di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
1. L’intensissima narrazione mediatica della situazione socio-economica italiana sta indirizzando la campagna elettorale verso contenuti i cui esiti risultano altamente prevedibili, se si tengono a mente le esperienze di quella parte della storia che più da vicino ricalca la fase attuale.
Ci riferiamo, (in senso non frattalico ma fenomenologico), a quella (lunga e ricorrente) fase del ‘900 che vedeva la coesistenza del suffragio universale e, contemporaneamente, l’agireconnaturato delle forze del capitale per neutralizzarne l’effetto destabilizzante sui rapporti di forza strutturali, piegando l’esercizio del voto alla creazione di un sistema di legalità illusorio e sedativo.
“Lo Stato borghese è lo Stato liberale per eccellenza. OGNUNO PUÒ IN ESSO ESPRIMERE LIBERAMENTE IL SUO PENSIERO ATTRAVERSO IL VOTO. Ecco alla lunga a che si riduce la legalità formale nello Stato borghese: all’esercizio del voto.
La conquista del suffragio alle masse popolari è apparsa agli occhi degl’ingenui ideologi della democrazia liberale la conquista decisiva per il progresso sociale dell’umanità. Non s’era mai tenuto conto che la legalità aveva due facce: L’UNA INTERNA, LA SOSTANZIALE; l’altra esterna, la formale.
Scambiando queste due facce, gli ideologi della democrazia liberale hanno ingannato per un certo periodo di anni le grandi masse popolari, FACENDO CREDERE AD ESSE CHE IL SUFFRAGIO LE AVREBBE PORTATE ALLA LIBERAZIONE DA TUTTE LE CATENE CHE LE LEGAVANO. In questa illusione disgraziatamente non sono caduti soltanti i miopi assertori della democrazia liberale. Molta gente che si reputava e si reputa marxista ha creduto che l’emancipazione della classe proletaria si dovesse compiere attraverso l’esercizio sovrano della conquista del suffragio.
Qualche imprudente si è persino servito del nome di Engels per giustificare questa sua credenza. Ma la realtà ha distrutto tutte queste illusioni. La realtà ha mostrato nel modo più evidente che LA LEGALITÀ È UNA SOLA ED ESISTE FIN DOVE ESSA SI CONCILIA CON GL’INTERESSI DELLA CLASSE DOMINANTE, VALE A DIRE, NELLA SOCIETÀ CAPITALISTICA, CON GL’INTERESSI DELLA CLASSE PADRONALE…”.
In questa descrizione possiamo ritrovare tutti i caratteri della situazione attuale, pur in presenza di (sempre più deboli) segnali di crisi del funzionamento dello schema.
Gramsci replicava alle obiezioni, già al tempo non nuove, mosse dal fascista Da Silva, al sistema del suffragio universale.
Obiezioni che sono esattamente le stesse agitate oggi dagli €uropeisti contro la Brexit, i “populismi” e l’esito del referendum sulla riforma costituzionale: secondo Mario da Silva il difetto era che “il numero sia in esso legge suprema”, cosicché la “opinione di un qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi) valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze”. Da qui la risposta di Gramsci:
“Non è certo vero che il numero sia legge suprema, né che il peso dell’opinione di ogni elettore sia “esattamente” uguale.
I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa si misura?
Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc., cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire anche che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia esattamente uguale”.
Ed infatti:
“Le idee e le opinioni non “nascono” spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di irradiazione e di diffusione, un gruppo di uomini o un anche un uomo singolo che le ha elaborate e le ha presentate nella forma politica di attualità.”. 2.2. Ne discende, con un’ovvietà tanto evidente quanto agevolmente oscurabile da parte di tali “centri di irradiazione”, che:
“La numerazione dei “voti” è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che “dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze” (quando lo sono).
Se questi presunti ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiedono, non hanno il consenso della maggioranze, saranno da giudicare inetti e non rappresentanti gli’interessi “nazionali”, che non possono non essere pravalenti nell’indurre la volontà in un senso piuttosto che nell’altro. “Disgraziatamente” ognuno è portato a confondere il proprio particolare con l’interesse nazionale e quindi a trovare orribile ecc. che sia la “legge del numero” a decidere.
Non si tratta quindi di chi “ha molto” che si sente ridotto al livello di uno qualsiasi, ma proprio di chi “ha molto” che vuole togliere a ogni qualsiasi anche quella frazione infinitesima di potere che questo possiede di decidere sul corso della vita dello Stato.“.
