Interesse nazionale e mediazione politica
di ALBERTO BAGNAI
La lettrice di inglese di un’università europea dove ero in visiting mi propose un giorno il seguente quesito: “Come si dice in inglese bella donna?” Fiutando il trabocchetto, mi avventuravo guardingo verso uno scontato “a beautiful woman”, quando lei, inglese di Inghilterra, tranchant: “Tourist!”. Certo, essere un’isola ha i suoi pro e i suoi contro. Non è che i rimescolamenti di sangue siano mancati da quelle parti. Però, in effetti, se lo dicono loro, si vede che l’insularità qualche danno lo ha fatto…
Naturalmente ogni regola ammette eccezioni (fra le quali non era dato annoverare la sarcastica lettrice). Pensate alla regola del 3% (del deficit di bilancio pubblico sul PIL). Se la osserviamo (come si dovrebbe) su una media sufficientemente lunga, scopriamo, con nostra nulla sorpresa, che noi Italiani l’abbiamo rispettata, pur non potendo, per una serie di motivi, finanziarci a tassi negativi come i nostri fratelli tedeschi:
(la media va dal 1999 al 2017, i dati sono quello del WEO). Scopriamo anche, con nostra nulla sorpresa, che paesi “virtuosi” e salvatori de “Leuropa”, come la Francia, in media hanno violato la regola pesantemente, senza che per questo i loro giornali apostrofassero la loro popolazione così come il Fatto Quotidiano apostrofa noi.
Ci sarà un motivo, che però non sta all’economista ricercare, ma allo storico.
(…e prima, magari, al magistrato, il quale magari non interviene non perché sia schiavo dei poteri forti kittipaka ecc. – queste sono scemenze – ma semplicemente perché deve interpretare la legge, e esattamente come abbiamo visto evolversi nel tempo il comune senso del pudore, per cui oggi saremmo un po’ sorpresi se qualcuno multasse una donna in bikini, magari domani potrebbe evolvere il comune senso della dignità del paese – per cui, dopo aver riformato il sistema dei finanziamenti all’editoria, potremmo trovare sorprendente che venissero tollerati attacchi gratuiti alla nostra nazione, quegli attacchi che un amico mi diceva di lasciar correre, senza capire che esiste il metodo Juncker, e che quindi non è – solo – un caso se il giorno dopo in cui vi viene detto che siete delle merde da un organo di stampa il cui direttore ve lo ha già detto in diretta televisiva, un altro organo di stampa sferra un attacco frontale alla prima parte della Costituzione. Naturalmente l’amico che mi diceva di lasciar correre sul vilipendio tramite vignetta, poi proponeva di denunciare il vilipendio tramite brillante editorialista. Eppure i due sono oggettivamente connessi, vuoi perché entrambi riflettono lo spirito del tempo, e in particolare il tentativo delle élite finanziarie di arroccarsi nel loro potere delegittimando il voto popolare e le norme poste a tutela dei diritti dei lavoratori, e poi perché se si constata che tolleriamo oltraggi alla nostra identità nazionale – che oggettivamente non ha molto da rimproverarsi: vedi ad esempio il grafico precedente – qualcuno potrebbe ragionevolmente concluderne che tollereremmo che venga oltraggiata anche la nostra legge fondamentale. Si aprono le gabbie dei Soloni figli di facoltà minori. Ma, e qui sta il punto che vorrei attirare alla vostra attenzione, il magistrato non è tenuto a sapere cosa oltraggia la comunità della quale deve applicare, interpretandole, le leggi: quindi presupposto per l’evoluzione del “comune senso” di qualsiasi cosa è che chi avverte una lesione a un proprio diritto, se la avverte, la segnali. Non potete lamentarvi che la magistratura non intervenga, con tutte le cose che ha da fare, se voi non le segnalate che a vostro avviso certe parole, considerate gravi quando pronunciate da un privato cittadino in un comprensibile anche se inopportuno moto di stizza, lo sono oggettivamente molto di più se espresse a freddo da chi può avvalersi della potenza di diffusione e di penetrazione dei media. Ovviamente queste non sono istruzioni per l’uso, ma solo una semplice riflessione: non ha senso rispondere a un vilipendio alla nazione con un vilipendio alla magistratura, come alcuni hanno velatamente fatto su Internet. Avete dei diritti? Esercitateli! Solo dopo, se vi viene negata giustizia, il caso passa dalla sfera del potere giudiziario a quella del potere politico. Chiusa la digressione)…
Ci ripensavo, all’aneddoto sulle turiste, pochi giorni fa, arrivando a casa di un mio nuovo amico, di quei tanti che mi sono fatti facendomi tanti nemici, un amico che presto vi presenterò.
