Luoghi pubblici e norme private
di ALESSANDRO GILIOLI
Per aver condiviso questa vignetta di Biani sono stato sospeso da Facebook per 24 ore. La vignetta è una parodia di un manifesto fascista e razzista del ’44. Non è difficilissima da capire.
Niente di grave, s’intende, il mio ban: e sarà capitato a tutti o quasi quelli che qui mi leggono. Un po’ come alle medie, quando la prof ti mandava in corridoio o dietro la lavagna una ventina di minuti per punizione.
Ci trattano come dei ragazzini, i padroni della rete. Sanno che loro sono onnipotenti, noi nelle loro mani. La nostra possibilità di parlare – di diffondere le nostre opinioni – è in mano a un ignoto poliziotto che è allo stesso tempo legislatore e giudice.
Un poliziotto-giudice-legislatore che esercita il suo potere in assoluto e che non sempre è intelligentissimo: quando ho chiamato Facebook, mi hanno risposto che probabilmente il “revisore” (così vengono chiamati, quelli che impongono i ban) che mi ha messo in punizione non parlava italiano e non ha capito.
Questo almeno è quanto mi ha detto l’ufficio stampa di Facebook, a cui come giornalista – quindi “privilegiato” – mi sono rivolto.
Così come mi sono rivolto a Luca Colombo, country manager di Facebook in Italia, insomma il numero uno dell’azienda in questo Paese. Che sostiene di non sapere nulla di ban e sospensioni, lui non se ne occupa, «non so nemmeno se a sospendere sia un algoritmo o una persona». Il capo di Facebook in Italia che rifiuta di dirti quali sono i meccanismi dei ban. Trasparenza zero, opacità totale.
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La pagina dei “Principi di Facebook” è in dieci punti, come i comandamenti: ciascuno è di poche righe, ma tutti sono carichi di intensità e pieni d eccellenti propositi. Il primo, ad esempio, si intitola recita: «Gli utenti dovrebbero avere la libertà di condividere tutte le informazioni che desiderano e avere il diritto di contattare online chiunque, qualsiasi persona, organizzazione o servizio, purché entrambi acconsentano al contatto».
Bellissimo, no? Ma non è meno importante il principio numero 3 secondo il quale «gli utenti dovrebbero avere la libertà di accedere a tutte le informazioni rese loro disponibili da altri utenti; gli utenti dovrebbero inoltre disporre degli strumenti pratici necessari in grado di facilitare, velocizzare e rendere efficienti la condivisione e l’accesso a tali informazioni».
La parola libertà compare otto volte, ma non mancano altri termini fondamentali: benessere, accesso, legislatore, perfino uguaglianza.
L’ultimo punto, intitolato “Un unico mondo” è un inno all’internazionalismo: «Il servizio di Facebook dovrebbe trascendere i confini geografici e nazionali ed essere disponibile per gli utenti di tutto il mondo». La filosofia di fondo di tutta la pagina sembra in piena continuità con l’articolo 11 della Dichiarazione universale dell’uomo e del cittadino del 1789: «La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo. Ogni cittadino può dunque parlare, scrivere e pubblicare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge».
Insomma, la tavola dei principi di Facebook sembra la carta costituzionale di uno Stato: uno Stato transnazionale, con quasi due miliardi di cittadini, che qui però si chiamano utenti. E che abitando nel social sono tenuti a rispettarne «i termini e le normative» che appaiono su un’altra pagina interna, dove si scopre come e quanto i padroni del giardino Facebook si ergono a presidenti, sindaci, giudici e guardie di tutto lo Stato, a partire dalla condizione fondamentale: «Ci riserviamo il diritto di rimuovere tutti i contenuti o le informazioni che gli utenti pubblicano su Facebook, nei casi in cui si ritenga che violino la presente Dichiarazione o le nostre normative».
Le condizioni generali di servizio sono un contratto unilateralmente imposto da Facebook. In buona sostanza, sono “legge”; e la loro violazione permette ai padroni del giardino privato il diritto di rimuovere ogni genere di contenuto.