3. In realtà, al di là della suggestione degli argomenti (puramente) propagandistici tesi a rendere inviso all’opinione pubblica il processo elettorale,
quanto descritto da Gramsci, corrispondeva con esattezza alla stessa “autodescrizione” dei principali teorici dell’assetto politico liberale, cioè liberista e marginalista.
Ce lo sintetizzano bene le fonti, a suo tempo, selezionate da Francesco:
“… In tutte le società regolarmente costituite, nelle quali vi ha ciò che si dice un governo, noi oltre al vedere che l’autorità di questo si esercita in nome dell’universo popolo, oppure di un’aristocrazia dominante, o di un unico sovrano, punto questo che più tardi esamineremo con miglior cura e del quale valuteremo l’importanza, troviamo costantissimo un altro fatto: CHE I GOVERNANTI, OSSIA QUELLI CHE HANNO NELLE MANI E ESERCITANO I POTERI PUBBLICI SONO SEMPRE UNA MINORANZA, E CHE, AL DI SOTTO DI QUESTI, VI È UNA CLASSE NUMEROSA DI PERSONE, LE QUALI NON PARTECIPANDO MAI REALMENTE IN ALCUN MODO AL GOVERNO, NON FANNO CHE SUBIRLO; ESSE SI POSSONO CHIAMARE I GOVERNATI…” [G. SOLA in Introduzione a G. Mosca, Scritti politici. Vol.I, Teorica dei governi e governo parlamentare, Utet, Torino 1982, 203].
Gaetano Mosca era un “elitista”, un un positivista metodologico (e realista politico), come sostiene G. Sola in Teorica dei governi e governo parlamentare, cit., 13.
Ma sulla stessa scia: “… Lasciando da parte LA FINZIONE DELLA «RAPPRESENTANZA POPOLARE» E BADANDO ALLA SOSTANZA, tolte poche eccezioni di breve durata, da per tutto si ha una classe governante poco numerosa, che si mantiene al potere, IN PARTE CON LA FORZA, IN PARTE CON IL CONSENSO DELLA CLASSE GOVERNATA, MOLTO PIÙ NUMEROSA…” [V. PARETO, Fatti e teorie, Vallecchi, Firenze, 1920, 444]. Anche Pareto, teorico marginalista, era guarda caso un “elitista”.
Orbene, da Mosca (ma anche da Pareto) Einaudi apprende due principi:
“… Primo: il governo del paese non è e non può mai essere retto dalla maggioranza del popolo e neppure da una genuina rappresentanza della maggior parte dei cittadini.
QUESTA È UNA UTOPIA PERICOLOSA E DISTRUGGITRICE DELLA CONVIVENZA SOCIALE.
IL GOVERNO POLITICO DEVE ESSERE IN MANO DI UNA MINORANZA ORGANIZZATA…Dalla buona scelta della classe politica dipende la fortuna di un paese. […]
Secondo: IL PREDOMINIO, necessario e utile, della classe politica, HA BISOGNO, per conservarsi, DI UNA IDEOLOGIA, a cui il Mosca dà il nome di ‘formula politica’: E QUESTA PUÒ ESSERE LA FORZA, LA EREDITÀ, IL DIRITTO DIVINO, LA SOVRANITÀ POPOLARE.
PRESSO A POCO, TUTTE QUESTE FORMULE SI EQUIVALGONO, essendo essepuramente la manifestazione esteriore verbale delle vere ragioni per le quali la classe politica afferma la sua capacità a governare le moltitudini” [L. EINAUDI, Parlamenti e classe politica, Corriere della Sera, 2 giugno 1923, ora in Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. VII, 264-265).
E ciò perché, per Einaudi, “Lo stato rappresentativo è…fondato sull’esistenza di forze indipendenti e distinte dallo stato medesimo: RESTI DI ARISTOCRAZIA TERRIERA, CLASSI MEDIE CHE TRAGGONO LA LORO PROPRIA VITA DALL’ESERCIZIO DI INDUSTRIE, DI COMMERCI E DI PROFESSIONI LIBERALI, RAPPRESENTANTI DI OPERAI ORGANIZZATI DI INDUSTRIE NON VIVENTI DI MENDICITÀ STATALE. Se queste condizioni sono soddisfatte, noi abbiamo un governo veramente libero; in cui i funzionari non sono l’unica classe politica esistente, ma una delle tante forze, dal cui contrasto e dalla cui cooperazione sorge la possibilità di un’azione veramente utile al tutto” (Parlamenti cit.).
