo iniziato al giacobinismo (di cui sarebbero eredi i bolscevichi) ed alla rivoluzione francese nel suo complesso. Il neo liberismo consacra il ruolo delle èlites, tanto politiche, quanto finanziarie, manageriali o culturali, e, simmetricamente, condanna come ”populista” qualsiasi protesta popolare contro di esse, dunque si comprende perché sia proprio questo filone neo legittimista ad essere quello più compatibile con l’egemonia neo liberista. Dopo la sbornia ideologica degli anni novanta, è emerso con chiarezza lo scarsissimo valore storiografico delle opere di Courtois, Pipes, Conquest, ma non per questo si è sostituito ad essi un indirizzo storiografico diverso. Sono comparse opere di valore diverso e comunque maggiore livello storiografico rispetto a quelle della “vulgata volgare” (citiamo solo alcuni autori di orientamento non antirivoluzionario come Orlando Figes, Roy Medvedev, Andrea Graziosi, Wendy Goldman, Silvio Pons, Pier Paolo Poggio e, per certi versi Robert Service) ma questo non ha dato luogo al formarsi di un nuovo indirizzo o scuola, dotato di una propria coerenza interna. Si è trattato spesso di opere settoriali anche molto valide, ma deboli sul piano di una riconsiderazione complessiva della vicenda del comunismo in questo secolo. Più compatta è stata la pattuglia degli storici di area comunista o comunque più simpatetici con l’esperienza comunista (soprattutto Domenico Losurdo, ma anche Aldo Agosti, Luciamo Canfora, Angelo D’Orsi, o Zisek), il cui limite è stata la pur legittima difesa di una esperienza storica, piuttosto che la ricerca dei motivi che ne hanno decretato la caduta e la definizione di un nuovo giudizio complessivo di essa.
La debolezza dello schieramento non antirivoluzionario (ma che potremmo definire latamente liberale o, in qualche caso, socialdemocratico) tradisce un evidente imbarazzo che è lo stesso che troviamo oggi in questo strano anniversario fatto più di silenzi e reticenze che di reinterpretazioni complessive. I due punti decisivi sono quello relativi al diritto del popolo alla rivoluzione ed al rapporto fra stato e mercato.
Sul primo punto è evidente che legittimare nuovamente il diritto del popolo alla rivoluzione significa andare allo scontro frontale co l’egemonia neoliberista, quello che la maggior parte degli storici liberali non è disposta a fare. D’altro canto, a frenare su questa strada è anche la predicazione non violenta che, pur scontando non pochi imbarazzi, come quelli relativi alla Resistenza o le stesse insurrezioni contro i regimi comunisti (si veda il caso rumeno), contribuisce alla disapprovazione della rivoluzione russa. L’altro punto è quello relativo al problema del rapporto fra Stato e mercato: oggi sono certamente assai pochi i fautori dello statismo economico puro, nemici di ogni forma di mercato, ma questo esclude qualsivoglia forma di mercato? Paradossalmente, sono proprio i momenti di riformismo economico nell’Urss (la Nep, le riforme di Libermann e Trapeznikov di epoca krusceviana, il tentativo di Gorbaciov di conciliare il mercato con un sistema ancora socialista) a creare i maggiori imbarazzi. E questo dato che, se è facile criticare il comunismo di guerra, la collettivizzazione forzata o il lungo letargo brezneviano, lo è molto meno formulare una critica puntuale di questi periodi di riformismo mercatista e la difficoltà maggiore è stabilire sino a che punto sia opportuno controllare il mercato o lasciarlo completamente libero (almeno in teoria). Si verifica un paradossale rovesciamento per il quale, al di là dei limiti di un eventuale contemperamento fra Stato e mercato, o si accetta l’idea liberista che il mercato deve essere assolutamente libero, oppure si ammette un principio di regolazione del mercato che mette in discussione il caposaldo principale della filosofia nei liberista. Ed anche qui, gli storici di indirizzo liberale sono in serio imbarazzo, dato che, peraltro, sul banco degli accusati, insieme al comunismo ed alla socialdemocrazia siede anche il barone John Maynard Keynes.
Peraltro, ripercorrere la parabola storica del comunismo significa anche toccare un’altra serie di punti dolenti del presente globalizzante: è superato il principio di Stato nazione? Quale è l’eredità dell’esperienza sovietica in paesi emergenti come Cina, India, Algeria, Egitto ecc dove ci sono tracce di statalismo economico abbastanza evidenti.
E gli imbarazzi peggiori riguardano proprio la Russia di Putin: una condanna complessiva non è possibile perché la modernizzazione della Russia è stata in gran parte compiuta dal regime sovietico e peraltro pagine e personaggi di quell’epoca sono ancora nel pantheon nazionale, a cominciare proprio da Stalin che è sempre ricordato come il vincitore della guerra patriottica contro i tedeschi, ma una celebrazione dell’anniversario suonerebbe come una sgradita riabilitazione dell’esperienza comunista. E, se, paradossalmente, Stalin può essere salvato e riletto in chiave nazionalista, di Lenin l’attuale regime non saprebbe davvero che farsene. D’altro canto la memoria positiva di Lenin è ancora condivisa da una parte importante della popolazione ed i segni del passato sovietico sono persistenti: la grande parata sulla piazza rossa (che continua ad esser detta tale, anche se più dalle mura del Cremlino che da un richiamo ideologico) continua a sfilare il 1° maggio e l’Armata continua ad essere l’Armata Rossa.
Dunque, tutto sommato, meglio non celebrare nulla e lasciar cadere la cosa. Come si vede, parlare di rivoluzione russa è più imbarazzante che mai, perché non significa parlare del passato ma del presente.
Fonte: http://www.aldogiannuli.it/rivoluzione-ottobre/
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