Dentro al laboratorio neoliberista
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (di Lorenzo Innocenti)
In principio furono Thatcher e Reagan. Quarant’anni dopo il neoliberismo ha altri nomi ed altri volti, ma identici fini. Breve riflessione sulla ciclicità della storia economica.
In principio fu la Thatcher. E Reagan, certo. Era il neoliberismo rampante degli anni Ottanta, era la fine del keynesismo di Stato.L’Occidente – Europa e Usa in testa – veniva da un trentennio abbondante di assistenzialismo smaccato, di Piani Marshall, piena occupazione, estensione dei diritti ai lavoratori e sindacati forti… Ma quel modello economico cominciava a preoccupare le teste pensanti dell’intellighenzia atlantica. La crisi del modello fordista impensieriva, la caduta tendenziale del saggio di profitto spaventava come l’orco delle fiabe, l’erosione dei profitti erodeva – insieme – esorbitanti privilegi e questo non poteva essere accettato. Ci si misero d’impegno la Commissione Trilaterale, il Bilderberg, l’Aspen Institute e tutti i possibili think tank di questo mondo e in poco tempo riuscirono a ribaltare il tavolo. New York e il Cile furono i banchi di prova.
Erano ancora gli anni Settanta, allora: droga, sesso e rock’n roll distraevano le masse dal pericolo incombente. Ma intanto Salvador Allende veniva rovesciato e fatto accoppare da un golpe in pieno stile sudamericano – accompagnato cioè da un’ingente, fitta, verdissima pioggia di dollari – e quindi sostituito dall’autoproclamatosi Presidente, Generalissimo Augusto Pinochet. Il Paese divenne gigantesco laboratorio per l’applicazione di tutte quelle politiche economiche che – allora in fase di studio – sarebbero in seguito passate alla ribalta come neoliberismo: deregolamentazione dei mercati, conservatorismo fiscale, privatizzazione del patrimonio pubblico, tagli alla spesa sociale… In breve tempo la gente – i cileni non abbienti, sempre di più – finì per la strada e dalla strada iniziò a protestare l’impoverimento non solo delle classi tradizionalmente disagiate, ma anche di un ceto medio che si vedeva di colpo privato di qualunque prospettiva. Ça va sans dire, le reazioni della Costituente furono severe, tanto che Eduardo Galeano (scrittore, giornalista, intellettuale…) giunse a dire, ricordando quei giorni: “La gente era in prigione perché i prezzi potessero essere liberi”.
Stessa cosa (senza baffi spioventi né giunte militari) a New York: nel 1975 la città che non dorme mai era vicina alla bancarotta. Il governo federale le offrì assistenza finanziaria in cambio (però) di una robusta ristrutturazione economica, che andava a incidere soprattutto sulle dinamiche sindacali, la spesa sociale e una massiccia privatizzazione del patrimonio pubblico. A gestire l’affare la Municipal Assistance Corporation for New York, ente creato ad hoc per controllare lo stato dell’arte. Poi la Thathcer, appunto, con Reagan. La prima soprattutto, perché il secondo smentirà in parte i propositi liberal-mercantilisti – durante il proprio mandato – dando vita ad uno dei programmi di keynesismo militare (l’industria di guerra che traina il resto dell’economia) più imponenti che la storia dell’uomo ricordi. La Lady di Ferro invece non arretra di un passo: al grido di “Meno Stato, più Mercato”, tempo pochi mesi rivaluta la sterlina abbattendo l’inflazione, abbassa le tasse (al ceto medio-altissimo), aumenta l’IVA (perché va bene no alle tasse, ma da qualche parte i soldi dovevano pur arrivare), privatizza tutto quello che può, annienta il potere dei sindacati e soprattutto riduce a meno del minimo indispensabile ogni forma di assistenza sociale. Risultato: le imprese giovano della ventata di libertà, ma l’economia nazionale cola a picco. A trascinarla verso il basso è il crollo dei consumi, causato da un aumento spropositato della disoccupazione, del precariato, delle sacche di povertà.
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“Lo Stato socialista è totalmente estraneo al carattere britannico”.
E veniamo così a noi, a oggi. Le politiche di austerità di Mamma Europa sembrano essersi allentate e la Crisi (La Crisi), da potenzialmente eterna, declina più mitemente in “Crisi dei Dieci Anni” (vedi Repubblica del 3 settembre 2017), incontrando nell’ultimo +1,4% del Pil, la propria radiosa fine. Eppure la crescita – se c’è – è fragile, perché otto contratti su dieci oggi sono a termine (dati Istat) e il lavoro precario fa la parte del leone nell’economia tricolore. E la stessa Austerità ancora resiste – per quanto apparentemente ammansita, addolcita, rabbonita e flessibilizzata – se è vero che un incentivo diretto ai consumi ancora non s’è visto da parte di Bruxelles (il Quantitative Easing finisce per essere d’aiuto agli istituti bancari e poco altro, non trasmettendosi veramente all’economia reale) ed anzi, qui da noi, ai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni sono stati assegnati precisi compiti di riforme strutturali, su cui ancora s’insiste, da più parti. Il Jobs Act è frutto di un simile indirizzo e non si può dire che vada nel senso di una maggior tutela dei lavoratori – la vera parte debole nell’hobbesiano mondo del lavoro salariato. Quanto insistette Renzi, da Premier, sulla disintermediazione dei corpi intermedi? Frase apparentemente fumosa che presagiva la definitiva esautorazione dei sindacati.
E pure la riforma del lavoro prospettata da Emmanuel Macron, in Francia, mette ugualmente in guardia chiunque si possa essere illuso riguardo ad un cambio di indirizzo, un’inversione di tendenza. Le misure, in nuce: decentralizzazione degli accordi di categoria per fissare le condizioni di lavoro a tempo determinato (finora rigidamente organizzati a livello nazionale). E, soprattutto, limite massimo degli indennizzi che i tribunali potranno concedere a chi viene licenziato senza giusta causa; attesissimo – si capirà – dagli industriali perché, come ha ricordato in questi giorni il presidente di Confindustria, Pierre Gattaz, “permetterà di calcolare esattamente l’impatto di eventuali licenziamenti”. Sindacati indeboliti, licenziamenti più facili, deregolamentazione del mercato del lavoro. La solita zuppa: per qualche punto del Pil scegliamo (scelgono) di mortificare ceto medio e basso, di deprimere i consumi, di rinviare la vera ripresa alle calende greche. Sull’altare degli interessi contingenti di una fetta risicata (e già ricca) di popolazione si sacrifica il popolo bue, che si troverà impoverito ed emarginato anche Oltralpe. Mal comune mezzo gaudio – si dirà. In attesa che Le Pen ascenda, come una Trump qualsiasi, non più accompagnata dallo scontento bianco della Rust Belt, ma da quello – multicolore? Chissà? – delle Clermont e delle Lione e delle Parigi più industriali, depauperate e rabbiose.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/nel-laboratorio-neoliberista-tatcher-hayek/
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