Era ospite a casa sua un’eccezione alla regola (non quella del 3%: quell’altra), e naturalmente anche lì il motivo c’era: non era inglese, ma gallese (and rather proud of it). Comunque, dato che, nonostante recassi in dono una saccocciata di CD, e fossi fermamente interessato a parlare di arte, ma anche (e soprattutto) di niente, l’amico, lui stesso artista, mi aveva presentato come economista, e dato che la gallese era migrata (come una sterna) a Londra, dove volete che andasse a parare il discorso? Ma naturalmente lì, sulla Brexit. Io, per non sbagliare, mi ero subito presentato come populista. Certo, un populista sui generis: accompagnato da una creatura splendida (per una volta la figlia), economista (forse), musicista (certamente, come attestavano i dischi di Brilliant), urbano, enciclopedico, facondo…
Rassicurata da tante apparenti virtù, l’eccezione apriva nel modo più classico: “Sono tanto preoccupata, il populismo, questa Brexit è una catastrofe, chissà cosa succederà…”.
Dopo quel momento di ascolto necessario ad accreditarmi come interlocutore aperto e simpatetico, muovo il cavallo (quello nero sulla scacchiera, non quello pezzato in corridoio, che poi, come sapete è una mucca): “Ma scusa, cara: io ti sono vicino nelle tue preoccupazioni, anche se vedi che noi qui non è che si stia molto meglio. Però, per aiutarmi a capire” (nel frattempo una desolata Uga, che l’impenetrabile barriera linguistica secludeva dal nostro discorso, derelitta, desolata, mi chiedeva: “Babbo, posso andare in piscina?” E io paterno, sorridente, per indole, ma anche per l’intento tattico di confondere l’interlocutrice, avvezza a vedere nei populisti dei bruti che rientrano in casa ubriachi per battere le mogli e violare i figli: “Certo, amore, sentiti libera…”) “aiutami a capire:” disais-je “a distanza di più di un anno, sapresti concretamente dirmi in cosa la situazione ti ha danneggiato?”
A domanda semplice, come in qualsiasi esame universitario, seguiva risposta confusa.
“Ma, no, forse niente, in effetti il lavoro prosegue, anzi, aumenta, però l’incertezza, sai, questo negoziato…”
Ora, a dirla tutta, nella mia interminata umanità (non sapete quanto io soffra a bloccarvi su Twitter: fa più male a me che a voi), nella mia inarrivabile capacità di mettermi nei panni del mio interlocutore, costruita in anni e anni di sessioni di esami, vedevo e comprendevo le sue ragioni. L’eccezione de cujus svolge un’attività di intermediazione fra Europa e Stati Uniti, con sede a Londra. Certo che con giornali che parlano di quarantene, visti, barriere, muri, ecc., l’idea che i tuoi clienti non possano venire a trovarti, peggio, che ti considerino un’appestata, tanto simpatica non deve essere.