Bene, questo è il manifesto della classica democrazia liberal-€urista e mondialista che non tollera obiezione.
4.1. Questo disegno di riequilibrio definitivo del senso stesso del voto, in quanto armonizzato “istituzionalmente” nella democrazia sostanziale, è descritto da Basso proprio in un rammaricato consuntivo dei lavori dell’Assemblea Costituente.
Un consuntivo intriso, appunto, di rammarico perché
il “riequilibrio” non riuscì pienamentee, questo fatto (realmente epocale), lungi dal costituire il marginale ostacolo ad una concezione utopistica, spiega direttamente
come e perché oggi ci ri-troviamo in questa situazione, allontanati dalla democrazia necessitata: cioè perché ci ritroviamo in una democrazia che semplicemente
non è, perché deprivata della sua “forma necessaria” e del suo “contenuto coessenziale”, come dice Mortati a pag.143, vol I, delle sue istituzioni di diritto pubblico.
4.2. Vi riporto
il discorso di Basso proprio perché oggi mi pare riattualizzato in ogni suo passaggio (e mantenendo l’impegno a dedicare un post a tale discorso, preso oltre un anno fa):
«Trent’anni fa, in un cielo ancora carico di nubi, spuntava l’alba della repubblica.
A quell’evento io avevo contribuito, essendo stato il primo dirigente della sinistra ad essermi battuto per la tesi del referendum istituzionale, perché nella prudenza dei compagni, socialisti e comunisti, che volevano affidare la scelta alla assemblea costituente, scorgevo il pericolo di una defatigante trattativa di vertici che si sarebbe magari conclusa con un cattivo compromesso fra il ricatto clericale da una parte e, dall’altra, la volontà di non rompere l’unità antifascista.
Affidata direttamente al popolo, quella decisione di trent’anni fa acquistava una maggior forza dirompente e avrebbe forse potuto, se fosse stata guidata con maggior decisione, disperdere anche le nubi che si addensavano sull’orizzonte.
Affidata direttamente al popolo che è, qualunque cosa ne possano pensare i giuristi, l’autentico depositario della sovranità, quella decisione assumeva un preciso significato di rottura col passato e sanzionava, anche sul piano formale, la volontà popolare di rottura espressa con le armi durante la Resistenza.
Purtroppo le cose andarono diversamente e la costituzione che, dopo la resistenza e il referendum repubblicano, avrebbe dovuto completare il trittico che esprimesse il volto di un’Italia interamente rinnovata, fu invece segnata dal compromesso grazie alla resistenza delle forze conservatrici che avevano avuto tutto l’agio di riprendersi e riorganizzarsi,principalmente al riparo dello scudo crociato.
Un po’ semplicisticamente si può dire che il compromesso significò una costituzione molto coraggiosa nelle promesse (i principi fondamentali) e prudente nelle realizzazioni (l’organizzazione dello Stato)…
I miei ricordi si riferiscono soprattutto al lavoro della prima Sottocommissione (della Commissione dei 75), incaricata di redigere appunto la parte relativa ai principi generali e ai diritti di libertà civile e politica.
Personalmente fui relatore, e quindi coautore, con La Pira sui diritti di libertà civile ma partecipai attivamente a tutto il lavoro della Sottocommissione e, oltre agli articoli di mia particolare spettanza, ne proposi anche altri in sede di rapporti politici.
Di quel periodo conservo alcuni ricordi particolarmente vivi.
In primo luogo l’atmosfera in cui si lavorava, che fu, press’a poco fino alla fine dei lavori della Sottocommissione, un’atmosfera di leale collaborazione fra i principali gruppi politici: gli ultimi echi di quella ch’era stata l’atmosfera della Resistenza e che doveva spegnersi di lì a poco, grazie soprattutto alle iniziative di Saragat e di De Gasperi e alle sollecitazioni di Washington.
Ma vorrei qui anche ricordare i due articoli, proposti esclusivamente da me senza la collaborazione di La Pira, che mi riuscì di far passare nella Costituzione, che sonò gli attualiarticoli 3 capoverso e 49. Sono articoli che hanno fatto consumare in questi trent’anni molto inchiostro ai giuristi, anche perché entrambi si collocano in una visuale assai diversa, per non dire contraria, da quella in cui si colloca il profilo generale della nostra costituzione.
L’art. 49 è quello che ha riconosciuto il ruolo costituzionale dei partiti, fin allora considerati semplici associazioni private, costituzionalmente non rilevanti. Era, credo, la prima menzione dei partiti in una costituzione occidentale, e fu poi seguito dall’art. 21 della Legge fondamentale germanica.