Tuttavia “Mr Facebook” non è soltanto legislatore e poliziotto nel suo guardino privato ma anche giudice: poche righe più avanti nel medesimo documento, con grande magnanimità stabilisce che «se abbiamo eliminato dei contenuti e l’utente che li ha pubblicati ritiene che ci sia stato un errore, ha la possibilità di presentare ricorso». Il ricorso in questione, naturalmente, deve essere presentato a Facebook e, altrettanto naturalmente, è valutato e deciso dallo stesso Facebook.
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Ma la vita nel sito di Zuckerberg non scorre in modo tanto diverso rispetto alle strade, alla piazze e ai negozi del fornitore di servizi online più grande del mondo ovvero Google.
Basta, anche in questo caso, scorrere i termini d’uso di Mountain View. Tipo: «Potremmo riservarci il diritto di esaminare i contenuti per stabilirne l’eventuale illegalità o contrarietà alle nostre norme, e potremmo altresì rimuovere o rifiutarci di visualizzare dei contenuti qualora avessimo ragionevole motivo di ritenere che violino le nostre norme o la legge. Potremmo sospendere o interrompere la fornitura dei nostri Servizi all’utente qualora questi non rispettasse i nostri termini o le nostre norme oppure qualora stessimo effettuando accertamenti su un caso di presunto comportamento illecito».
L’aggettivo possessivo “nostro” è ripetuto cinque volte in tre righe.
Nel leggere queste policy si può fingere di non capire, per vivere in modo leggero e spensierato la propria esistenza sui social network; ma non si può non capire sul serio un messaggio che non potrebbe essere espresso più chiaramente: loro sono i padroni, noi gli ospiti; loro fanno le norme, noi possiamo o obbedire o andarcene.
Benché per ciascuno, ormai, i servizi in rete siano pezzi integrante dell’esistenza almeno online, Google graziosamente “ci ospita” e altrettanto graziosamente ci offre supporto nella nostra vita online ma senza mai smettere di ricordarci che siamo ospiti, peraltro in debito di gratitudine, all’interno del loro giardino privato.
Sono loro a decidere se e per quanto potremo continuare ad utilizzare determinati servizi e, soprattutto, se i nostri contenuti potranno o meno restare accessibili al mondo intero.
E non pensate che i giardini più recenti siano diversi da quelli dei loro avi: navigando nelle condizioni generali di servizio di Twitter, la musica non cambia: «Twitter si riserva il diritto (ma non avrà l’obbligo)», si legge nelle prime righe delle condizioni di servizio, «di rimuovere o rifiutare, in ogni momento, la distribuzione di Contenuti sui Servizi, di sospendere o chiudere utenze e di richiedere la restituzione di alcuni nomi utente senza alcuna responsabilità nei confronti dell’utente».
Parole che, anche in questo caso, non lasciano spazio alcuno a dubbi. I padroni della piattaforma hanno potere di vita e di morte sui contenuti degli utenti senza che nessuno possa rimproverargli alcunché.
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E qui va sfatato un mito, un pensiero erroneo ma estremamente diffuso: quello secondo il quale, trattandosi di società private, Facebook e gli altri colossi del web possono fare tutto quello che vogliono in modo assolutamente arbitrario e senza rispondere a nessuno se non a se stessi.
Va sfatato intanto per un semplice principio di buon senso che si applica a qualsiasi altra attività privata, cioè il rispetto per alcune regole comuni di utilità collettiva: anche il ristoratore sotto casa è un’attività privata, ma se in cucina ci sono gli scarafaggi la collettività ha il diritto di intervenire, per motivi igienici.
Allo stesso modo, non esiste alcun principio di “assolutezza” dei social network e delle corporation digitali ripsetto alle società in cui operano: altrimenti, per coerenza, dovremmo accettare l’idea che un giorno uno di questi siti vieti il suo ingresso alle persone con un particolare colore della pelle, oppure cancelli i contenuti di un determinato partito, perché tanto «è una società privata e può fare quello che vuole».