Ed eccomi allora a ripetere, paterno, garbato, rassicurante, le solite cose (ma almeno in una lingua diversa): “Ma no, bisogna essere razionali! I media hanno interesse a drammatizzare, perché sono posseduti per lo più da persone che speculano sulla volatilità, ma la situazione non è così catastrofica. Ti ricordi cosa dicevano che sarebbe successo? Ti pare sia successo? No! E non è successo per un motivo: perché voi siete clienti di chi comanda in Europa, la Germania, e nessuno ha interesse a pestare i piedi a un proprio cliente. E poi, non c’è la globalizzazione? Magari può non piacere, però, alla fine, la bottom line è che tutto il mondo è mercato. Nessuno ha interesse a escludervi, ma se lo facesse non morireste di fame…”
Und so weiter, und so fort…
Insomma, tanto suadente era il mio eloquio, che l’interlocutrice si rassicurava… e a mano a mano che la seducevo, e si rassicurava, e che quindi la Brexit – come la vecchiaia – non le sembrava poi così male, considerando l’alternativa, paradossalmente, essendo ella creatura umana e benigna, veniva assalita dal senso di colpa, muovendo improvvidamente la donna (quella che era in lei, ma anche quella sulla scacchiera): “Certo però che la nostra dipartita (NdT: traduzione maccheronica di departure) penso vi crei un problema: senza l’Inghilterra, la Francia da sola non potrà contrastare la Germania, e questo vi indebolirà nelle vostre giuste rivendicazioni”.
Io non sono uno scacchista, ma so portare le persone dove voglio.
Ora la strada era tutta in discesa.
Preso un bel respiro, sorrido, e poi, appena appena stingendo nel condiscendente, e con giusto un soupçon (visto che era stata evocata la Francia) di quel « petit rire qui lui était spécial – un rire qui lui venait probablement de quelque grand’mère bavaroise ou lorraine, qui le tenait elle-même, tout identique, d’une aïeule, de sorte qu’il sonnait ainsi, inchangé, depuis pas mal de siècles, dans de vieilles petites cours de l’Europe, et qu’on goûtait sa qualité précieuse comme celle de certains instruments anciens devenus rarissimes », do il matto:
“Vedi, cara, a me stupisce sempre l’idea, così diffusa, anche da noi, che al fine di rendere l’Europa un luogo sostenibile per tutti i suoi membri questi siano costretti ad allearsi per combattere gli uni contro gli altri. Non ti sembra un po’ contraddittorio che ci si dica che l’Unione Europea ci ha dato la pace, e al contempo si sostenga che i suoi membri devono combattere, e combattere proprio fra di loro, per mantenerla, questa pace? Voglio dire: non mi stupisce affatto che lo scopo del gioco sia quello di conquistare la pace attraverso la guerra, per il semplice motivo che mi sembra sia sempre successo! Solo che, se le cose stanno ancora così, che bisogno abbiamo di unirci politicamente, che bisogno abbiamo di “nuove” istituzioni per giocare questo “vecchio” gioco eterno? In cosa Bruxelles ci aiuterebbe? Se il gioco è questo, possiamo giocarlo con i cosiddetti “vecchi” stati nazionali, non ti pare?”
Eh…
Già…
L’eccezione non pensava che io loico fossi… i populisti, si sa, son gente rozza: così gliela avevano raccontata i suoi giornali (tipo il Guardian). Fra una serata rutto libero al pub a parlare di fica, una partita di calcio, e il loro lavoro mediocre, dove potranno mai i populisti trovare il tempo per esercitarsi nel principio del terzo escluso?
E invece…
E invece, dopo cena, comme par hasard, si parlò di altro: di storia della musica, dell’editore delle Canzone di Frescobaldi che esplicitamente afferma di voler rompere il monopolio dei musicisti professionisti, di come nel Rinascimento la semiologia musicale fosse intenzionalmente oscura (più dei Trattati europei) proprio allo scopo di preservare il market power dei musicisti professionisti e delle loro corporazioni (avete presenti i canoni mensurali?), di quando l’Italia era market leader nel settore musicale, e dettava le forme del linguaggio, quelli che qui chiamiamo i frame e che in musica si chiamano i generi: l’oratorio, dove poi avrebbe primeggiato Handel (il cui ufficio è accanto quello dell’eccezione), l’opera, la sonata, il concerto (De Cavalieri, Monteverdi, Corelli, Vivaldi…), di Pergolesi che era morto tanto giovane, altrimenti la storia sarebbe andata in un altro modo, degli scavi di Pompei che erano iniziati prima di quanto credessi io (prima di Winkelmann), e delle stampe di Piranesi che erano state stampate dopo quanto credesse lei (dopo Corelli), di Handel e Bach che erano andati dallo stesso medico, il quale, al grido di “la scienza non è democratica!”, aveva accecato il primo e sostanzialmente ammazzato il secondo, della Germania est, dove erano nati i due ciccioni e il terzo genio, in un fazzoletto di terra, lì, fra Magdeburgo e Eisenach (saranno 200 km con Halle in mezzo, come Avezzano fra Pescara e Roma: a proposito, come avrete notato da uno dei link che non leggete a Halle ci sono dei tedeschi di un certo tipo, e sono lieto di tornarci a settembre…), e di chi era nato prima, e di chi era morto dopo, e di come a quell’epoca i tedeschi, che vivevano meglio il proprio complesso di inferiorità, anziché arroccarsi come irriducibili, sordi e tetragoni alle richieste di Francia e Italia, si ponevano esplicitamente al servizio di queste ultime due come mediatori culturali (naturalmente, in ambito musicale): pensate ad esempio a Bach, come parlava italiano e francese…
Insomma: di tutto, tranne che di politica, con mio grande sollievo: s’era capito che lì non c’era partita.