Ma maggiormente innovativo fu il capoverso dell’art. 3, considerato da molti giuristi come la norma fondamentale (“Grundnorm”) della costituzione e da altri come una semplice affermazione senza valore.
Ricordo, per i lettori non giuristi, che il primo comma di quello stesso articolo ripete una norma standard di tutte le costituzioni sull’eguaglianza dei cittadini:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Siamo qui, è chiaro, in presenza di una eguaglianza puramente formale: la legge rimane eguale per tutti, ma la sua applicazione è diversa, perché la società è composta di persone disuguali.
C’è forse la stessa libertà di stampa per il multimiliardario che può fare il “suo” giornale e la comune dei mortali? L’esperienza ci mostra che anche in carcere c’è una profonda differenza di trattamento fra l’imputato comune, ancor oggi soggetto a maltrattamenti, e il generale che va diretto in infermeria e viene rapidamente scarcerato. Nonostante la conclamata uguaglianza di diritto, i cittadini sono ben lungi dal fruire di diritti uguali.
Ed ecco allora il senso del secondo comma dello stesso art. 3 da me introdotto:
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.
Messo immediatamente di seguito al primo, questo comma ha un netto significato polemico: la Costituzione stessa riconosce che un principio fondamentale, come quello dell’eguaglianza, non è e non sarà rispettato in Italia finché non muteranno radicalmente le condizioni economiche e sociali.
Ma la stessa polemica si rivolge, può dirsi, contro tutta la Costituzione: nessuna libertà è effettiva finché sussistono le attuali condizioni; il voto dei cittadini non è uguale finché perdurano ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini; la stessa sovranità popolare, base della democrazia, è un’illusione se non tutti i lavoratori possono partecipare effettivamente all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Da ciò discende un’altra conseguenza importante.
L’ordine giuridico è stato sempre edificato a difesa dell’ordine sociale, per impedire o punire i tentativi di modificarlo; ora, per la prima volta, abbiamo nell’ordinamento giuridico una norma che condanna l’ordine sociale esistente e impone allo Stato di correggerlo.
In altre parole se nella concezione tradizionale la pretesa di modificare l’ordine sociale costituiva un’offesa all’ordinamento giuridico, oggi è vero il contrario: è la volontà di conservazione dell’ordine sociale che costituisce un’offesa allo stesso ordinamento giuridico. Non dirò naturalmente, che la prassi di questi trent’anni si sia conformata a quest’ordine costituzionale. Ma l’affermazione rimane e sta a noi esigerne l’applicazione, anche con il voto del 20 giugno. La Costituzione – diceva Lassalle agli operai tedeschi – siete anche voi perché siete una forza e la Costituzione è, in ultima istanza, un rapporto di forze.»
5. I più attenti lettori potrebbero chiedersi come mai mi soffermi a richiamare, ancora una volta, concetti e analisi che sono alla base della “legalità costituzionale” italiana. Alcuni potrebbero persino chiedersi quanto questi concetti e queste analisi siano collegabili alle prospettive elettorali attuali.
Ma occorre considerare che il “grado di separazione” dell’elettorato da questa legalità costituzionale (superiore ed intangibile da ogni altra), per un evidente fattore mediatico-culturale, non è mai stato così ampio: lo stesso continuo agitare il concetto di “legalità”, oggi tanto in voga, risulta un espediente per la restaurazione acritica della ben diversa “legalità” dello Stato liberale criticata da Gramsci e Basso. Parrebbe un controsenso, ma è facile constatarlo.
Molti, ancora, si chiederanno come il discorso ora svolto si possa collegare alla questione dell’euro e de L€uropa. Ebbene, se se lo chiedono, non è stato allora inutile richiamare queste analisi e questi concetti.
Anche se ancora non ne prendono atto.
5.1. Ma presto, probabilmente proprio a seguito delle prossime elezioni, saranno indotti a farlo. O a ritirarsi dalle proprie posizioni attuali.
Gli sviluppo storico-politici non necessariamente rispondono ad una piena consapevolezza, da parte dei suoi principali protagonisti, delle “necessità” che impongono certi obiettivi politico-economici.
Lo scenario, infatti, è inevitabilmente offuscato, nei suoi stessi contorni, – cioè nell’individuazione degli
interessi materiali cui si vorrebbe dare rappresentanza- dai “centri di irradiazione” di cui abbiamo visto il ruolo all’inizio.
Appunto perciò ci torneremo.
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