E c’è di più, per quanto riguarda alcuni di questi siti, come ad esempio Facebook e Google. C’è cioè il fatto che la loro potenza, la loro forza, la loro diffusione ha fatto sì che ormai superano di gran lunga la dimensione della semplice potenzialità per entrare nella sfera del bisogno, quindi in certo senso del diritto.
Per capirci: in molti settori, ormai, un’azienda che non è su Facebook è come se fosse morta; lo stesso dicasi per un politico o per un giornalista, per un cantante, per un artista; e tante altre professioni ancora, per le quali l’esistenza sul social network di Zuckerberg è ormai una condicio sine qua non di sopravvivenza. Possono, queste persone, rischiare di essere espulse sulla base di un codice del tutto arbitrario e privato?
Ma, aldilà degli aspetti economici e professionali, senza Facebook, Google o Twitter una parte importante della popolazione del mondo oggi, probabilmente, si ritroverebbe isolata e impossibilitata a comunicare come ormai si è abituata a fare: le sue relazioni sociali, amicali, affettive sono quindi alla mercé di un gruppetto di misteriosi decisori che stanno da qualche parte nel mondo, tra l’Iralanda e la California, e che decidono se, quanto, quando bannarci, a loro totale giudizio: e a loro solo ci possiamo appellare, non a un “giudice terzo”, se siamo stati parzialmente o totalmente espulsi.
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Scrive Peter Ludlow, nel suo libretto intitolato “Il nostro futuro nei mondi virtuali” che «i mondi virtuali e i social network sono meno democratici delle nostre società reali e i gestori li amministrano come dittatori, senza rendere conto ai propri utenti-cittadini. Ne decidono il bello e il cattivo tempo. Se bandire qualcuno dalla community, per esempio. Il paradosso: man mano che i mondi virtuali acquistano popolarità, vengono gestiti in modo sempre più autoritario. Ed è qualcosa di cui preoccuparsi».
Per lo studioso americano, «se i network sono gestiti in modo non democratico né trasparente possono essere manipolati per servire gli interessi di un individuo invece che del gruppo; e, in secondo luogo, c’è il rischio che i mondi virtuali ci rendano avvezzi a vivere in ambienti poco democratici, dove sono aboliti i diritti frutto di secoli di lotte, progresso e conquiste civili. In altre parole, le dittature on line ci rendono più passivi nei confronti di un possibile dittatore nel mondo reale».
Sicché, secondo Ludlow, «è necessaria una sorta di nuovo illuminismo dei mondi virtuali, dove i gestori offrano nuovi strumenti per condurre esperimenti di democrazia: strumenti con i quali gli utenti stessi possano sviluppare i propri sistemi politici e di governance. La giurisprudenza del mondo reale, da parte sua, deve cominciare a considerare i mondi virtuali non più come proprietà di un’azienda, ma come vere “nazioni”. Altrimenti finiremo sotto il pugno di un despota ogni volta che andremo su Internet».
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L’allarme di Peter Ludlow sulla “tirannia dei mondi virtuali” è del 2010 ma da allora è stato completamente ignorato, tanto dalle corporation stesse quanto dai governi e dalla politica.
Molti i motivi, tra i quali l’egemonia culturale del mantra “privatistico”, diffuso in Occidente dai tempi di Reagan e Thatcher, ma mai davvero contestato neppure dalla sinistra, con poche eccezioni.
Tuttavia, forse, tra le ragioni per cui nessuno cerca almeno di “temperare” un equilibro così squilibrato c’è anche la graduale e contemporanea sottrazione di sovranità politica complessiva dagli stati nazionali verso i vari poteri economici sovranazionali, una tendenza globale che ha reso molto più deboli i governi in generale.
Una tendenza di cui anche il trasferimento “legislativo” dai codici degli Stati democratici alle norme private delle corporation è nel contempo causa ed effetto.
Fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/07/28/luoghi-pubblici-e-norme-private/
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