Con voi però (non se ne dolga la mia adorabile Nat) vorrei parlare proprio di politica.
Ecco, capita che spesso siano le cose semplici a sfuggire, e capita che sfuggano proprio a quelli che per anni mi hanno molato gli zenzeri con quella storia che sapete, quella vecchia solfa che siccome sono solo un economista, non posso capire la politica: una storia così stantia, che auspico sia definitivamente estirpata dalla nostra meritata vittoria quale miglior sito politico-d’opinione.
Allora parliamone, di politica, e parliamo anche di quelli che hanno assistito e tuttora assistono, col ciglio asciutto e le terga al riparo, al massacro di famiglie e imprese, da immolare secondo loro in nome di un’altra Europa.
E come dovrebbe essere fatta questa altra Europa?
Dovrebbe essere un’Europa dove la Germania ascolta gli altri.
E perché la Germania dovrebbe ascoltare gli altri?
Ma, appunto, perché, come si diceva sopra, questi si dovrebbero coalizzare contro di lei per farle una minaccia credibile.
E cosa dovrebbe risultare da questa minaccia?
Bè, è chiaro: una mediazione fra gli interessi nazionali: insomma: “e si letiha, però poi e ci si viene incontro” (per dirla in italiano).
Mi avete seguito (nonostante l’italiano)? Dov’è l’inghippo? Ma, a me pare chiaro, e forse, ora che la crisi delle sterne, pardon: dei migranti, ha reso plastica, sotto forma di “risorsechecipaganolapensione” ma che stranamente nessuno vuole a casa propria, l’idea finora evanescente di interesse nazionale, penso che non dovrebbe esservi molto difficile seguirmi.
Ci era stato detto che gli interessi nazionali non esistevano: non ne eravamo portatori, perché eravamo (o comunque eravamo permanentemente in procinto di diventare) cittadini europei, cittadini, cioè, di un “non stato” la cui “non cittadinanza” è “non regolata” da una “non costituzione”: un problema? No: un “non problema”, e anzi un’opportunità per chi, volendo impedirci di tutelare i nostri interessi, trovava conveniente sostituire i nostri interessi nazionali con “non interessi” sovranazionali!
Poi però gli interessi nazionali si sono affacciati prepotentemente alla ribalta: prima, in modo non intellegibile ai più, attraverso la crisi economica, ovvero quando sono venuti al pettine i nodi della libera circolazione dei capitali; ora, attraverso la crisi migratoria, che fa venire al pettine i nodi della libera circolazione delle persone: e qui, tutti hanno capito.
Bene: a mano a mano che gli interessi nazionali riacquistavano cittadinanza nel dibattito, bisognava accomodarne la scomoda presenza nel quadro di quello che continuava ad essere presentato come l’unico processo storico possibile, come una ineluttabile necessità: Leuropa (TM). Il problema era stato eluso, per un po’, dai furbi, alzando il livello dello scontro, o, per dirla alla romana “buttandola in caciara”: i problemi sono globali, si diceva (per dargli un’aura di oggettività, di preordinazione – in senso econometrico – rispetto alla sfera politica, si citava sempre il riscaldamento globale), quindi per definizione affrontabili solo su scala sovranazionale (che però, chissà perché, per noi doveva essere solo europea, e non mondiale, nonostante che gli Stati Uniti del Mondo non siano meno utopistici di quelli d’Europa, pur avendo in termini meramente logici molto più senso nel caso in cui interessi risolvere un problema mondiale)!
