E se l’uscita dall’euro diventasse inevitabile?
di EMILIANO BRANCACCIO (Il Sole 24 ore)
Di permanenza o uscita dall’euro si è discusso molto e male, in questi anni. Alle libere opinioni di commentatori improvvisati si sono aggiunte le petizioni di principio di colleghi che hanno preferito una pigra partigianeria alla fatica della divulgazione scientifica. Il lettore, desideroso di informarsi, si è trovato a scegliere tra sfocati bozzetti di catastrofi o paradisi, il più delle volte privi di riferimenti alla letteratura. Bene dunque ha fatto Luigi Zingales a promuovere una nuova discussione esortando gli studiosi partecipanti a seguire alcune semplici regole della ricerca, tra cui la buona prassi di distinguere tra impressioni personali e tesi supportate da pubblicazioni accademiche, contributi istituzionali, consensus tra gli esperti.
Zingales ci sollecita a valutare innanzitutto i costi e i benefici di un’eventuale decisione dell’Italia di uscire dall’euro. Ai fini di tale calcolo sarà bene evitare un’incresciosa abitudine che andava di moda tra gli accademici qualche anno fa, e che li induceva a esaminare l’economia come fosse costituita da un fantomatico agente unico, rappresentativo dell’intera collettività. Non occorre scomodare Marx per ricordare che in realtà il sistema è formato da attori sociali molto diversi tra loro, ed è quindi necessario chiarire a quali di essi facciamo ogni volta riferimento nelle analisi.
Per citare un esempio tra tanti, consideriamo l’idea piuttosto diffusa secondo cui il ritorno a una moneta nazionale darebbe facile sfogo alle svalutazioni e quindi alimenterebbe l’inflazione. Distinguendo i diversi gruppi sociali in gioco, questa tesi induce a ritenere che l’uscita dalla moneta unica favorirebbe le imprese e in generale i soggetti che fanno i prezzi, mentre avrebbe ripercussioni negative sui percettori di redditi relativamente fissi: orfani e vedove, come si diceva un tempo, e soprattutto lavoratori dipendenti.
Commenti recenti