Ma il giochetto dei problemi globbbali, per quanto scaltro, ora non funziona più.
Le dinamiche che hanno portato qui tante persone disperate, per tanti motivi disparati, sono riconducibili a responsabilità nazionali, al modo (imperialistico) in cui alcuni nostri vicini hanno gestito i loro interessi nazionali. Non è come il buco dell’ozono, cui la sciampista di Milwaukee, molto generosa di lacca, ha contribuito tanto quanto la fabbrica di elettrodomestici cinese, poco amica dell’ambiente. Il problema che tutti vedono ha radici (e conseguenze) circoscritte e, ripeto, riconducibili al prevalere di alcuni interessi nazionali (quelli francesi) sui nostri. Per rendere Leuropa digeribile ci deve allora essere raccontato che nella dimensione sovranazionale diventerebbe più fluida la composizione degli interessi nazionali. Solo che, naturalmente, perché questa favoletta sia credibile, occorre agghindarla col presupposto di un bilanciamento dei rapporti di forza. Che Bruxelles sia controllata dai tedeschi è cosa di dominio pubblico. Segue quindi l’idea barocca che la pace si ottenga “alleandosi” con chi ha interessi simili ai nostri (la Francia, cioè quella che ci ha bombardato in Libia!) per combattere contro chi ha interessi contrari ai nostri (la Germania).
Ricorderete Renzi con Hollande “contro” la Merkel, ricorderete Gentiloni con Macron “contro” la Merkel… insomma: ricorderete la Merkel!
Noterete poi che questa posizione delirante (alleanza franco-italiana de che?) in tanto ha senso in quanto la si analizzi in una chiave strettamente economicistica, anzi: macroeconomicistica. In termini di fondamentali macroeconomici, certo, la Francia sta peggio di noi e avrebbe tutti gli interessi ad allearsi con noi. Siamo stati gli unici a dirlo da subito, traendone le conseguenze che dovevano esserne tratte (il fallimento interno di Hollande e presto di Macron). Ma la pretesa convenienza di un’alleanza franco-italiana (verosimilmente, per “forzare” la Germania a politiche reflazionistiche) emerge solo se si adotta questa chiave di lettura. Se invece si allarga l’orizzonte alla geopolitica, al controllo delle fonti di energia, e via dicendo, si capisce che quanto è successo in Libia non è casuale, ma è il corollario del fatto che i nostri interessi collidono con quelli francesi.
Capite l’assurdità?
Chi per anni mi ha rimproverato letture “economicistiche” della realtà, chi mi ha marginalizzato accusandomi di essere “solo un economista”, appoggia la sua proposta “politica” (più Europa attraverso l’alleanza dei buoni del Sud contro il cattivo del Nord) su una lettura dei fatti che è, questa sì, meramente macroeconomicistica!
Scusate, l’ho fatta lunga, ma “mi avvio a concludere”, come dicono i seminaristi, gli untuosi pretini smidollati e perbenisti “de sinistra”…
Una volta, quando c’erano le nazioni, accadeva che qualora gli interessi di una comunità nazionale confliggessero con quelli di un’altra si arrivasse al conflitto: un conflitto in cui, naturalmente, si combatteva per vincere. Il modello di integrazione che gli altreuropeisti ci propongono invece è quello di stati che non combattono per la vittoria, ma per avere la possibilità di mediare! Insomma: chi vince non ottiene quanto rivendica, ma può cominciare a discutere per averne (forse) la metà…
E qui si arriva il punto, che è molto semplice, tanto che in un mondo meno confuso non meriterebbe nemmeno di essere formulato: il livello ottimale al quale mediare gli interessi nazionali è per definizione quello nazionale.
So che sembra una frase lapalissiana, ma siccome ci viene raccontato il contrario, forse è opportuno ribadirla, e chiarirne le ragioni, che sono di due ordini. Una è contingente: non è in istituzioni ormai pesantemente infiltrate da una delle parti in gioco che possiamo aspettarci di trovare un luogo di rappresentazione ed ascolto equilibrato dei nostri interessi. Ma l’altra è strutturale: istituzioni che si fondano strutturalmente sulla perenne minaccia degli uni contro gli altri non sono politicamente sostenibili. Lo dimostra, per certi versi, il fatto che qualsiasi elezione nazionale metta Leuropa in fibrillazione! Quale altra alleanza fra paesi (l’ASEAN? Il MERCOSUR? Il NAFTA?) viene scossa alle fondamenta ogni volta che in un paese membro il popolo si esprime? Il fatto è che qui da noi il popolo, esprimendosi, varia la tensione delle minacce, che sono un po’ come sartie e stralli del vascello europeo: se li regoli male, c’è rischio di disalberare, e il piloto tedesco lo sa (apprezzerete l’uso della lingua).
In queste condizioni non può nascere alcun genuino spirito di solidarietà. Per lo stesso motivo per il quale il modello di integrazione proposto previene la formazione di solidarietà (come direbbe un tubetto di dentifricio), possiamo dire che esso attivamente dissemina scontento ed odio. In effetti questo è quanto stiamo osservando, come osserviamo svilupparsi di fronte ai nostri occhi la consueta tattica del potere, qui da noi impersonato dalla terza carica dello Stato, che consiste nell’addossare alle vittime la responsabilità delle loro disgrazie. Se si affermano discorsi violenti, ci si vuole convincere che la colpa non è di un sistema violento, i cui leader ci esortano a (o ci promettono di) minacciare i nostri vicini per ottenere con la violenza – delle parole – quanto ci spetta. Ci viene fatto capire che la colpa è dei mezzi che le persone usano per esprimersi, e più in generale del fatto che le persone desiderano esprimersi.
Fra un po’ scioperare, o dire che l’immigrazione incontrollata porta al degrado socioeconomico, diventerà un crimine. Non posso che attenermi a quanto dissi a gennaio su La7: avrei passato quest’anno a ripetere “ve lo avevo detto”, e i più attenti di voi si ricorderanno che in effetti penso di essere stato fra i primi a evidenziare il carattere fascista di questo regime, fin dall’articolo del 2011 sul manifesto (ai tanti cari nostalgici ricordo che in quel contesto detti anche la mia definizione di questo termine: se poi volete convincermi che nel ventennio ci fosse libertà d’espressione, buona fortuna)! Reprimere la libertà di espressione è lo sbocco naturale di un sistema che per imporre l’ordine “naturale” dei mercati deve livellare le differenze culturali, criminalizzando l’idea che un francese sia francese, uno spagnolo spagnolo, un italiano italiano, un tedesco tedesco. L’unica sfera in cui le diversità vanno tutelate, anzi: moltiplicate!, è quella sessuale: forse perché quelle “diversità” danno meno fastidio di altre nel mondo dello one-size-fits-all, e così conviene farle passare per rivoluzionarie, il che, fra l’altro, permette al potere di presentarsi come poliziotto buono rischiando tutto sommato molto poco, mentre il poliziotto cattivo cerca di convincerci che si vis pacem, age bellum…
Tanto semplice, ma tanto profonda è l’irrazionalità del progetto, che fra cinque anni, ne siamo sicuri, se ne accorgerà anche il Financial Times. Nel frattempo, a noi non resta da fare altro che resistere, non cadere nelle provocazioni, mantenere in vita l’idea che se non c’è alternativa non c’è politica, e quindi, in piena coerenza, mandare sistematicamente a casa i politici che ci dicono che non c’è alternativa, per il semplice fatto che se dicono questo non sono politici. Non è un vaste programme, e non è nemmeno uno sterile passatempo. Sono cose alla nostra portata, e siamo sempre di più a lavorarci…
fonte: http://goofynomics.blogspot.it/2017/07/interesse-nazionale-e-mediazione.html
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